Presentazione:
Alla vigilia dell’anno in cui ricorre il centocinquantenario della morte di Manzoni si è tenuto a Parma (in data 7 dicembre 2022), nell’ambito delle attività della scuola di Dottorato di ricerca in Scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche e artistiche, una giornata di studio dal titolo La lingua dei «Promessi sposi»: lavori in corso. Era l’occasione per mettere a confronto ricerche linguistiche condotte su fronti diversi, e con differenti metodologie, da giovani impegnati nella tesi di dottorato, o da poco dottori, nella convinzione che il confronto potesse rappresentare, specie negli anni fecondi della formazione, un lievito prezioso di riflessioni. I saggi qui raccolti sono excerpta di lavori in corso di più ampio respiro: li offriamo ad Angelo Stella, che aveva incoraggiato l’iniziativa e attendeva di valutarne i risultati, in memoria di riconoscenza e di affetto, con l’auspicio che l’anniversario manzoniano, giunto ormai al termine, possa promuovere una nuova leva di valenti studiosi.
Abstract:
Non è ancora stata allestita un’edizione critica e commentata delle centinaia di postille alla prima edizione (1814) del Vocabolario milanese-italiano, ma di certo non sono mancati gli studi su questo postillato così importante nella ricerca linguistica manzoniana. Questa edizione rimane infatti per lungo tempo il punto di riferimento per Manzoni, che trasforma le pagine del vocabolario in una sorta di ricco atlante linguistico dove si depositano gli esiti dei suoi studi sul fiorentino coevo: la postillatura procede infatti eliminando le voci superflue o desuete che Manzoni trova nelle catene sinonimiche proposte da Cherubini e aggiornando i lemmi all’effettivo uso attestato dai parlanti che aveva egli stesso ascoltato durante il suo soggiorno fiorentino o dai suoi fidati collaboratori fiorentini.
Il contributo si propone quindi di analizzare alcune postille linguistiche di Manzoni al Cherubini, ricercando un confronto con i notabilia ai testi della tradizione comica fiorentina cinque, sei e settecentesca (quegli stessi comici, tra l’altro – Fagiuoli su tutti – che compaiono tra le auctoritates di riferimento per lo stesso Cherubini) e con la materia linguistica del romanzo, per valutare la maggior vicinanza della lingua registrata nelle postille alla “dicitura” dell’edizione Quarantana. Nel contributo viene messo a fuoco anche il contributo di altri postillati, come il Dictionnaire des proverbes français di Pierre de la Mésangère, che possono entrare in dialogo con il Cherubini, per dare un saggio dell’approfondimento raggiunto dagli studi linguistici manzoniani, che attingono a tutte le lingue care a Manzoni per forgiare quella lingua di registro comune da proporre non solo per i Promessi Sposi, ma per l’uso nazionale.
Ma v’ha certo un lavoro del Manzoni che resta; il Dizionario milanese tutto postillato da lui. Gli piaceva osservare, e far notare altrui, che il Cherubini s’era presa la più gran pena del mondo per combinare, di capo suo, o ritrovare locuzioni italiane corrispondenti alle milanesi; ma ci correva, per lo più, tra le une e le altre, questa differenza; che le prime si leggevano soltanto nel suo Dizionario e non eran conosciute da nessuno, né in Milano né altrove, dove le seconde, almeno a Milano, erano amiche di casa di tutti. Il Manzoni annota in margine le fiorentine ch’era stato in grado di accertare. (Bonghi 1877, pp. xxv- xxvi).
Il “Dizionario milanese” del quale parla Bonghi è il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini, nella sua prima edizione del 1814[1], presenza stabile – e utile senz’altro più al Manzoni lessicologo che al Manzoni narratore – nello scriptorium manzoniano fin dalla stesura del Fermo e Lucia, e testimone fedele, postilla dopo postilla, dell’evoluzione degli studi linguistici manzoniani. A questa edizione, anche dopo il viaggio a Firenze, la pubblicazione della Quarantana e l’editio maior del Cherubini (in quattro tomi, tra il 1839 e il 1843, a cui si aggiunge un quinto volume, pubblicato postumo nel 1856, che Manzoni però non possedette), l’autore dei Promessi Sposi rimase a lungo legato, poiché sui suoi margini si era nel tempo creato “un preziosissimo taccuino di lavoro, la sede privilegiata ove fissare, per assaggi, la campionatura di fiorentino parlato che la sorte aveva offerto a un insaziabile appetito”[2]. E Bonghi ben coglie, da un lato, le fragilità dell’operazione lessicografica di Cherubini, che riporta sulle colonne del suo vocabolario una lingua lontana dall’uso, dall’altro la ratio della postillatura manzoniana, al contrario volta all’ossequio della massima oraziana secondo cui l’uso è il solo arbitro della lingua[3].
Sebbene non sia riuscito a raggiungere l’obiettivo di individuare forme toscane veramente spendibili nella prassi linguistica quotidiana, già nella prima edizione il Cherubini cita tra le fonti toscane impiegate per la compilazione proprio i medesimi autori che saranno oggetto degli spogli manzoniani; nella Prefazione al Lettore, infatti, Cherubini dichiara le proprie fonti linguistiche, mostrando di aver ben compreso, certo aiutato dall’elenco dei Citati della Crusca, a quali tipologie di testi e di autori – ai margini del canone e del parnaso letterario, e per lo più comici – indirizzarsi per individuare un registro linguistico medio e colloquiale:
non lasciai di spogliare molti di quegli scrittori toscani che più si dilettarono di cose famigliari o d’arti, come un Lippi, un Sacchetti, un Neri, un Cellini, un Cecchi, un Grazzini, un Ambra, un Berni, un Fagiuoli, ecc. onde, per così dire, spigolare lo sfuggito ai compilatori de’ nostri dizionarj.
La consapevolezza di Cherubini nel redigere la prima edizione del suo vocabolario non può certo dirsi ancora matura – imponente è il debito nei confronti del Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana di Francesco d’Alberti di Villanuova[4] – ma è comunque degno di nota, nel contesto lessicografico dell’epoca[5], lo sforzo compiuto dal lessicologo lombardo nel tentativo di ritrovare corrispondenze tra il dialetto milanese e il fiorentino, con lo scopo anche, indirettamente, di dare una certa risonanza al milanese al di fuori dei suoi confini linguistici[6]. Nell’identificazione del nucleo di autori da passare al setaccio (con l’eccezione di Fagiuoli, vissuto in epoca posteriore) è possibile riconoscere quindi il tirocinio sulla Crusca, che si avvale proprio di quei medesimi auctores; quegli stessi autori di lingua cui si rivolgerà anche Manzoni per i suoi spogli della tradizione comica fiorentina cinque, sei e settecentesca.
L’accoglienza riservata dai contemporanei al Vocabolario milanese-italiano non fu però incoraggiante – e anche contributi ben più recenti continuano a evidenziare le carenze della compilazione[7] – eppure l’impostazione di ricerca di Cherubini alle prese con la redazione del vocabolario pare in qualche misura anticipare quella che sarà la ricerca manzoniana. Tra il 1811 – anno particolarmente significativo anche per la pubblicazione dell’ultimo tomo della Crusca veronese – e l’uscita del suo vocabolario (autunno 1814), infatti, “il Cherubini intraprese un lungo soggiorno di studio in Toscana alla ricerca della lingua parlata”[8], anche se la compilazione conserva una natura prettamente libresca, come emerge dalla già menzionata tavola dei citati, dove compare, oltre ai comici toscani, “un’ampia serie di opere letterarie in dialetto milanese: la letteratura è dunque almeno e prevedibilmente una delle fonti dalle quali recuperare il dialetto”[9].
Nonostante il non indifferente sforzo lessicografico di Cherubini, Manzoni, dopo il viaggio a Firenze e grazie alla collaborazione dei fidati sodales fiorentini (tra gli altri, Gaetano Cioni, Giovan Battista Niccolini, Guglielmo Libri, Emilia Luti e la madre Giovanna Feroci Luti), non ha dubbi: per quanto autorevole, la voce libresca, “di carta e d’inchiostro” dei comici fiorentini, deve essere scalzata da quella dei fiorentini “di carne e d’ossa”[10]. In questa direzione procede quindi la postillatura del Cherubini, eliminando, progressivamente, “il troppo e ’l vano” che Manzoni trova nelle catene sinonimiche e nei riboboli proposti dal compilatore milanese e aggiornando i lemmi all’effettivo uso attestato dai parlanti che aveva egli stesso documentato durante il suo soggiorno fiorentino o grazie ai suoi collaboratori.
Manca ancora, e i tempi sarebbero ormai maturi, visto il fervore del cantiere sugli studi linguistici manzoniani, un’edizione critica e commentata delle centinaia di postille – di mano manzoniana, ma non solo, dal momento che collaborano al lavoro anche Gaetano Cioni, Giuseppe Borghi ed Emilia Luti – alla prima edizione[11] del Vocabolario milanese-italiano: sarebbe un tassello fondamentale per ampliare il già complesso e stratificato mosaico dei vocabolari e dei testi spogliati e annotati da Manzoni per plasmare lo “speciale tono medio di conversazione”[12] dei Promessi Sposi, che a sua volta avrebbe potuto rappresentare il paradigma per la lingua comune nazionale.
Questo contributo si propone quindi di analizzare alcune postille linguistiche di Manzoni al Cherubini, ricercando un confronto con i notabilia (sottolineature) ai testi della tradizione comica fiorentina cinque, sei e settecentesca (quegli stessi comici, come si è detto – Fagiuoli su tutti – che compaiono tra le auctoritates di riferimento anche per Cherubini) e con la materia linguistica del romanzo, per valutare la maggior vicinanza della lingua registrata nei marginalia alla “dicitura” dell’edizione Quarantana, dal momento che la gran parte della postillatura è, appunto, da riferirsi al periodo successivo alla prima edizione del romanzo e al soggiorno fiorentino (dalla fine di agosto ai primi di ottobre del 1827). Il campione di indagine è volutamente ridotto – si tratta di un carotaggio poco più che superficiale – per un motivo preciso: sono state riscontrate poche concordanze tra le postille al Cherubini e i notabilia ai comici proprio perché è cambiato il metodo dell’indagine linguistica di Manzoni, ormai pronto a svincolarsi dal principio di autorità rappresentato dalla lingua letteraria.
Per quanto di ridotte proporzioni, però, l’analisi permette di mettere a fuoco anche l’apporto di altre postille, come quelle al Dictionnaire des proverbes français di Pierre de la Mésangère, che possono entrare in dialogo con quelle al Cherubini, per dare un saggio dell’approfondimento raggiunto dagli studi linguistici manzoniani, che attingono a tutte le lingue care a Manzoni – milanese, francese, nonché il latino delle postille a Plauto – per plasmare la lingua “viva e vera”[13] del romanzo.
Le annotazioni manzoniane al Cherubini[14] vengono pertanto presentate di seguito alla trascrizione del lemma cui si riferiscono e all’indicazione della pagina; segue il commento della postilla stessa, il confronto con notabilia, altri spogli linguistici o postillati e l’analisi dei riusi all’interno delle diverse stesure del romanzo[15].
La postilla alla voce baja
Fa de baja. Far da burla, da scherzo. Celiare.
[p. 20]
Far per celia
Far per chiasso
La postilla è assai indicativa del modus operandi manzoniano: la consueta catena sinonimica proposta da Cherubini viene bocciata in toto[16] e la postilla va quindi di fatto a riscrivere il lemma, proponendo la resa fiorentina aggiornata all’uso contemporaneo e colto certificato dai toscani di “carne e ossa”.
Manzoni sottolinea la locuzione voler la baia anche nel testo dei Bernardi di Francesco D’Ambra (“tu vuoi la baia”)[17] e l’espressione dire baje (“e quante cicalerie e quante baje s’è dette!”) nella commedia Trinuzia di Agnolo Firenzuola[18], sebbene nel romanzo impieghi la sola voce baia.
Mancante nel Fermo e Lucia, il termine toscano trova accoglienza nella Seconda minuta: in SP VII 12-13 esso diviene addirittura mot-clé del concitato scambio tra Fermo e Agnese, costruito su enfatiche ripetizioni ecolaliche: “– Non son cose da dirsi nemmen per baia, ripigliò Agnese. – Per baia! gridò Fermo, arrestandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. Per baia! Vedrete se sarà baia”.
Il termine torna anche in SP XII 10, non più in un dialogo, ma nella descrizione degli antefatti dei tumulti di San Martino: “ma alla esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per baia”. Procedendo, nella revisione definitiva, a un décalage del tasso di letterarietà del lessico (ma trascurando – una probabile sbavatura nell’imponente limae labor finale – l’altrove imperante principio della semplificazione dei doppioni), Manzoni elimina la voce baia sostituendola, nel primo passo, con burla (riprendendo quindi una delle voci cassate in postilla) e, nel secondo, con celia.
La postilla alla voce dì
Dì (verb.). Dire.
[…]
Dì robb che no pò stà nè in ciel nè in terra. Dir cose che non le direbbe una bocca da forno, cioè che non possono stare, falsità, bugie manifeste.
[p. 125]
cose che non stanno nè in ciel nè in terra.
La postilla (che in questo caso trova accoglienza nel margine inferiore della pagina, segnalata da indicatore di richiamo) testimonia invece una delle felici concordanze – non riconosciuta però da Cherubini, che utilizza una diversa locuzione – tra il dialetto materno e la lingua target, il fiorentino: uno di quei casi di ‘doppia cittadinanza’ linguistica che nelle postille alla Crusca sarebbero stati accolti con entusiastici superlativi assoluti[19].
L’espressione idiomatica viene infatti sottolineata nel testo del Servigiale di Giovan Maria Cecchi (“Non lo trovo staman nè in Ciel, nè in terra”)[20].
La vitalità dell’espressione, che nel contesto della commedia vale però in nessun luogo, è confermata anche da Giovanna Feroci Luti che, interrogata a proposito della correttezza dell’espressione “Supposizioni, ragioni ecc. cose che non stanno ne in cielo ne in terra”, assicura che “Sta bene così”[21]. In questo senso, però, il modo assume un diverso significato da quello della commedia, ponendosi come sinonimo di “cosa assurda, impossibile, incredibile”[22].
Il modo di dire, nell’accezione confermata dalla Feroci Luti, trova accoglienza soltanto dopo l’ultima e definitiva revisione. In Q XII 5, nonostante Manzoni sia intento a comporre una digressione sulle motivazioni economiche della carestia, non rinuncia a inserire nella sua prosa, che tende ora a uno stile quasi saggistico (influenzato certamente dalle ampie letture sull’argomento), punte più colloquiali, tratte dal toscano parlato, che abbassano il registro e lo rendono omogeneo al resto della diegesi: “si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra”. Rispetto alla diversa formulazione di SP, il passo in esame inizia ad assumere la fisionomia che presenterà in Q solo nella Ventisettana, dove però il calzante modo di dire era sostituito da un’espressione dal tono non proverbiale: “suppositi troppo fuori d’ogni proposito”.
La postilla alla voce fava
Fava. Fava.
[…]
Cuntà su la rava e la fava. Dar libro e carte. Mostrare tutte le circostanze; addurre tutte le particolarità.
[p. 145]
Raccontare una cosa per filo e per segno.
Ancora una volta Manzoni cancella la proposta toscana di Cherubini[23], avvertita evidentemente come troppo libresca, a favore del modo attestato dall’uso vivo. Questa postilla al Cherubini permette di riflettere su una concordanza con un testo, per così dire, stravagante nel panorama dei postillati manzoniani, ossia il Dictionnaire des proverbes français di Pierre de la Mésangère, conservato a Grosio (in Valtellina, provincia di Sondrio), nella biblioteca della Villa Visconti-Venosta[24]. La prima postilla al Mésangère – che verosimilmente Manzoni postilla tra il 1823 (ne possiede infatti la terza edizione, pubblicata in quell’anno), e il 1824, lasciando per giunta incompiuta l’operazione di postillatura, forse proprio per lasciare spazio ad altri testi più significativi dal punto di vista linguistico, come per esempio le commedie fiorentine – mostra un’interessante concordanza con il modo di dire postillato nel Cherubini.
Per rendere conto della complessità e dell’intreccio degli studi lessicografici manzoniani riportiamo qui di seguito anche il testo del lemma francese postillato:
AIGUILLE. (De fil en)
De propos en propos.
A mesure que les mœurs deviennent plus raffinées, on abandonne les proverbes, on craint de paraître n’avoir pas assez de rapports avec la bonne société. Vous n’entendrez point une couturière dire: De fil en aiguille, et un commis marchand: Je sais ce qu’en vaut l’aune. [p. 34]
Per filo e per segno
Questa prima annotazione a margine al Dictionnaire dimostra come il tentativo di traduzione letterale porti Manzoni a travisare il significato proprio della locuzione francese: il modo francese de fil en aiguille, infatti, ha il significato, ben diverso rispetto al modo postillato, di a poco a poco; Manzoni avrà quindi ricercato il proverbio italiano più simile a quello francese, guidato probabilmente dalla voce fil, che lo avrà portato a consultare il lemma filo della Crusca, che riporta il modo di dire “Per filo, e per segno, posto avverbialm. vale Per l’appunto, Puntualmente”, che non corrisponde però all’espressione francese.
La locuzione per filo e per segno, sebbene non trovi impiego nel romanzo, rappresenta la proposta di traduzione appuntata da Manzoni in corrispondenza dell’avverbio ordine dei Menaechmei plautini[25].
Un’aggiunta al Cherubini: la voce Sentigh[26]
Sentigh = no ghe senti, nol ghe sent: son sordo da quest’orecchio
[postilla aggiunta nel margine inferiore di p. 157 del t. II]
In Q XXXVIII 14 Manzoni, a proposito dei rinnovati tentativi di don Abbondio di procrastinare la celebrazione delle nozze, scrive che il curato “era sordo da quell’orecchio”. Tale formulazione giunge a perfezione soltanto nell’ultima redazione, dal momento che sia in SP sia in V Manzoni non aveva sfruttato appieno l’espressività del modo di dire postillato, optando per una forma meno incisiva e più vicina, per la ripresa del verbo sentire, alla forma milanese: “Don Abbondio non ci sentiva da quell’orecchia”.
Alla postilla si deve però intersecare, per aver un quadro più completo dell’approfondimento dello scavo linguistico manzoniano intorno a ognuna delle locuzioni setacciate per la definizione di una lingua media di conversazione, la sottolineatura, nella commedia La Tancia di Michelangelo Buonarroti il Giovane[27] della locuzione, simile a quella ora in esame, fare il sordo (“Gli han fatto il sordo, e sono stati chiotti”).
La postilla alla voce sgarì
Sgarì (che anche dicesi Sgarà). Gridare. Garrire.
[p. 163, t. II]
Urlare. Stridere. Quest’ultimo si dice de’ bambini, qualche volta delle donne.
Sgarì: detto d’un colore. Avventare. V. Quello scialle è d’un rosso che avventa.
Manzoni cancella vigorosamente, coprendo con una macchia di inchiostro (altra prassi ricorrente per il postillatore), la variante garrire, percepita come del tutto inappropriata e fuori dall’uso come sinonimo di gridare. Molto più interessante la riflessione, per così dire, ‘di genere’, sull’uso del termine e l’aggiunta di un’altra sfumatura semantica, ora metaforica, del verbo, che si può usare in riferimento a colori sgargianti.
Il confronto con i reimpieghi di questi verbi all’interno del romanzo può dimostrare l’acribia dell’analisi linguistica manzoniana, che nulla lascia al caso, ma che si sforza di associare ad ogni referente la voce semanticamente più calzante. L’unica occorrenza della voce stridere non associata a oggetti è quella di SP XX 31, nella scena del rapimento di Lucia ad opera dei bravi dell’Innominato. L’occasione pare a Manzoni perfetta per utilizzare sia il sostantivo sia il verbo per descrivere lo spavento della giovane: “Lucia girò la testa indietro spaventata, e gettò uno strido; il malandrino la cacciò nella carrozza: uno che vi stava seduto col dorso volto ai cavalli, la prese e la ficcò, divincolantesi invano e stridente, a sedere nel fondo”; nella Ventisettana il passo non subisce correzioni, mentre nell’edizione definitiva l’espressione “gettò uno strido” diviene la più vivace “cacciò un urlo” e i due participi presenti, che certo non rendevano scorrevole la costruzione sintattica, vengono felicemente sostituiti con una proposizione concessiva che sfrutta però i medesimi verbi: “per quanto lei si divincolasse e stridesse”. Le altre due occorrenze del verbo stridere, confermate in entrambe le edizioni a stampa, sono invece utilizzate in riferimento a oggetti, come in SP IV 67 (“e le donne lasciando il manico dell’aspo che facevano girare e stridere”) e in SP V 65 (“ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può”).
Quando invece i protagonisti sono uomini, allora, sempre in accordo con il principio enucleato nella postilla, il verbo privilegiato è urlare; a titolo esemplificativo si ricordino le occorrenze di SP V 34: “– Le torno a dire, Sigr. Podestà riverito, che l’autorità del Tasso non serve al suo assunto, che anzi sta contro di lei, riprese ad urlare il conte Attilio”, SP XV 7: “E dirizzando la bocca verso la porta della scaletta, cominciava a gridare ancor più sgangheratamente” (con sostituzione, in Q di gridare con urlare, per ridurre i doppioni sinonimici) e SP XXXIII 19: «“Scelerato!” urlò don Rodrigo».
Si potrebbe completare questa rapida disamina con la riflessione sul verbo strillare che, come stridere nella postilla, Manzoni associa di preferenza a donne e bambini oppure, in apparente infrazione della regola generale, al pavido don Abbondio, come nell’occorrenza di SP VI 32, “il curato può strillare”: in questo caso, però, certo Agnese, nel tentativo di convincere i due promessi alla sortita del matrimonio a sorpresa, ha tutto l’interesse a presentare don Abbondio nel modo più vile possibile; efficace quindi anche in questo senso associare al curato un termine solitamente impiegato per figure muliebri. Interessante l’operazione di revisione di SP X 25: viene qui descritta la “voce stridula della vecchia” che deve svegliare Gertrude per andare a Monza; in Q l’aggettivo viene corretto in strillante, per rendere ancor più odiosa la voce della sopraffazione della domestica complice del principe padre. Altra vecchia detestabile è la “bugiarda strega” che dà dell’untore a Renzo in SP XXXIV 64 (“Allo strillar della donna accorreva gente dalle due bande”). In SP XXI 42, nel soliloquio dell’Innominato, in riferimento a Lucia e, più in generale, alla debolezza femminile, viene utilizzato il verbo guaire, avvertito però poco convincente, come dimostra la successiva revisione: “Non lo sapeva io prima d’ora che le donne guaiscono? guaiscono anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare”; in questo caso abbiamo in Q la correzione di guaiscono in strillano, nella consueta prospettiva di reductio ad unum dei doppioni lessicali. Chiudiamo infine la rassegna con un’occorrenza del verbo strillare associato a bambini, in SP XXXV 13: “recando due pargoletti strillanti nel lazzaretto”.
Un’ultima precisazione riguarda la voce garrire, segnalata dal Cherubini e così vigorosamente cancellata da Manzoni, che pure l’aveva usata nel Fermo e Lucia: in FL iv, II 53 leggiamo infatti – passo che subirà, nel suo complesso, una radicale revisione nelle successive redazioni – che don Abbondio “cessava di garrire anch’egli tutto impaurito”; in FL iv, VI 57 si parla di “garriti fanciulleschi” (invariati in SP, diventano in Q “un mugolìo di fanciulli”) e al § 74 Ghita definisce Fermo un “garritore”. In SP X 90, infine, Manzoni descrive l’angoscia provata da Gertrude, tormentata dalla visione spettrale della conversa assassinata, della quale avrebbe mille volte preferito tornare a “udire espressamente la sua voce, quel suo garrito, per quanto potesse essere minaccioso”; in Q però l’inciso “quel suo garrito” viene cassato, facendo così scomparire qualsiasi occorrenza della voce garrire o garrito dalla “dicitura” del romanzo.
Nota bibliografica
Note:
[1] Per un profilo di Francesco Cherubini e una descrizione generale del suo vocabolario, cfr. Sforza 2018, pp. 155-166.
[2] Danzi 2001, p. 193.
[3] Il precetto oraziano secondo cui l’usus è “penes arbitrium et ius et norma loquendi” (De Arte poetica, v. 72) viene non a caso scelto come citazione epigrafica per l’Appendice alla relazione ministeriale Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1869). Ancora sul primato dell’uso si ricordi la lettera del 25 febbraio 1829 indirizzata a Giuseppe Borghi nella quale Manzoni definisce la Crusca “il più perfetto, o, per parlare più ragionevolmente, il meno imperfetto, il più autorevole, il più utile, nella singolar condizione di questa povera lingua. Ma dove l’Uso si fa intendere, il Vocabolario non conta più per me” (Manzoni/Arieti-Isella 1986, lettera n. 309).
[4] Sulla formazione di Cherubini e il suo rapporto con l’opera di D’Alberti Villanuova, cfr. Danzi 2001, pp. 63-74.
[5] “Lo studio metodico dei dialetti era un terreno pressoché vergine in Italia all’altezza del primo decennio del secolo, sicché appare eccezionale che il giovane studioso si impegnasse, a proprie spese, in un lungo viaggio, per interrogare direttamente il popolo parlante in servizio di un dizionario, per di più dialettale” (Danzi 1992, p. 32). Nei decenni successivi, però, si registrerà un incremento considerevole delle pubblicazioni di vocabolari dialettali, soprattutto in Lombardia, dove ne verrà pubblicata, o ristampata, una trentina (cfr. Piotti 2022, p. 618).
[6] Cfr. Piotti 2022, p. 620.
[7] Luca Danzi parla per esempio di “incerta esplorazione filologica” (Danzi 2001, p. 212), cui si accompagna un’eccessiva predilezione per i registri volgari, quando non addirittura scurrili, specialmente “nei casi in cui poteva utilizzare modi più comuni e civili, di livello medio” (ivi, p. 118).
[8] Danzi 1992, p. 32. Anche in questo caso Cherubini segue le orme di D’Alberti Villanuova, il quale “per due volte aveva viaggiato in Toscana, per raccogliere una gran messe di voci in funzione della sua opera lessicografica” (ivi, p. 65).
[9] Piotti 2022, p. 620.
[10] Manzoni/Stella-Vitale 2000b, p. 38.
[11] Per le postille alla seconda edizione del Cherubini, si vedano gli studi di Jacopo Ferrari (Ferrari 2017, pp. 95-108).
[12] De Robertis 1949, p. 85.
[13] Manzoni/Stella-Vitale 2000a, p. 234.
[14] Le digitalizzazioni dell’intero postillato, così come quelle degli altri testi citati nel prosieguo del contributo, sono consultabili, con relative schede descrittive, accedendo al portale Manzoni Online, www.alessandromanzoni.org/, dove sta trovando accoglienza tutto il ricchissimo thesaurus manzoniano.
[15] Per fare riferimento alle diverse stesure ed edizioni del romanzo sono state utilizzate le seguenti abbreviazioni: FL (Fermo e Lucia) nell’edizione critica Manzoni/Colli-Italia-Raboni 2006; SP (Gli Sposi Promessi o Seconda minuta) nell’edizione critica Manzoni/Colli-Raboni 2012; V (edizione Ventisettana del romanzo) nell’edizione critica Manzoni/Martinelli 2022; Q (edizione Quarantana) nell’edizione commentata Manzoni/Poggi Salani 2013.
[16] Le barre di cancellazione sono invero modalità usuale di Manzoni per espungere dal lemma le equivalenze che non convincono.
[17] Le commedie di D’Ambra (Il furto, I Bernardi e La cofanaria) costituiscono l’intero quinto tomo dei sei tomi del Teatro comico fiorentino contenente XX. delle più rare commedie Citate da’ Sig. Accademici della Crusca, pubblicati nel 1750 a Firenze e ora custoditi (con segnatura 1293-1298) nella biblioteca della casa milanese di via del Morone, sede del Centro Nazionale Studi Manzoniani (CNSM). Per un regesto completo dei notabilia ai Bernardi, cfr. Cartago 2013, pp. 291-294.
[18] Le commedie La Trinuzia e I Lucidi sono contenute nel quinto e ultimo tomo delle Opere di messer Agnolo Firenzuola fiorentino, a cura delle Edizioni delle opere classiche italiane (voll. 82-86, Milano, 1802); i cinque volumi dell’opera omnia di Firenzuola sono custoditi nella biblioteca di Villa Manzoni a Brusuglio, con segnatura MANZ.BRU. A.03. 082-86.
[19] Come nel caso della postilla al lemma essere della Crusca, in corrispondenza della locuzione non esserci per nulla: “Locuz.e pur milanesissima” (Manzoni/Isella 2005, p. 207).
[20] Il testo della commedia è contenuto nel secondo tomo del Teatro comico fiorentino (vd. supra, n. 17). Per i notabilia al Servigiale, cfr. Cartago 2013, pp. 270-271.
[21] Manzoni/Stella-Vitale 2000b, p. 782.
[22] Questa la definizione di GDLI 1961-2002.
[23] La locuzione è registrata però nel vocabolario toscano di Pietro Fanfani: “Dare libro e carta, Dare ogni minuto ragguaglio” (Fanfani 1863, s.v. libro).
[24] Nella medesima biblioteca è conservato anche un esemplare della seconda edizione del Cherubini con le postille di Rossari ricopiate dal figliastro di Manzoni, Stefano Stampa, che fa dono del volume a Giovanni Visconti Venosta, il quale aveva assistito Manzoni nelle ultime settimane di vita, trasferendosi al secondo piano della sua casa milanese e provvedendo anche a riordinare libri e manoscritti. Per una presentazione generale del Mésangère e una relativa proposta di edizione commentata delle postille, mi sia invece permesso rimandare a Ghirardi 2018: 205-232.
[25] Manzoni/Bassi 1932, p. 246. Questo il contesto più ampio della battuta di Menecmo I: “uxor rescivit rem omnem, ut factum est, ordine” (v. 679); in traduzione (citiamo quella di Mario Scàndola): “Mia moglie è al corrente di tutto, sa come sono andate le cose, fino al minimo particolare”. La locuzione per filo e per segno, dunque, con il suo sapore quotidiano, calza a pennello per rendere l’effetto di spontaneità del dialogo plautino.
[26] Si osservi l’enclisi di -ghe per ci (cfr. Rohlfs 1966-1969, vol. III, § 903).
[27] Il testo della commedia è contenuto nel sesto e ultimo tomo del Teatro comico fiorentino (vd. supra, n. 17). Sull’importanza dello spoglio di questa commedia nella prospettiva della lingua “toscano-milanese” della Ventisettana rimando a Ghirardi 2016, pp. 324-377.
Christian Ferrari
Maurizio Landini
Dario Missaglia
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).