Ancora sull’uso del genere femminile nei testi giuridico-amministrativi

di Il Consiglio Direttivo dell’Accademia della Crusca

Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua. 


Il Consiglio Direttivo dell’Accademia della Crusca 

Riprendendo quanto già scritto e pubblicato su questo stesso sito il 9 marzo 2023 in risposta a un quesito sulla parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, il 15 luglio 2024 il Consiglio direttivo dell’Accademia della Crusca (costituito dal presidente Paolo D’Achille, dalla vicepresidente Rita Librandi, dall’accademica segretaria Annalisa Nesi e dai consiglieri Federigo Bambi e Rosario Coluccia) ha ritenuto utile fornire nuovamente, in forma sintetica, alcune indicazioni di carattere generale (per singoli casi si rimanda alla pagina del sito che segnala tutti gli interventi sull’argomento pubblicati sullo stesso sito nel corso degli anni).

Premessa

A chi opera nel settore del diritto e dell’amministrazione della giustizia (cfr. in maniera specifica l’art. 121 del rinnovato Codice di procedura civile), così come a chi opera nella burocrazia delle istituzioni pubbliche, a tutti i livelli, è oggi richiesto di scrivere in modo chiaro e sintetico, secondo regole che da tempo sono state indicate, per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto.

Un analogo addestramento costante serve per un uso della lingua non sessista, cioè non discriminante in base al sesso, e rispettoso dell’identità di genere. Nei molti manuali compilati da varie amministrazioni centrali e locali vengono di solito indicate e ripetute, in forma sostanzialmente identica, regole ispirate al modello proposto nel 1986-87 da Alma Sabatini, che ha introdotto il tema del sessismo linguistico nella nostra lingua, rifacendosi al modello angloamericano e innescando un’ampia discussione che ha investito, oltre al linguaggio istituzionale, anche quello dei media e dell’educazione. Alma Sabatini proveniva dalla cultura femminista del suo tempo e faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio, mentre oggi le rivendicazioni e le richieste di intervento si sono fatte più ampie e provengono anche da parte di chi nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi; ma la discussione sul binarismo vs pluralismo dei generi e sulla fluidità di genere è ancora aperta e per l’espressione del genere non binario in italiano finora non sono state proposte (e probabilmente non sono neppure possibili) soluzioni soddisfacenti e applicabili senza provocare nella nostra lingua uno stravolgimento delle strutture fonomorfologiche, che ne verrebbero seriamente, e forse irreparabilmente, compromesse (con gravi ripercussioni anche sulla organicità della comunicazione).

I criteri solitamente invocati per un uso della lingua rispettoso della parità di genere sono i seguenti:

1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare con referente generico e indeterminato (da alcuni definito “inclusivo” o, meno correttamente, “neutro”) perché a torto considerato “non marcato”;
2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi di donne, perché genera un’asimmetria con quelli di uomini;
3) in caso di pluralità di nomi di genere grammaticale diverso, accordare il genere degli aggettivi e/o degli altri elementi ad essi riferiti con quello dei nomi che sono in maggioranza oppure con l’ultimo nome;
4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne. 

Alla base di questi criteri sta la volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione. Secondo chi sostiene queste tesi, l’operazione non solo sanerebbe un’ingiustizia storica e ripulirebbe la lingua dai residui maschilisti di cui sarebbe ancora incrostata, ma avrebbe anche una finalità educativa rispetto alla popolazione presente e futura, perché la lingua è in grado di condizionare la percezione della realtà, cioè il modo con cui le persone colgono e interpretano il mondo, e l’uso del genere grammaticale femminile per riferirsi a donne potrebbe contribuire a una visione del mondo lontana da quella androcentrica imposta dalla tradizione. Le moderne neuroscienze hanno messo in discussione il fatto che la lingua costituisca di per sé un condizionamento e un filtro rispetto alla percezione dei dati empirici reali. Già in precedenza, c'è stato chi ha insistito sul valore puramente formale del genere grammaticale, in quanto meccanismo strutturale della lingua ai fini del suo elementare funzionamento, molte volte totalmente estraneo alla componente del genere naturale. D'altra parte, studi recenti di carattere sperimentale hanno mostrato che in lingue in cui il sistema di genere comprende i valori maschile e femminile l’associazione, anche inconscia, con il genere naturale ci sia. 

Indicazioni pratiche 

Evitare le reduplicazioni. Sono da limitare al massimo interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi al plurale (in particolare quando la distinzione di genere è affidata a una distinzione di desinenza o di suffisso o è determinata da articoli o altri elementi il cui genere è controllato dai nomi a cui si riferiscono). Il maschile plurale “non marcato” (a differenza del singolare) risulta, in generale, accettabile, sia per motivi legati alle strutture morfosintattiche dell’italiano, sia anche perché in esso si possono sentire rappresentati tutti i generi sessuali, purché il suo uso si leghi alla consapevolezza che deve essere inteso come un modo di includere e non di prevaricare. La reduplicazione appare invece opportuna in contesti particolari, in cui la scelta del maschile potrebbe risultare legata a stereotipi che di fatto escludano oppure occultino la presenza del femminile, nonché in contesti di pubblica oratoria e di valenza retorica. Per evitare inutili allungamenti della frase si possono inoltre scegliere forme semanticamente non marcate e sostituire, per esempio, persona o individuo a uomo, il personale a i dipendenti (o a i / le dipendenti) ecc.

Uso dell’articolo con i cognomi di donne. Nell’uso generale, non solo in quello giuridico, l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è negli ultimi anni particolarmente diffusa, sia per quelli di donne, sia per quelli di uomini, dove era ammesso, nello standard, nel caso di personaggi celebri del passato (il Manzoni, il Leopardi ecc.). Oggi la presenza dell’articolo è considerata discriminatoria e irrispettosa non solo per le donne, ma anche per gli uomini. Per quanto priva di motivazioni fondate, questa opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto. Osserviamo ancora, tuttavia, che, nel caso in cui si ometta l’articolo prima del cognome di persone celebri, non si verificano controindicazioni, ma in alcuni casi si manifesta un’evidente perdita di informazione. Pertanto, quando sia utile dare maggiore chiarezza al genere della persona, sarà opportuno aggiungere il nome al cognome, o eventualmente la qualifica (“La presenza di Maria Rossi” o “La presenza della testimone Rossi”).

Esclusione dei segni eterodossi. La lingua è prima di tutto parlata e il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da evitare nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente da documenti giuridici e in generale dalla comunicazione effettuata dalla pubblica amministrazione, l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (“Car* amic*”, “tutt* quell* che riceveranno questo messaggio” ecc.). A maggior ragione va escluso lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, tra le quali quasi nessuna, però, la rappresenta sul piano ortografico. Non è un suono dell’italiano, ma è presente in vari dialetti della Penisola, nei quali tuttavia, grazie alla presenza di altri fenomeni fonetici, non compromette la distinzione di genere tra maschile e femminile, così come quella di numero tra singolare e plurale.

Conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre. La lingua giuridica e amministrativa non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In questo àmbito, il maschile non marcato è in certi casi inevitabile (se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine). Si potrà inoltre ammettere l’uso del maschile non marcato anche al singolare quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta: "Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri" (Costituzione, art. 89, comma 2). In tali funzioni, l’uso esclusivo del femminile “iperesteso” (che si riferisca cioè anche agli uomini) è invece assolutamente da evitare, anche perché genererebbe equivoci e incomprensioni.

Si tenga anche presente che il maschile non marcato è ben vivo nell’uso comune della lingua: “Siete pronti?”, “Sono arrivati sani e salvi”, “Uscite tutti!”. In casi come questi, la reduplicazione, che è ammissibile nel discorso pubblico di un ministro o una ministra, di un rettore o una rettrice universitaria, di un sindaco o una sindaca, avrebbe effetti comici e inappropriati, specialmente in situazioni familiari o di urgenza.

Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile. Si deve fare ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile. Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere > ingegnera, il presidente > la presidente ecc.). Ecco alcune indicazioni in proposito.

In italiano esistono diverse classi di nomi:

1) i nomi terminanti al maschile in -o hanno il femminile in -a: magistrato / magistrata; prefetto / prefetta; avvocato / avvocata; segretario / segretaria; segretario generale / segretaria generale; delegato / delegata; perito / perita; architetto / architetta; medico / medica; chirurgo / chirurga; maresciallo / marescialla; capitano / capitana; colonnello / colonnella; Pubblico Ministero / Pubblica Ministera;

2) i nomi terminanti in -e non suffissati (quindi non quelli terminanti al maschile in -iere, -tore e -sore, -one, per i quali si veda più avanti) sono ambigeneri, cioè possono essere sia maschili sia femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (e stabiliscono l’accordo di altri elementi: aggettivi, participi ecc.): il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore; il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice, NON la giudice istruttore. Fanno eccezione forme ormai entrate nello standard come studente / studentessa (la studente è forma rarissima; per professore / professoressa, vedi più avanti);

3) i nomi suffissati:
3.1) i nomi terminanti in -iere: il suffisso -iere (pl. -ieri) al maschile è al femminile -iera (pl. -iere): cavaliere (pl. cavalieri) / cavaliera (pl. cavaliere) (in certi casi però si usa dama); cancelliere (pl. cancellieri) / cancelliera (pl. cancelliere); usciere (pl. uscieri) / usciera (pl. usciere); brigadiere (pl. brigadieri) / brigadiera (pl. brigadiere); portiere (pl. portieri) / portiera (pl. portiere);
3.2) i nomi e aggettivi terminanti in -a e in -ista: al singolare maschile e femminile sono omonimi ed è l’articolo a disambiguare, mentre al plurale si hanno al maschile -i e -isti, al femminile -e e -iste: il / la collega, ma i colleghi / le colleghe; il pilota / la pilota, ma i piloti / le pilote; il / la giurista, ma i giuristi / le giuriste; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste; l’avvocato civilista / l’avvocata civilista, ma gli avvocati civilisti / le avvocate civiliste; fa eccezione poeta/poetessa (forma ormai da secoli accolta nello standard);
3.3) i nomi e aggettivi terminanti in -tore: il suffisso -tore (pl. -tori) al maschile, è normalmente al femminile -trice (pl. -trici): tutore / tutrice; rettore / rettrice; direttore / direttrice; istruttore / istruttrice; ambasciatore / ambasciatrice; procuratore / procuratrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria; hanno il femminile in -tora (pl. -tore) pretore / pretora; questore / questora; pastore / pastora e ha il femminile in -essa (pl. -esse) dottore/dottoressa;
3.4) i nomi e aggettivi terminanti in -sore: il suffisso -sore (pl. -sori) al maschile, è al femminile -sora (pl. -sore): assessore / assessora; difensore / difensora (la forma difenditrice, indicata dalle grammatiche, è rara); estensore / estensora; revisore / revisora; supervisore / supervisora; fanno eccezione femminili ormai acclimatati come professore / professoressa;
3.5) i nomi e aggettivi terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in -ona (pl. -one): commilitone / commilitona; fa eccezione campione / campionessa

Va precisato che titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne (e lo stesso vale per i gradi militari), ma non ci sarebbe alcuna ragione per non femminilizzarli.

4) i nomi composti con vice-, pro-, sotto- e i sintagmi con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo; se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria / vicario, sostituta / sostituto: prosindaco (anche se il sindaco è una donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco / vicesindaca; sottoprefetto / sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca

Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio di una potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, la vedetta, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).

Luigino Goffi
24 settembre 2024 - 00:00
Il problema di un uso non sessista di una lingua binaria come quella italiana si risolve solamente introducendo, accanto al maschile e al femminile, il neutro - inteso, però, non come lgbtq+, ma come il riferirsi sia al maschile che al femminile (e che, perché no, anche all'lgbtq+) senza alcuna distinzione, esattamente come quando usiamo il termine "persona" per riferirsi a entrambi (o a enterni) i generi. Finché continueremo a esprimerci in termini di "il/un preside" / "la/una preside", "il/un chirurgo" / "la/una chirurga", cioè finché continueremo a seguire le regole tradizionali, per le quali "il" e "un" sono articoli maschili, contrapponendo, dunque, l'articolo "il" all'articolo "la", e l'articolo "un" all'articolo "una" - non faremo un passo avanti nella soluzione del problema - anche perché "il" e "la", così come "un" e "una", sono articoli asimmetrici metricamente: "il" e "un" sono zerosillabi e dunque più veloci, mentre "la" e "una", non avendo tale caratteristica, sono più lenti . Bisogna, invece, comprendere che gli articoli "il" e "un" dispiegano tutta la loro operatività, nella lingua italiana, solamente se considerati articoli comuni: maschili, femminili, singolari e plurali. Insomma, se dico "il/un chirurgo" vuol dire che mi riferisco sia ai maschi che alle femmine, indifferentemente. Se, invece, mi voglio riferire solamente ai maschi, dirò "lo/li chirurgo/hi", e se voglio riferirmi solamente alle femmine dirò, attenzione, non "la/le chirurga/he", ma "la/le chirurgo/hi". Altro esempio: se dico "il notaio", è neutro - cioè mi riferisco sia ai maschi che alle femmine -; se voglio riferirmi solo ai maschi dirò "lo notaio", e se voglio riferirmi solo alle femmine dirò "la notaio", e non "la notaia" perché questo farebbe ripresentare il problema. E' inutile replicare dicendo che "lo notaio" e "lo chirurgo" suonano medievali o dialettali, perché, da un lato, questa è l'unica soluzione possibile (se si vuole razionalizzare la lingua) e non si vede che cosa abbiano di strano, e, dall'altro lato, tale sistemazione permette di risolvere contemporaneamente ben altri due secolari problemi della lingua italiana: l'indebita caduta dell'articolo femminile per motivi metrici, e la concordanza tra due frasi legate da un "anche" o da un "pure". Ho trattato questi problemi in vari passati interventi, come, ad esempio in quello del 15 febbraio 2023, reperibile nel Tema del 22 dicembre 2022 "Non sempre ai Padri vanno affiancate le Madri", e non posso dilungarmi. Mi basta, qui, concludere che quando colla soluzione di un problema, se ne risolvono contemporaneamente altri due, vuol dire che quella soluzione è quella giusta.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
09 settembre 2024 - 00:00
Avvocato detto di una donna mi piace, avvocatessa è nella tradizione; quanto all' LGBTQIA+, come pronunciare "la parola"? un discorso va pur sempre "detto", no? non siamo inglesi cribbio! quanto all'imposizione o alla moda di questa come di altre amenità si sa che gli italiani à la page recepiscono prontamente - per zelo? per schivare la taccia di oscurantisti? per essere promossi all'estero? (chi parla di "nazione" e di "postura seria" è poi lo stesso che inventa il Ministero della difesa del "Made in Italy" e patrocina i "Family day") - e sempre più passivamente l'uso di parole provenienti dall'estero senza alcuna mediazione o riflessione critica o magari, perché no, semplice rigetto. Pubblico Ministero (parola polirematica?) anche quando indica la persona che ricopre la funzione penso contenga in sé un attrattore semantico che rimanda in ultima istanza alla carica. Voltarlo al femminile pare a me una violenza all'etimo. Mi rendo conto di essere un dilettante, ma le parole hanno un potere evocativo anche per i non linguisti, dicono la loro storia, ci riportano al latino e alle nostre origini. Infatti alcune parole come maestra sono accettabili immediatamente perché hanno il corrispettivo latino che dà a loro sanzione. Ministera non va proprio (è pur vero che, se non ricordo malaccio, i discendenti dell'Aldighieri, divenuti Aligeri, facendo risalire l'origine del loro cognome al latino aliger scelsero per il loro stemma la figura dell'ala!) Ma l'ultima parola alla Crusca, ci mancherebbe!

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Rita Sbardellati
06 settembre 2024 - 00:00
Io “sono” UN AVVOCATO e non gradisco che ci si rivolga alla mia persona con appellativi diversi. Il rispetto significa ben altro e non si traduce certo nella storpiatura delle parole.

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Luisa Giuliani
06 settembre 2024 - 00:00
Non ho capito perché il femminile di un ingegnere è una ingegnera e non una ingegnere, dato che, secondo le regole riportate nell'articolo, i sostantivi non suffissati che terminano in -e non cambiano la desinenza al femminile.

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Risposta
Giuseppe Mancini
12 settembre 2024 - 00:00
Salve, Luisa! Qualcuno, nel lontano 2013, su questo stesso sito (https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/infermiera-si-ingegnera-no/7368) adduceva queste considerazioni: "Secondo me l'uso di un linguaggio non sessista è alla base del rispetto di genere. I termini come avvocato, sindaco, prefetto, ministro, direttore ecc. sono stati spesso preferiti anche dalle donne per autodefinirsi al fine di sottolineare la dignità della propria professione altrimenti svalutata se declinata al femminile. Per non parlare dell'effetto ridicolizzante tipico del suffisso -essa in taluni casi come sindachessa, vigilessa, medichessa ecc. (Da questo effetto sembrano salvarsi solo dottoressa e professoressa). Promuovere l'uso del femminile non solo significa rispettare le regole grammaticali, che già esistono e vengono disattese, ma anche e soprattutto legittimare l'esistenza e il ruolo delle donne nella società dai piccoli nuclei alle istituzioni. Fortunatamente si cominciano a percepire alcuni cambiamenti nel linguaggio dell'informazione e talvolta in quello burocratico. L'impegno dovrà essere comune dalla famiglia alla scuola alla politica all'informazione. Largo dunque a definizioni quali l'avvocata, l'ingegnera,la prefetta,l'ortopedica,la consigliera, la medica,la sindaca, la vigile, la ministra, la giudice , la pilota ecc. e al rispetto di genere che ne consegue." A parte l'aspetto più legato a certo tipo di rivendicazione del ruolo della donna come professionista, tecnicamente parlando, il femminile di "pioniere" — per esempio — è "pioniera"; sulla base di questo e di altri esempi, mi viene facile accettare il femminile "ingegnera". Poi, alla fine, è l'uso che si fa della lingua, l'elemento chiave della "riuscita" di un termine piuttosto che di un altro. E tieni presente che mia moglie è ingegnere! ;)
Luca Passani
06 settembre 2024 - 00:00
Continua a riproporsi un vecchio dilemma mai risolto. La Crusca si limita a descrivere la lingua italiana nella sua evoluzione (come tutti i suoi esponenti di primo piano hanno sempre dichiarato) OPPURE sta emergendo una nuova "regia" che vuole portare la Crusca ad essere "ente normante" della nostra lingua? Interventi come questo sembrano indicare una specie di nuovo corso. In questo caso, chi autorizza l'Accademia ad assumere questo ruolo? Qual'è il principio legislativo su cui si vuole fondare un tale ruolo per la massima istituzione linguistica italiana?

Rispondi

Andrea Di Gregorio
04 settembre 2024 - 00:00
Se parlo di tre persone di cui due sono femmine e una è maschio, non è un po' prevaricatorio dire "sono tre fratelli"? Grazie

Rispondi

Risposta
Luca Passani
06 settembre 2024 - 00:00
> Se parlo di tre persone di cui due sono femmine e una è maschio, > non è un po' prevaricatorio dire "sono tre fratelli"? No. In italiano, la parola "fratelli" ha sempre tradotto anche la parola inglese "siblings". Se proprio uno ci tiene, può dire "sono tre tra fratelli e sorelle", anche se questo va a discapito dell'economicità della lingua.
LUCA FIOCCHI NICOLAI
03 settembre 2024 - 00:00
Solo due cose: 1) felice per la bocciatura dello sceva', vero corpo estraneo alla lingua italiana parlata e scritta, con buona pace della Gheno, che ritiene tale segno atto (forse non in contesti "ufficiali"?) a specificare il "genere" di tutti coloro che non "si sentono" ad un certo momento della loro vita, né uomini né donne; aggiungo gli orridi e impronunciabili acronimi (tipo LGBTQ+ e roba simile) proposti o imposti da certe agguerrite minoranze (contente loro!) a una maggioranza prona per quieto vivere sì, ma fino a un certo punto; 2) come poetessa anche soldatessa è voce ben ambientata tanto da risalire, secondo il "Battaglia" (ho evitato per non contraddirmi di scrivere GDLI!), a San Bernardino da Siena. Questo per i nomi in -o.

Rispondi

Risposta
Massimiliano Polito
07 settembre 2024 - 00:00
Non conosco nessun appartenente alla comunità LGBTQIA+ che faccia nulla per imporre questo acronimo agli altri. Si sono limitati ad usarlo nelle loro comunicazioni e alla fine è stato integrato nella lingua italiana (dalla comunità dei parlanti e non per effetto dei tanto temuti quanto fantasiosi "interventi verticistici" di cui spesso viene accusata la stessa Accademia). Io lo uso perché mi sembra il modo più comodo ed efficace di indicare un gruppo dalle caratteristiche così eterogenee e non conosco parole altrettanto espressive di quell'acronimo.
Risposta
LUCA FIOCCHI NICOLAI
04 settembre 2024 - 00:00
P. S. Dire, a proposito del vocabolo soldatessa, che"non è così comune e quindi lo si può ancora ERADICARE" non tradisce una non tanto segreta associazione del nome predetto a una malapianta da estirpare? non si capisce per quale motivo non si debba seguire il sano criterio dell'analogia (poetessa, aggiungo avvocatessa); che diavolo connota di male il suffisso generativo - essa? Quanto a "Pubblica Ministera" mi chiedo, da ignorante di cose giuridiche: ma ministero, da ministerium, non indica un ufficio o un organo giudiziario?

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