Linguaggio degenere

di Alberto Voltolini


In questi anni, stiamo assistendo a tentativi di riforma della lingua italiana relativi al cosiddetto maschile non marcato, considerato qui non nei casi in cui è usato per riferirsi ad animali indipendentemente dal loro sesso[1], ma nei casi in cui è usato per riferirsi a persone di qualunque genere, prese nelle loro caratteristiche o ruoli. In italiano vige al momento una regola che prescrive per questi ultimi casi l’impiego di un tale termine[2], determinando così quello che viene comunemente chiamato il maschile sovraesteso. Come p.es. in: 

(1) Il candidato presenta al concorso 15 pubblicazioni

(2) I commissari di concorso non hanno tra loro rapporti di parentela

rispettivamente impiegati per parlare al singolare di chiunque sia (l’unico) candidato a una certa posizione e al plurale per chiunque svolga il ruolo di commissario di concorso. Secondo i difensori di tali tentativi, tale uso neutro andrebbe riformato, in quanto portatore di valori patriarcali non più aderenti al cambiamento che sta avendo luogo nella società per arrivare a una reale parità di genere.

Una premessa di metodo. In questo saggio, non mi occuperò dell’uso di termini al maschile per indicare non persone di qualunque genere, ma persone di genere femminile, come in il primo ministro usato per parlare dell’attuale premier Giorgia Meloni. Tale uso infatti non sembra corretto, potendosi, come suggerisce l’Accademia della Crusca[3], usare in tali casi dei termini al femminile (p.es., la prima ministra), in conformità a una già sussistente regola dell’italiano (si vedano al riguardo p.es. Sabatini 1987, Thornton 2009, Robustelli 2014). Da questo punto di vista, proprio perché tale regola già sussiste, il conio di termini al femminile finora mancanti per designare persone di genere femminile (p.es., la assessora, la sindaca) semplicemente colma una lacuna fattuale della lingua. La cosa varrebbe ovviamente anche al contrario, per quei (pochi) casi, ammesso che ve ne siano, per cui non sussista un termine al maschile per indicare persone di genere maschile. Per citare un’altra situazione simile, in italiano già usiamo termini per animali per indicare non solo gli animali stessi, ma anche la loro carne (p.es. coniglio, vitello). Proprio perché già abbiamo tale regola, se ci mettessimo a mangiare ornitorinchi, saremmo giustificati a usare così anche ornitorinco; semplicemente, applicheremmo ad una nuova circostanza una regola già in uso.

Affronterò invece in questo saggio due questioni, una fattuale – se si possa compiere una riforma del maschile sovraesteso – l’altra che i filosofi chiamerebbero normativa – se si debba compiere una tale riforma. Mentre resterò possibilista rispetto alla prima questione, avanzando anche una nuova proposta, quella che chiamerò la proposta “sarda allargata” che non pare avere i problemi che investono le proposte al momento sul mercato, darò una risposta negativa alla seconda: non ci sono motivazioni buone per un siffatto cambiamento. Il che è rilevante, se, come nota la stessa Gheno, “ogni posizione dovrebbe essere argomentata in maniera seria, e non in base a impressioni ‘di pancia’” (2019, p. 137). Tratterò della prima questione nella Sezione 1, della seconda nella Sezione 2.

1. La questione fattuale

Per compiere una riforma del maschile sovraesteso, sono all’opera varie proposte. Ricorderò qui le principali:

1. Passare dal maschile sovraesteso al femminile sovraesteso (nel caso di (1) e di (2), usare rispettivamente “la candidata” e “le commissarie” per riferirsi indistintamente a persone di genere maschile e femminile);

2. Sostituire il maschile sovraesteso con coppie di termini maschili e femminili (p.es., care tutte e cari tutti) (ciò dovrebbe valere anche nel caso dei pochi termini apparentemente non marcati, premettendo al termine l’opportuna coppia di articoli – la/lo studente, le/gli studenti);

3. Sostituire il termine al maschile per tale uso con termini aventi terminazioni ad hoc (p.es. asterisco – car* tutt* – o schwa breve al singolare – carə tuttə – e schwa lunga al plurale – carɜ tuttɜ) (si veda al riguardo p.es. De Benedetti 2022).

Purtroppo, nessuna di queste proposte sembra funzionare. La 1) manca clamorosamente il suo obiettivo: se il maschile sovraesteso è sbagliato, perché non adeguatamente inclusivo, il femminile sovraesteso è altrettanto sbagliato, per la stessa ragione; inversamente, se il femminile sovraesteso non è sbagliato, non lo è neppure il maschile sovraesteso. Come ricorda Claudio Marazzini in una consulenza linguistica per l’Accademia della Crusca (Marazzini 2014), tale proposta è anche cognitivamente costosa – visto che al momento l’interpretazione standard di un termine di persona al femminile non è quella sovraestesa – e potrebbe così ingenerare effetti comici o sgradevoli (chi scrive si è in effetti trovato di fronte un facsimile di proclamazione di laurea che recitava “la dichiaro e proclamo dottoressa in Filosofia”, che, se proferito di fronte a tesisti maschi, poteva determinare in loro smarrimento o irritazione). La proposta binaria 2), che sembra ricordare una delle sentenze di Clint Eastwood ne Il Buono, il Brutto e il Cattivo di Sergio Leone (“Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica, e chi scava”), non solo è antieconomica cognitivamente, perché allunga inutilmente e pesantemente un testo con innumerevoli distinzioni del tipo o/a o i/e (si pensi ai casi in cui il maschile sovraesteso da riformare ricorra in numerose frasi che si susseguono, come nei documenti istituzionali di cui (1) e (2) fanno tipicamente parte), ma anche non è sufficientemente inclusiva, non potendo coprire le persone che non si riconoscono in un genere dato (De Benedetti 2022, Iacona 2022). Le proposte della categoria 3) non sono invece sufficientemente realistiche, in quanto non riescono a soddisfare i criteri di fruibilità effettiva di una lingua (Iacona 2022). Infatti, per quanto riguarda la proposta asterisco, l’impiego dell’asterisco non è a griglia sufficientemente fine – non distingue tra singolare e plurale, cfr. car* amic* – e neppure è pronunciabile nel linguaggio orale. Per quanto riguarda la proposta schwa, l’uso di schwa breve e lunga risolve sì (in risposta a D’Achille 2021, p. 80) il problema della distinzione di numero (singolare/plurale) che l’uso dell’asterisco non riesce a affrontare, ma, in maniera simile all’asterisco, affonda a sua volta, in questo caso per l’indistinguibilità orale delle due schwa: i parlanti dell’italiano non riescono a distinguere tra il suono della schwa breve e quello della schwa lunga, che si confondono in uno stesso suono tipico di certi dialetti meridionali dell’italiano (non sarà inopportuno ricordare che il singolare curre in Curre Curre Guagliò dei 99 Posse e il plurale simmo nella celeberrima Simmo ’e Napule paisà suonano esattamente allo stesso modo, almeno per chi non abbia un orecchio particolarmente attrezzato).

Certamente, il fatto che le attuali proposte, almeno quelle principali, non funzionano non significa che altre non potrebbero funzionare. Per esempio, si potrebbe riadattare una proposta che al momento è solo una variante della proposta asterisco, quella che si potrebbe scherzosamente chiamare la proposta ‘sarda’, giocata sul valore non marcato della u (ovviamente, come capiscono tutti, questo è un preteso valore, visto che in realtà in sardo la u costituisce una declinazione al maschile: p.es., su populu sardu), nei termini di quella che potremmo chiamare la proposta “sarda allargata”. Questo riadattamento renderebbe la proposta in questione atta a soddisfare tanto la distinzione di numero quanto il requisito della pronunciabilità, presentando una desinenza “u” al singolare e una desinenza ripetuta uu al plurale (p.es., caru amicu al singolare e caruu amicuu al plurale), che, per quanto forse cacofoniche, risultano chiaramente distinguibili anche all’udito. Certo, come notano D’Achille (2021) e Iacona (2022), la proposta potrebbe suonare cripto-maschilista relativamente a quei termini per cui la distinzione tra maschile e femminile non è questione di desinenza vocalica, come in sostenitore/sostenitrice, essendo sostenitoru più vicino al termine maschile che al termine femminile (analogamente per il suo plurale in uu). Ma, si potrebbe dire, la neutralità acquisita a livello tanto scritto quanto orale rispetto al genere, nonché la segnalazione fonetica della diversità rispetto al numero, può compensare questo prezzo da pagare per la proposta ‘sarda’ allargata, da giustificare poi magari rispetto a una corrispondente opzione cripto-femminista con ragioni eufoniche (sostenitriciu e analoghi suonano davvero male).

Certamente, anche se una proposta di riforma del maschile sovraesteso, supponiamo quella “sarda allargata”, potesse funzionare dal punto di vista fattuale (naturalmente si potrebbero sollevare al riguardo ulteriori obiezioni, p.es. il fatto che in italiano non si hanno tendenzialmente ripetizioni di vocali, sebbene nell’uso esistano eccezioni, come nelle esclamazioni – uuuh! – e negli stessi finali di parola, come nei richiami – attentoooo! – per non dir nulla di zoo), resterebbe a questo punto ancora da vedere se tale maschile non ha ragioni linguistiche a suo favore. Iacona (2022) sostiene che sia così, chiamando convincentemente in causa argomenti legati alla costruzione del plurale e alla quantificazione rispetto a termini come “tutti” usati in modo neutro. Ma supponiamo pure che il sostenitore dell’abolizione del maschile sovraesteso trovi un modo di replicare a queste ultime ragioni. Si pone a questo punto la questione più forte, quella normativa: c’è bisogno di una siffatta riforma? Nella sezione seguente, proverò a mostrare che non è così.

2. La questione normativa 

Nel corso di questa Sezione, non discuterò di una questione psicologica o sociologica, ossia se qualcuno, idealmente un gruppo di persone o una lobby, vuole mantenere il maschile sovraesteso. Nostalgici in una direzione o nell’altra ci sono sempre ma non è questo il punto. Mi occuperò invece di una questione normativa, ossia se bisogna attuare tale riforma. In tale contesto, proverò a mostrare che ci sono due ordini di argomenti importanti per respingere la riforma in questione. Eccoli:

a) L’idea di una riforma dell’impiego dei termini al maschile per l’uso neutro commette una fallacia, la fallacia genetica; poiché tale impiego è infatti una faccenda di convenzione presemantica, dunque fondamentalmente una faccenda di pragmatica, anteriore alla fissazione del significato (verocondizionale[4]) di un enunciato (Perry 1997), tale idea non è semanticamente motivata.

b) L’idea di una siffatta riforma non ha né motivazioni semantiche né altre buone.

Partiamo da a). Nella filosofia del linguaggio contemporanea, si è fatto spesso appello a quello che è stato notato anche in altri campi, ossia alla fallacia genetica, l’idea di confondere materie di significato con quelle che sono materie di etimologia nel senso ampio del termine, cioè materie relative all’origine di un uso dotato di un certo significato. È noto per esempio che, secondo la teoria del riferimento diretto attualmente in voga in semantica (Donnellan 1966, Kripke 1980, Kaplan 1989 …), i nomi propri non hanno un significato descrittivo, ma hanno per significato il loro contributo verocondizionale (tipicamente, i loro referenti). Ora certamente, una tale teoria ammette che un contenuto descrittivo sia sovente all’origine della scelta di un nome; ma, prosegue la teoria, non ne costituisce il significato. Pensare diversamente significa per l’appunto commettere la fallacia genetica. Questo è il caso del nome Dartmouth in inglese, in cui tale nome è stato certamente scelto per parlare della città che si trova alla foce del fiume Dart, ma il cui significato consiste semplicemente nella città stessa; come prova il fatto che, se Dartmouth non si trovasse più alla foce di quel fiume, continuerebbe a chiamarsi così (Kripke 1980, p. 26). Lo stesso vale in italiano per il nome Carceri Nuove: esso è notoriamente il nome di un edificio torinese che non è certamente più nuovo e non è neppure più sede di un carcere, ma di un museo. Lo stesso punto si può vedere nel caso di sostantivi che non sono nomi propri; contro la fallacia, tali sostantivi hanno un significato che non coincide con la loro origine. Si pensi alla parola turca divan, che oggi significa ‘consiglio di saggi’, traendo quel significato per via metaforica dal fatto che in origine, tali saggi tipicamente si riunivano su divani.

Ora, la stessa fallacia è all’opera anche nel caso del maschile sovraesteso, come cercherò di mostrare.

In italiano, lingua che non possiede un’espressione per il neutro, si usano termini al maschile non solo per indicare persone di genere maschile, ma anche per indicare neutralmente persone di un certo tipo, indipendentemente dal genere. Precedentemente, io stesso ho usato p.es. “i difensori” in questo modo, per parlare di chiunque abbia difeso, indipendentemente dal suo genere di appartenenza, la riforma del maschile sovraesteso. Ora, la suddetta distinzione tra uso al maschile e uso neutro di termini al maschile ha rilevanza semantica, dato che nei due usi il termine rilevante ha un’estensione diversa. Si vedano p.es. i differenti significati mobilitati da: 

(3) I professori sono pregati di non tenere comportamenti molesti

quando in un caso, quello dell’uso al maschile, il termine “professori” si applica soltanto ai professori di genere maschile, mentre nell’altro caso, quello dell’uso neutro, il termine si applica invece a tutti coloro che rivestano il ruolo professorale, indipendentemente dal genere.

Ebbene, non c’è dubbio che la scelta convenzionale che sta all’origine dell’impiego per l’uso neutro di termini al maschile, piuttosto p.es. che termini al femminile, ha delle precise ragioni storico-sociali, ossia la predominanza di società maschiliste. In una comunità di amazzoni, si sarebbe probabilmente adottata la convenzione diversa, così praticando il femminile sovraesteso. Non credo ci sia bisogno di argomentare per una siffatta ovvietà; basti considerare perché abbiamo in italiano termini come matrimonio e patrimonio, su cui tra poco ritornerò, legati evidentemente a pregiudizi maschilisti connessi all’origine delle parole latine da cui derivano, per cui sposarsi è un compito della madre che rende legittimi i figli nati da un’unione, mentre gestire una sostanza economicamente rilevante è faccenda del pater familias. Ma tale scelta convenzionale precede la determinazione del significato del termine in tale uso; è infatti una faccenda pragmatica di tipo presemantico (Perry 1997), come quella che riguarda la scelta del contesto rilevante per interpretare (sotto un profilo verocondizionale, quindi in tale caso rispetto al suo riferimento) un’espressione indicale. Si pensi p.es. all’enunciato: 

(4) Io sono parcheggiato dietro.

Tipicamente, in un’occorrenza di tale enunciato l’indicale “io” non si riferirà al parlante, come di solito fa, ma a un oggetto che sta al parlante stesso in una certa relazione pragmatica, in questo caso una di tipo metonimico; vale a dire, l’auto posseduta dal parlante (Nunberg 1979). Tale trasferimento semantico è reso possibile dalla scelta presemantica di ritenere il contesto pertinente per l’interpretazione semantica (verocondizionale) di “io” in quell’occorrenza, cioè il suo riferimento, non il cosiddetto contesto proprio, in cui l’indicale “io” si riferisce al parlante che proferisce l’enunciato perché costui gioca il ruolo dell’agente in quel contesto, ma un altro contesto in cui il ruolo dell’agente del contesto è giocato da un altro individuo che sta in una qualche relazione pragmatica con tale parlante; in questo caso, la sua auto (Predelli 2005). Così, tornando al caso del maschile sovraesteso, la scelta di usare in modo neutro un termine al maschile riguarda l’origine, ma non il significato, del termine in tale uso; chi pensasse il contrario commetterebbe di nuovo la fallacia genetica.

A questo punto, se l’uso neutro di termini al maschile non coinvolge faccende di significato, ma solo faccende di origine di tale uso, non si vede perché dover cambiare la regola convenzionale che è stata messa in opera da quell’uso. Per vedere il punto, si considerino altri esempi simili. Riprendiamo appunto le parole matrimonio e patrimonio. Non c’è dubbio che in italiano, come dicevo, i due termini sono venuti fuori sulla base dei bias che sono principalmente le donne ad essere interessate a uno sposalizio e sono principalmente gli uomini a possedere beni. Ma questi bias che sono sicuramente all’origine di tali opzioni terminologiche non riguardano l’attuale significato di tali termini, come mostra il fatto che quei termini sono rispettivamente traducibili senza problemi in altre lingue che non recano traccia di tale origine. Si prendano a esempio i termini tedeschi Heirat e (Kapital)Vermögen, che traducono matrimonio e patrimonio nel loro esserne rispettivamente sinonimi, ma non recano nella loro origine traccia di simili bias. Gli esempi potrebbero continuare (perché diciamo “patria” e non “matria”)? Se così è, perché mai dovremmo rimuovere dall’italiano termini siffatti per rimpiazzarli con altri termini che non recano traccia di quell’origine? Come nota anche Vera Gheno: 

Se ci mettessimo in continuazione a rinegoziare i vari elementi che compongono il codice, non ne usciremmo mai: la comunicazione rischierebbe di perdersi in un chiacchiericcio continuo. E rischieremmo di esporci a pericoli: che succederebbe se, a ogni semaforo ci mettessimo a contestare il fatto, assai condiviso, che con il rosso ci si ferma? Se ogni volta bloccassimo l’incrocio per disquisire del motivo per cui qualcuno, a suo tempo, ha creato l’accoppiata rosso-stop? (2019, p. 17)

Qualcuno potrebbe adesso obiettare che a volte, basta la genesi, non il significato, di un termine per rendere necessaria la sua rimozione. Supponiamo p.es. che durante il fascismo, il Duce avesse imposto di chiamare tutti i primogeniti Benito (in realtà, non è andata troppo diversamente…). Naturalmente, per ognuna delle occorrenze di Benito, se la teoria del riferimento diretto è corretta il suo significato è il suo portatore. Ciò nondimeno, chi si chiama così non potrebbe sentirsi imbarazzato a portare cotanto nome e a chiedere di cambiarlo, una volta ripristinata la democrazia?

Certamente; questo è quello che ordinariamente si fa quando qualcuno porti un cognome che suona come una parola oscena o volgare. Ma attenzione: in tutti questi casi, la rimozione del termine incriminato è giustificata per l’associazione, ai limiti dell’omonimia, tra tale termine e un altro termine dotato di un altro, e problematico, significato. Ma nel caso del maschile sovraesteso, quale sarebbe l’altro termine in questione? O per venire all’altro precedente esempio, quali sono le parolacce omonime rispettivamente associate a matrimonio e patrimonio?

A questo punto, può sorgere naturale un’altra obiezione. Le convenzioni si possono cambiare anche quando non riguardano il significato (verocondizionale) di un’espressione, ma p.es. perché offendono gli interlocutori, o almeno li turbano[5]. Così, persone di genere femminile possono sentirsi offese, o turbate, o quantomeno imbarazzate, quando sentono impiegare sempre, o prevalentemente, termini non marcati maschili. Sarebbe proprio così anche per gli uomini, se vigesse il femminile sovraesteso e si avesse dunque a che fare con i seguenti sinonimi di (1) e (2) rispettivamente: 

(1F) La candidata presenta al concorso 15 pubblicazioni

(2F) Le commissarie di concorso non hanno tra loro rapporti di parentela.

Rispetto a quest’obiezione entra in gioco b). Certamente, convenzioni presemantiche possono cambiare anche quando non riguardano il significato (verocondizionale) di un’espressione, com’è il caso di tante altre convenzioni; ma ci dev’essere una motivazione buona per tale cambiamento, che sia semantica o meno. In assenza di tale forma di motivazione, il cambiamento di una convenzione presemantica, che sarebbe comunque problematico in quanto frutto di un’imposizione ‘dall’alto’ e non il frutto di un mutamento “dal basso”, dalla concreta prassi della lingua,[6] è ingiustificato.

Per cominciare, vediamo una situazione in cui una convenzione non linguistica, scelta storicamente per certi accidenti storici, può essere motivatamente cambiata. Forse, guidare a sinistra nel Regno Unito trova la sua origine nel fatto che, per i cavalieri, era conveniente lasciare libera la mano destra per impugnare la spada in un duello a cavallo. Ciò non toglie che guidare a sinistra nel Regno Unito sia una mera convenzione; si sarebbe infatti tranquillamente potuto guidare a destra anche lì, come nella maggior parte del mondo. Tuttavia, c’è una motivazione buona, di tipo utilitaristico, perché tale convenzione venga sostituita con l’opposta convenzione oggigiorno in voga nella maggior parte del mondo; è ragionevole supporre che con la globalizzazione, il numero di incidenti tanto per mancanza di consuetudine alla guida a sinistra nel Regno Unito da parte degli abitanti della maggior parte del mondo, quanto per mancanza di consuetudine alla guida a destra nella maggior parte del mondo da parte dei britannici, sia aumentato.

Analogamente, venendo alle convenzioni linguistiche, è bene limitare quanto più possibile l’uso di epiteti con valenza dispregiativa o gli epiteti intrinsecamente dispregiativi – cioè, tali in quello che i filosofi chiamano carattere o significato linguistico[7] – perché tale uso o tali epiteti giustamente offendono gli interlocutori. Non è questo l’ambito per entrare nel complesso e vivace dibattito sugli slurs[8]. Basterà ai presenti scopi notare che l’offesa o il turbamento in questione sussistono proprio perché l’aspetto dispregiativo riguarda il significato ampio in cui è usato l’epiteto o il significato linguistico proprio dell’epiteto stesso, come mostrano i seguenti fatti. In primo luogo, come sappiamo da Kripke (1979), una distinzione linguistica è di rilevanza pragmatica quando non è sensibile alla traduzione (nel caso che aveva in mente Kripke, la distinzione tra uso referenziale e uso attributivo di una descrizione definita[9]), ma è di rilevanza semantica quando è sensibile alla traduzione. Ora, quest’ultimo è il caso della differenza tra uso dispregiativo e uso non dispregiativo di uno stesso termine; quindi, qualcuno si può sentire giustamente offeso dall’uso dispregiativo di un termine. Prendiamo p.es. la parola negro – che chiaramente non è in italiano un epiteto dispregiativo, trattandosi di una pura variante di nero, addirittura forse più vicina di nero al termine latino niger/nigra/nigrum da cui deriva; il fatto di ritenerlo tale dipende dal pregiudizio consistente nell’aver equiparato tale parola al termine inglese, questo sì dispregiativo, nigger; il tutto è perfettamente mostrato in Marazzini (1996) – e consideriamola nel suo uso non dispregiativo e in quello dispregiativo, manifestati rispettivamente da due canzoni con pochi anni di differenza tra loro: 

(5) Pur se la Vergine è bianca / Fammi un angelo negro / Tutti i bimbi vanno in cielo / Anche se son solo negri (Angeli negri, Fausto Leali)[10]

(6) È andata a casa con il negro, la troia (Colpa d’Alfredo, Vasco Rossi).

Con buona pace di Gheno (2024, p. 41)[11], tale differenza è semanticamente rilevante, come mostra il fatto che il primo uso è catturato dal tradurre negro in inglese con black, il secondo dal tradurla coll’epiteto intrinsecamente dispregiativo nigger. Quindi, qualcuno può sentirsi giustamente offeso dall’uso dispregiativo di negro, in virtù del suo significato in tale uso. In secondo luogo, prendiamo un epiteto intrinsecamente dispregiativo e il termine corrispondente non dispregiativo. Nuovamente, la loro differenza è semanticamente rilevante, perché per tradurre il primo epiteto bisogna ricorrere nella lingua traducente a un altro epiteto intrinsecamente dispregiativo, non a un corrispondente termine non dispregiativo (p.es., sarebbe errato tradurre frocio in inglese non con faggot, dispregiativo come il primo, ma con il non dispregiativo gay, che invece ben traduce omosessuale, altrettanto non dispregiativo). Data tale differenza semantica tra i due termini, è giusto che, nella famosa partita di calcio Italia-Francia del 2006, il calciatore francese Zidane si sia ritenuto offeso dal calciatore italiano Materazzi che si è rivolto a lui dicendo (stando all’aneddoto): 

(7) Tua sorella è una zoccola

ma non sarebbe stato giusto se Materazzi gli avesse detto: 

(8) Tua sorella è una sexworker

dato che sexworker, a differenza di zoccola, non è dispregiativo, in quanto si limita a riferirsi ad una professione come le altre, alla stregua di pornoattore.

Al contrario, però, sempre rimanendo a convenzioni linguistiche, sarebbe arbitrario rimuovere il termine matrimonio se qualcuno, magari di genere femminile, si sentisse offeso, o anche solamente turbato, dall’impiego di quel termine[12]. Poiché il fatto che si sia scelto quel termine non riguarda in alcun modo il significato di quel termine, l’offesa o il turbamento non hanno una motivazione buona per sussistere[13]. Analogamente, sarebbe arbitrario rimuovere la convenzione presemantica riguardante l’impiego di un termine al maschile per l’uso neutro. Non riguardando tale impiego del termine il significato indifferente al genere di quell’uso, chi si sentisse offeso o turbato da quell’impiego non avrebbe una motivazione buona per esserlo.

Ma forse, qualcuno potrebbe ulteriormente ribattere, ci sono altre ragioni non semantiche, indipendenti dalle precedenti questioni psicologiche, per rimuovere da una convenzione linguistica, in particolare una di tipo presemantico come quella che ci interessa qui. Per esempio, l’impiego del maschile sovraesteso può risultare una violazione della logica di cortesia, visto che con esso si ha a che fare con persone e non con cose; oppure, può risultare cognitivamente non economico, per esempio perché può indurre a fraintendimenti[14].

In primo luogo, però, un’eventuale violazione di galateo non basta a giustificare una cospicua riforma linguistica, che riguarda vari terreni della lingua, non un terreno particolare. Impiegare il candidato nell’uso neutro, come in (1), non è come impiegare hey tu! in una lettera accademica al Rettore. Se si cambia il candidato in tale uso si devono cambiare tanti altri termini in tale uso impiegati in campi disparati: il proferitore, l’ingegnere, il cartesiano

In secondo luogo, prima di tutto va spiegato in che senso l’uso neutro sarebbe cognitivamente non economico, per ottenere una buona motivazione alla sua riforma. Ragioni di economia cognitiva sono certamente rilevanti al fine di riforme del genere. Potrebbe p.es. darsi che nello sviluppo dell’italiano la preposizione per venga rimpiazzata dal segno matematico x, attualmente usato per indicare l’operazione di moltiplicazione, vista la maggiore rapidità nello scrivere e pronunciare il secondo rispetto alla prima. Ma nel nostro caso, non basta dire per esempio che l’uso neutro genera dei fraintendimenti semantici, p.es. il fatto che una persona di genere femminile potrebbe pensare che in (1) il candidato non sia usato in senso neutro ma solo per indicare persone di genere maschile. A questo tipo di fraintendimento, infatti, si può ovviare con una pratica di disambiguazione che coinvolga il cotesto linguistico. Nel nostro esempio, basterebbe dire “il candidato, chiunque egli o ella sia” al primo utilizzo contestuale de il candidato come maschile sovraesteso. La stessa strategia si potrebbe adottare rispetto al classico esempio di chi pensa che un chirurgo sia per forza di cose un uomo (Belle et al. 2021, Gygax et al. 2021).[15]

Ma poi, quello che è cognitivamente non economico sembra essere non il maschile sovraesteso, bensì l'uso riformato, in quanto quest’ultimo comporta un cambiamento di una regola con un’altra regola non presente nel linguaggio (a differenza p.es. della già citata regola che prescrive un termine al femminile per una persona di genere femminile, regola che semplicemente trova una nuova applicazione in nuovi casi – la assessora, la sindac…).

Certamente, si potrebbe replicare che questo è sempre il prezzo da pagare per l’introduzione di ogni nuova regola, che viene poi ammortizzato con l’uso[16]. Ma qui il rischio è che l’uso non basti a compiere tale ammortizzamento. Perché qui, a differenza di quello che come abbiamo appena visto può succedere col maschile sovraesteso, il fraintendimento può non essere all’opera solo in un contesto inaugurale di un uso neutro conforme alla nuova regola, ma si trascina nella successione di contesti. Supponiamo per esempio che si adottasse in italiano la proposta che si trova adesso sovente utilizzata in inglese in testi tecnici – p.es., in molti articoli contemporanei di filosofia – per esprimere l’uso indifferente al genere; cioè, far anaforicamente seguire a un termine ipoteticamente neutro un pronome al plurale, loro[17]. Ci sarebbe mai un momento in cui rispetto alla frase seguente, ovviamente citata soltanto al fine dell’argomento in corso, si eviterebbe il pensiero deviante che loro si riferisca a un gruppo di persone differente dal soggetto denotato dal termine ipoteticamente neutro uno (nella fattispecie, una gangbang)? 

(9) Uno la molesta. Loro le mettono le mani addosso.

Il mio obiettore potrebbe però qui ulteriormente accettare le mie ultime due repliche e ribattere che sì, proprio per il suo costo cognitivo, la riforma del maschile sovraesteso dovrebbe essere linguisticamente limitata agli impieghi istituzionali del linguaggio, perché tale costo deve fungere da “pietra di inciampo”, farci ricordare cioè le origini oscure delle convenzioni del nostro linguaggio.[18]

Qui mi verrebbe prima di tutto da replicare che, proprio perché tale impiego del maschile non marcato in generale linguisticamente pervasivo – a differenza dell'uso p.es. di magnifico in Magnifico Rettore, che riguarda solo il Rettore (non si applica p.es. ai docenti) – suonerebbe inutilmente ampolloso riformarlo soltanto per certi casi istituzionali (p.es. riformare il candidato nella stesura di verbali e non fare alcuna riforma per contesti ordinari in cui si saluta dicendo cari tutti).

Ma c’è di più. Se vogliamo l’“effetto memoria”, bisogna proprio all’opposto mantenere l’uso neutro del termine al maschile, perché tale uso ci ricorda come la società sia (stata) maschilista. Così, abbiamo detto, il nome Carceri Nuove significa il suo referente, un certo edificio torinese. Ma è interessante sapere che tale edificio si chiami Carceri Nuove, sebbene non sia più nuovo e soprattutto neppure svolga più una funzione carceraria. Perché ci ricorda che cosa è stato, qualcosa che in una società ideale non dovrebbe proprio esistere, in quanto luogo di detenzione e di oppressione. O venendo a un caso più interessante per i nostri scopi, in italiano la parola gelosia significa anche persiana. Così comincia la settecentesca Canzone di Afragola: “Fenesta co’ ‘sta nova gelosia / tutta lucente de centrelle d’oro, / tu m’annascunne Nennella bella mia; /lassamella vede’ sino’ me moro”. In effetti, secondo il dizionario Treccani, questo termine fu (presemanticamente) scelto a causa della balzana credenza maschilista che le persiane dovessero servire alle donne per guardare gli uomini senza farsi vedere da loro. Ora, è importante sapere che una siffatta credenza è all’origine di tale scelta terminologica; tale credenza non verrebbe affatto rimossa dall’abolizione del termine gelosia in quel significato, ma ci viene piuttosto ricordata nella sua aberrazione ogni volta che usiamo quel termine in quel significato. Parimenti, continuare a usare il maschile sovraesteso può servirci a ricordare come la nostra società sia (stata) maschilista.[19]

Anzi, si potrebbe ancora osservare, se non avessimo più quell’uso e lo sostituissimo con un termine “politicamente corretto”, rischieremmo di pensare che il problema reale, sociale e non linguistico, del maschilismo sia stato risolto. Forse qualcuno pensa seriamente che la società sia diventata meno maschilista perché per un po’, al posto del maschile sovraesteso, in certi contesti scientifici (p.es., negli articoli di filosofia), si è impiegato il femminile sovraesteso? A mo’ di commento generale, si potrebbe in questa direzione notare che il conseguimento della parità di genere è certamente un eccellente obiettivo; ma c’è da chiedersi se si raggiunga per vie linguistiche o richieda un duro lavoro di cambiamento della realtà[20].

È tempo di tirare le somme da questa riflessione. Le convenzioni, anche quelle fissate a livello presemantico come quella relativa al maschile sovraesteso, si possono certamente cambiare. Tale cambiamento però non dev’essere un arbitrio, come sarebbe un’imposizione dall’alto, ma deve avere delle buone motivazioni. Tuttavia non abbiamo trovato alcuna buona ragione, semantica o meno, per effettuare la riforma del maschile sovraesteso. 

Conclusioni

In questo lavoro, mi sono chiesto non solo se sia possibile compiere una riforma del maschile sovraesteso, ma anche se lo si debba fare. Quanto alla prima domanda, nessuna delle principali proposte che sono finora sul mercato sono plausibili, ma forse se ne può trovare una (quella che ho scherzosamente chiamato la proposta “sarda allargata”) che non sembra prestarsi alle obiezioni che indeboliscono quelle proposte. Quanto alla seconda domanda, però, non ho trovato nessuna risposta plausibile, perché non sembrano sussistere buone motivazioni, semantiche o di altro tipo, per compiere tale riforma. Certamente, nulla vieta che altre risposte in merito vengano formulate in futuro, in modo da soddisfare infine la richiesta di buone ragioni. Ma finora tali risposte non sono venute all’orizzonte, quindi si ignora se fornirebbero le ragioni desiderate.[21] 

Nota bibliografica:

  • Consiglio direttivo dell’Accademia della Crusca, Ancora sull’uso del genere femminile nei testi giuridico-amministrativi, “Italiano digitale” XXX, 2024/3 (luglio-settembre).
  • Baggio 2024: Serenella Baggio, “La lingua è una cosa seria. Non si può manipolare”. Quotidiano Trentino, 4 aprile 2024.
  • Belle et al. 2021: Deborah Belle, Ashley B. Tartarilla, Mikaela Wapman et al., “I Can’t Operate, that Boy Is my Son!”: Gender Schemas and a Classic Riddle, “Sex Roles” 85, p. 161–171.
  • Casalegno 1997: Paolo Casalegno, Filosofia del linguaggio, Roma, La Nuova Italia Scientifica.
  • D’Achille 2021: Paolo D’Achille, Un asterisco sul genere, “Italiano digitale”, XVIII, pp. 72-81.
  • De Benedetti 2022: Andrea De Benedetti, Così non schwa, Torino, Einaudi.
  • Domaneschi 2020: Filippo Domaneschi, Insultare gli altri, Torino, Einaudi.
  • Donnellan 1966: Keith S. Donnellan, Reference and Definite Descriptions, “The Philosophical Review” 75, pp. 281-304.
  • Gelosia, Vocabolario Treccani online.
  • Gheno 2019: Vera Gheno, Potere alle parole, Torino, Einaudi.
  • Gheno 2024, Vera Gheno, Grammamanti, Torino, Einaudi.
  • Gygax-Sato-Öttl et al. 2021: Pascal Gygax, Sayaka Sato, Anton Öttl, et al., The Masculine Form in Grammatically Gendered Languages and its Multiple Interpretations: a Challenge for our Cognitive System, “Language Sciences”, 83, pp. 1-9.
  • Iacona 2022: Andrea Iacona, “Cari tutti”, “Italiano digitale”, XX, 2022/1 (gennaio-marzo), pp. 243-251.
  • Kaplan 1989: David Kaplan, Demonstratives, in Joseph Almog et al. (a cura), Themes from Kaplan, Oxford, Oxford University Press, pp. 481-563.
  • Kripke 1979: Saul Kripke, Speaker's Reference and Semantic Reference, In French, P.A., Uehling, T.E., Wettstein, H.K. (eds), Contemporary Perspectives in the Philosophy of Language, Minneapolis, University of Minnesota Press, pp. 6-27.
  • Kripke 1980: Saul Kripke, Naming and Necessity. Oxford, Blackwell [trad. it. Boringhieri, Torino 1982].
  • Marazzini 2014: Claudio Marazzini, Mettiamo tutto e tutti al femminile?, “Italiano digitale”, XXIX, 2024/2 (aprile-giugno), pp. 63.65.
  • Marazzini 1996: Claudio Marazzini, Ma quanto sei razzista?, “Letture”, 527, pp. 79-81.
  • Marconi 1999: Diego Marconi, La filosofia del linguaggio, Torino, UTET.
  • Mulligan 2007: Kevin Mulligan, Intentionality, Knowledge and Formal Objects, “Disputatio”, 23, pp. 205–228.
  • Négro, Vocabolario Treccani online.
  • Nunberg 1979, Geoffrey Nunberg, The Non-Uniqueness of Semantic Solutions: Polysemy, “Linguistics and Philosophy”, 3, pp. 143-184.
  • Perry 1997: John Perry, Indexicals and Demonstratives, In B. Hale and C. Wright (eds.), A Companion to the Philosophy of Language. Oxford: Blackwell, pp. 486-612.
  • Predelli 2005: Stefano Predelli, Contexts, Oxford, Oxford University Press.
  • Robustelli 2014: Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano, GiULiA giornaliste.
  • Sabatini 1987: Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri.
  • Thornton 2009: Anna M. Thornton, Designare le donne, in G. Giusti, S. Regazzoni (a cura di), Mi fai male, Venezia, Cafoscarina, pp. 115-134.


Note:

[1] Non sono infatti per il momento riscontrati problemi con tali casi, visto che per riferirsi a specie animali abbiamo tanto il maschile sovraesteso (“il leone”, usato per parlare tanto di leoni quanto di leonesse), quanto il femminile sovraesteso (“la pantera”, usato per parlare tanto di esemplari maschili quanto femminili di tale specie). Per Gheno (2019, p. 135), questi sono nomi di genere promiscuo.

[2] Almeno tipicamente; un’apparente eccezione sono i participi presenti sostantivati, come “docente” e “discente”, cui dovrebbe uniformarsi “studente”, che sembrano già di per sé termini non marcati perché non declinati al maschile o al femminile. In realtà, anche in tali casi è la scelta dell’articolo maschile – “il docente”, “il discente” – a esprimere la caratteristica sovraestesa. Analogamente per termini usati per riferirsi a persone quali “artista” o “linguista”, che però al plurale risultano nuovamente maschili non marcati (“artisti”, “linguisti”). In questo senso sono diversi dai precedenti (con buona pace di Gheno 2019, p. 135, che li considera tutti casi di nomi di genere comune). Mentre in alcuni casi, sembra prevalere addirittura il femminile sovraesteso: cfr. “la guardia”, “la sentinella”, “la vedetta”, come ricordato dall’Accademia della Crusca (Consiglio direttivo dell’Accademia della Crusca, Ancora sull’uso del genere femminile nei testi giuridico-amministrativi, 3/9/2024), a meno che non si intenda questi ultimi come termini epiceni, ossia per generi promiscui (che è il caso proprio dello stesso “persona”).

[3] Sebbene anche qui est modus in rebus, come sottolinea la linguista Serenella Baggio: “ci è difficile dire maestra di vita o chiamare maestra la donna che dirige un’orchestra, e, piuttosto, sentendo dire maestra, pensiamo a quella signora che ci correggeva con la penna rossa a scuola” (Baggio, p. 2024).

[4] Le condizioni di verità di un enunciato, che per molti costituiscono l’elemento centrale del suo significato, sono le condizioni che devono essere soddisfatte perché l’enunciato sia vero; termini subenunciativi hanno il loro aspetto semantico centrale nel contribuire a determinare siffatte condizioni. Cfr. p.es. Casalegno (1997), Marconi (1999).

[5] Devo quest’obiezione a Bianca Cepollaro. In maniera analoga, qualcuno potrebbe sostenere che il termine rilevante fa sorgere immagini mentali inappropriate o stereotipate; la letteratura psicolinguistica ha certamente documentato tali casi – il più classico, immaginarsi che un chirurgo sia un uomo (cfr. p.es. Belle et al. 2021, Gygax et al. 2021). Curiosamente, nel sostenere che “negro” non va usata perché offensiva per persone di colore, Gheno usa il termine grammarnazi per indicare le persone “che tendono a vedere la lingua come qualcosa di perfetto, di immoto, lontanissimo, corrotto dal nostro vile uso quotidiano” (2024, p. 27), senza rendersi conto che tali persone potrebbero sentirsi offese da quel termine per le ovvie ragioni storiche. In realtà se, come vedremo, né le prime né le seconde persone hanno buone motivazioni per sentirsi offese, l’uso (privo di valenza dispregiativa) di entrambi i termini potrebbe tranquillamente continuare. Lo stesso vale per la generazione di immagini mentali susseguente all’impiego del maschile sovraesteso.

[6] Come ribadito da Claudio Marazzini nella già citata consulenza linguistica per la Crusca (Marazzini 2024).

[7] Il significato linguistico di un’espressione è quello tipicamente catturato da una definizione riportata da un dizionario. Contribuisce alla determinazione del contributo di tale espressione alle condizioni di verità dell’enunciato in cui figura, l’aspetto verocondizionale del significato. Cfr. Kaplan (1989).

[8] Su cui, per un’introduzione al tema, rimando all’ottimo Domaneschi (2020).

[9] L’uso referenziale di una descrizione definita (ogni espressione della forma articolo determinativo + espressione per un concetto – in soldoni, un’espressione del tipo “il/lo/la così e così”) è quell’uso in cui si vuole parlare di un certo individuo che si ha in mente nell’impiegare tale descrizione; l’uso attributivo di una descrizione definita è quell’uso in cui si vuole parlare di chi soddisfi univocamente quella descrizione, chiunque questi o questa sia. Cfr. Donnellan (1966).

[10] Per restare ad un caso recente; naturalmente, chiunque abbia imparato a scuola Pianto antico di Carducci sa che negra nei famosi versi “sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra” non ha alcun valore dispregiativo. Analoghi esempi si trovano in Dante, Petrarca, Ariosto e Leopardi (https://www.treccani.it/vocabolario/negro/).

[11] Peraltro la stessa Gheno è altrove più cauta, trattando negro come tendenzialmente offensivo (2019, p. 107-8). Lei stessa fornisce alcuni esempi di parole che non sono dispregiative, ma vengono usate in modo dispregiativo: ebreo (ivi, p. 16), cagna, finocchio (ivi, p. 107) – peraltro questi ultimi due casi, l’ultimo in particolare, tenderei a ritenerli casi di ambiguità, in cui uno dei due omonimi ha valore intrinsecamente dispregiativo.

[12] Il che varrebbe anche nel caso delle immagini mentali associate a tale impiego (vedi nota 5). Si supponga che, al sentire parlare di italiani, a qualcuno, magari a tanti, vengano in mente immagini discutibili, magari quelle associate con lo stereotipo dell’italiano tutto pizza e mandolino. Sarebbe questa una buona ragione per cassare il termine? E cambierebbe qualcosa se il termine in questione fosse patria?

[13] Si pensi al caso analogo delle emozioni. Come sappiamo, le emozioni sono razionali quando soddisfano il loro oggetto formale, irrazionali quando non lo soddisfano (Mulligan 2007); p.es., è irrazionale avere paura di qualcosa che non si crede pericoloso, visto che essere pericoloso è l’oggetto formale della paura.

[14] Devo tali obiezioni a Lina Lissia e Matteo Plebani rispettivamente. La seconda obiezione è sostenuta anche da Gheno, che cita degli studi empirici in proposito (2024, p. xvi). In realtà, il valore di tali studi è dubitabile o quantomeno parziale, se, come rileva Iacona (2022), almeno nel caso di tutti prevale la lettura neutra rispetto alla sua lettura marcata (per indicare solo individui di genere maschile). Come implicitamente riconosce la stessa Gheno quando, invece di dire “tutti i linguisti e tutte le linguiste”, se ne esce nell’ibrido “tutti i linguisti e le linguiste” (2024, p. 76; corsivo mio).

[15] Un’altra strategia, suggerita dal succitato documento dell’Accademia della Crusca, è quella di sostituire ovunque possibile il maschile sovraesteso con un termine neutro (p.es., “il personale” al posto de “i dipendenti”).

[16] Devo questa osservazione a Andrea Iacona.

[17] In inglese, la proposta è più plausibile perché, almeno tendenzialmente, manca il termine sovraesteso. A differenza de il kantiano o il pittore, che nell’uso neutro rispetto al genere in italiano corrispondono a impieghi del maschile sovraesteso, l’inglese ha termini non marcati quali the Kantian e the painter.

[18] Devo quest’ultima obiezione a Elisa Caldarola.

[19] Ovviamente, sto parlando qui di usi in vigore. Nessuno vorrebbe ripristinare un uso passato di un termine cui sono associate connotazioni negative, proprio perché non si condividono più le credenze valoriali che stanno alla base dell’introduzione di quell’uso. Così, nessuno vorrebbe ripristinare il saluto fascista per mostrare come le cose andavano sotto il fascismo. Ma d’altronde, nessuno cancellerebbe il gesto con cui ci salutiamo se si scoprisse che in una lontana origine veniva usato per schiaffeggiare le donne. Anzi, continuare ad impiegare tale gesto potrebbe servire anche a rimarcare la distanza che abbiamo nel frattempo preso da una siffatta usanza.

[20] Come opportunamente notava l’attrice Ambra Angiolini nel presentare poco tempo fa un concerto del I maggio (Christian Campigli, Concertone del Primo maggio, Ambra Angiolini contro le parole declinate al femminile, iltempo.it, 2/5/2023).

[21] Ringrazio Andrea Iacona, tutti i partecipanti agli interventi che ho tenuto presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, Università di Torino, 18 settembre 2023, il Dipartimento di Scienze Umane, Università dell’Aquila, 25 ottobre 2023, L’Aquila, e l’Accademia delle Scienze di Torino, 16 aprile 2025, nonché tutte le persone con cui ho avuto modo di discutere a lungo di questi problemi, per le loro importanti osservazioni al riguardo.