Lezioni di vita e insegnamenti profondi dai miei incontri con Giovanni Nencioni

di Francesco Sabatini

Il contributo fa parte degli atti del convegno Giovanni Nencioni a dieci anni dalla scomparsa, svoltosi in Accademia l’11 settembre 2018 per ricordare il grande linguista e Presidente dell’Accademia della Crusca dal 1972 al 2000. 

È questa una meravigliosa giornata, certamente commovente, ma bella perché ci porta a far rivivere, con la raccolta di ricordi di tanti di noi, la figura straordinariamente cara a tutti di Giovanni Nencioni. Nessuno da solo sarebbe in grado, nonché di tracciare un suo profilo scientifico, di configurarne la ricchezza di umanità e intelligenza. È importante, perciò, che in questa occasione ognuno di noi consegni agli altri il proprio tassello di ricordi. Chi ne è stato discepolo, all’Università e dopo, può certamente avere una gran messe di dati accumulati giorno dopo giorno; ma chi, come me, ha avuto altro tipo di occasioni per stargli vicino, ha vissuto circostanze particolari di contatto che hanno fatto emergere discorsi e comportamenti a volte eccezionali. Gran parte dei suoi discorsi autobiografici raccolti dalla sua bocca non appartengono agli anni della mia successione alla presidenza della Crusca, intensi e significativi per altri versi, ma ai venti e più anni precedenti, in occasione dei nostri incontri a Roma, dove Nencioni veniva spesso, o per la commissione, della quale facevo parte anch’io, per la promozione dell’italiano all’estero che si riuniva al Ministero degli Esteri, o per le varie pratiche in corso, nelle quali mi coinvolgeva (ero socio dell’Accademia dal 1976 e Accademico dal 1988), tra CNR, Ministero dei Beni Culturali e Ministero dell’Istruzione. In quelle occasioni faceva spesso tappa a casa mia e sedeva a tavola con mia moglie e i miei figli. Li nomino, perché più volte l’affabilissimo ospite narrava a loro, liceali prima e poi entrambi studenti di giurisprudenza, le vicende che sto per riferire. Sappiamo, d’altronde, che l’uomo non era alieno dal rievocare, in determinate circostanze, le sue esperienze interiori, come accadde quando davanti a un folto pubblico ricostruì la sua straordinaria Autodiacronia linguistica tracciata portando allo scoperto il suo vissuto1.

Le giornate romane risvegliavano in Nencioni i ricordi della sua esperienza di funzionario ministeriale, segnata da alcuni episodi, il cui racconto in qualche caso ci teneva con il fiato sospeso. Anzitutto ci parlava del suo inizio come laureato in giurisprudenza che, per la disattenzione nel firmare, anziché lasciare anonimo, lo scritto del concorso per il titolo di procuratore, fu escluso dalle prove orali e imboccò la carriera dello statale. Entrato, nel 1937, nel Ministero allora detto dell’Educazione Nazionale, andò a far parte, poco dopo, del gabinetto del ministro Bottai e di lì poté cominciare a capire, tra l’altro, gli effetti delle leggi razziali, che avrebbero ostacolato la carriera dei docenti ebrei. In quella posizione si adoperò segretamente per limitare al massimo le conseguenze per molti colpiti da quelle leggi e strinse rapporti con la comunità ebraica. Al punto che, durante l’occupazione nazista di Roma, il rabbino della capitale affidò a lui, perché li salvasse, i rotoli della Torah, che infatti Nencioni nascose, con sommo pericolo personale, in un mobile della propria abitazione. Non mi risulta che questo episodio sia stato anche solo accennato in alcuno dei suoi scritti: non è entrato neppure in quelle pagine in cui parla della profonda lezione di civismo che emergeva da alcune figure presenti nelle stanze ministeriali. A pochi capiterà, immagino, di andare a leggere, e di poter contestualizzare davvero, questo brano (composto molto più tardi) che perciò merita di essere rimesso in circolazione: “… non posso tacere di persone alle quali devo una parte di me più antica ed elementare … Alludo alla mia giovanile educazione di cittadino nella veste di funzionario del Ministero della pubblica istruzione maturata in anni a cavallo tra il regime fascista e la restaurazione democratica. Provenendo da studi giuridici potei presto comprendere l’importanza e il significato della funzione pubblica, che i maturi funzionari di quel ministero, di educazione liberale, lontani dal mondo affaristico e devoti alla scuola, esercitavano con correttezza e umanità. La vita ministeriale, deprimente per le intelligenze orgogliose, fu per me un corso di educazione civile in tempi calamitosi e alienanti: vi appresi il giusto senso dello Stato, l’equa applicazione del diritto, e l’amministrazione pubblica come aiuto al vivere dei cittadini. In quella esperienza diventai anch’io un cittadino prima che uno studioso”2. Posso testimoniare che quel tipo di educazione aveva lasciato in lui un’impronta permanente, che si manifestava chiaramente nell’atteggiamento di rispetto e cortesia con cui si rivolgeva al personale di qualsiasi grado negli uffici ministeriali.

Ma gli anni della quasi giovinezza romana procurarono a Nencioni degli incontri che hanno segnato una svolta significativa in un intero settore della cultura italiana. Nel suo racconto di quegli anni il tono si faceva vibrante quando cominciava a parlare della conoscenza e della frequentazione assidua con due filosofi del diritto, il già famoso Giuseppe Capograssi e il suo giovanissimo allievo Flavio Lopez de Oñate. Dalle posizioni così solide e argomentate dei due giuristi, intorno alla istituzionalità e sistematicità del diritto vigente in una comunità sociale, nel quale si incardina e si svolge il comportamento individuale con tutte le sue vicende specifiche, Nencioni trasse le linee per rianimare il pensiero linguistico italiano e il coraggio di prendere di petto, lui giovane sconosciuto, le posizioni crociane negatrici della istituzionalità e sistematicità della lingua. Non tocca certo oggi a me riproporre alla vostra attenzione il piccolo libro che d’impeto uscì dalla sua penna già nel 1946 (e che destò una pronta, ma inefficace, reazione di Benedetto Croce), ma basta dire che fu quello il momento in cui in Italia si ricominciò a parlare davvero di “scienza del linguaggio”3. Torno a dire, invece, dell’ammirazione profonda di Nencioni per quei due maestri del pensiero filosofico che gli tracciarono la strada e che, quindi, hanno aperto, con lui, la strada per tutti noi che siamo venuti dopo. Del de Oñate (al quale, morto poco più che trentenne, aveva dedicato quell’opera in memoria) rievocava l’intelligenza “pronta e davvero folgorante” (usava questi aggettivi).

Potete immaginare quali furono i discorsi che su quei personaggi intrattenne con me durante il viaggio a Sulmona, la patria di Capograssi, quando nell’autunno del 2000 in quella città gli venne assegnato il premio intestato al grande concittadino. Volle visitarne la casa e la biblioteca, rovistò tra i libri e nei taccuini; trovò che alcuni appunti per le lezioni erano tracciati sul retro di alcune buste gialle da corrispondenza burocratica e si soffermò su quegli appunti. Quando gli parlai del fatto che la madre di Capograssi, Concettina Faraglia – della quale il figlio aveva parlato spesso nelle struggenti lettere a sua moglie Giulia, che Nencioni aveva conosciuto – era nata nel mio paese (Pescocostanzo) e che la sua casa si trovava di fronte alla mia, mi chiese di proseguire per quel luogo: andammo e mi sembrò che, sostando davanti al bel portale ottocentesco del palazzetto Faraglia, cercasse quasi di ricostruire la presenza del grande giurista suo ispiratore.

Vengo agli anni della mia presidenza della Crusca. I contatti erano pressoché quotidiani, perché ero io che lo cercavo, per orientarmi su molti aspetti di conduzione dell’istituzione. Da parte sua c’era molta discrezione, ma anche desiderio di informarmi sui mille particolari emersi durante i suoi 28 anni di presidenza. I temi sui quali si soffermava di più erano due: la necessità di sviluppare la ricerca sul “rovesciamento” del Vocabolario, ossia l’indagine sul contenuto dell’opera attraverso l’interrogazione (con mezzi informatici) dei commenti degli estensori alle singole voci; la cura da dedicare alla Crusca per voi, lo strumento nuovo da lui ideato (il “giornalino”, come lo chiamava) per stabilire un contatto direttissimo tra l’antica istituzione e il mondo aperto del pubblico comune e soprattutto con la scuola. Fu felice di sapere che nel 2003 la Crusca aveva ottenuto fondi notevoli per avviare largamente il lavoro sul Vocabolario. Il semestrale, al quale lavorava intensamente la sua affezionatissima Severina Parodi, raggiunse in quegli anni la tiratura di 14.000 copie.

Faccio un gran salto indietro. Io non so se Giovanni Nencioni fosse presente alla seduta del Circolo linguistico fiorentino tenuta nel primo venerdì di ottobre del 1955, nella quale io ero stato invitato, da Devoto e Migliorini, per illustrare una mia ricerca sui gerghi di mestiere, che interessava molto, come seppi dopo, Gianfranco Contini4. Fatto sta che dopo qualche anno proprio quest’ultimo presentò alcuni miei lavori a Nencioni per la pubblicazione negli “Studi di filologia italiana” della Crusca5. Acquistai fiducia nei suoi giudizi sul mio conto e di questo mi convinsi quando nel 1964 fu lui a chiedere la tornata di “libere docenze” (svoltasi nel 1965) sapendo, come poi disse, che avrebbero concorso gli allievi di Bruno Migliorini (Ghino Ghinassi), di Gianfranco Folena (Pier Vincenzo Mengaldo) e di Alfredo Schiaffini (io). Mi scuso con gli ascoltatori e lettori per questo riaggancio di mie vicende alla sua persona. Ma quei lontani precedenti riaffiorarono e mi si affollarono in mente la sera del 3 marzo del 2000, dopo l’improvvisa e da me imprevista mia successione alla presidenza dell’Accademia. Aggiungo un particolare. Compiute le operazioni di voto e sciolta la seduta del Collegio accademico, il mio illustre predecessore mi accompagnò a vedere le due stanze della foresteria nelle quali avrei alloggiato nei giorni della mia permanenza in Accademia e finita la visita mi fece percorrere, per scale e corridoi, la regolamentare “via di fuga” in casi di pericolo, dicendomi testualmente: “perché devi sentirti tranquillo e devi rassicurare la tua famiglia”. Accanto all’altezza del suo pensiero speculativo, la grande praticità negli atti della vita quotidiana era un’altra sua dote eccezionale.

 

Note

1. Giovanni Nencioni, Autodiacronia linguistica: un caso personale, in Accademia della Crusca. Incontri del Centro di grammatica italiana, La lingua italiana in movimento, Firenze, 1982, pp. 7-33.
2. Si legge in Giovanni Nencioni, Saggi e memorie, “Strumenti e testi” 7, Scuola Normale Superiore, Pisa, 2000, Prefazione, pp. X-XI.
3. Già il titolo, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio (La Nuova Italia, Firenze, 1946), che riecheggiava, invertendo i termini, il titolo del crociano Karl Vossler (Realismo e idealismo nella scienza del linguaggio, uscito a Bari nel 1908), non lasciava dubbi sul tema affrontato. Si veda la seconda edizione, che raccoglie anche gli sviluppi della disputa con Croce: ediz. Scuola Normale Superiore, Pisa 1989.
4. Cfr. il mio saggio La “lingua lombardesca” di Pescocostanzo (Abruzzo). Contributo alla storia dei gerghi italiani, in “Cultura neolatina”, XVII, 1956, pp. 241-257 (ripubbl., con aggiunte e aggiornamenti, in Francesco Sabatini, Italia linguistica delle origini. Saggi editi dal 1956 al 1996, a cura di Vittorio Coletti et al., Lecce, Argo, 1996, pp. 325-350). L’invito al “Circolo” fiorentino era stato propiziato da Francesco Rodolico, professore di geologia alla Facoltà di Architettura di Firenze, a conoscenza dell’interesse di Contini per quelle testimonianze dei rapporti tra le maestranze alpine (anche della sua Val d’Ossola) e le regioni centromeridionali. Da allora continuai a frequentare spesso l’ambiente dei linguisti e filologi fiorentini.
5. Cfr. i miei saggi Una scritta in volgare amalfitano del secolo XIII e Conferme per l’etimologia di razza dal francese antico haraz, entrambi in “Studi di filologia italiana”, XX, 1962, rispettivamente alle pp. 13-30 e 365-382 (ripubbl. in Italia linguistica …, cit., pp. 383-400 e 351-368).