La lingua del medico

di Francesco Calamo-Specchia

Ospitiamo volentieri l’intervento di Francesco Calamo-Specchia, docente di Igiene e Medicina preventiva presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. L’articolo affronta un tema caro all’Accademia, quello della lingua dell’insegnamento universitario, e lo fa nel contesto di una riflessione sulla figura del medico e sul suo rapporto con
i pazienti.

L’universo valoriale che connota le presentazioni rintracciabili in rete dei corsi di Laurea in Medicina in lingua inglese attivi nel nostro Paese appare nel suo complesso centrato intorno ai temi dell’eccellenza e dell’internazionalità della formazione.

In tali presentazioni si opera dunque una equazione eccellenza-lingua inglese su cui può valere la pena di articolare qualche riflessione.

Una volta depurata tale equazione dalla confusione (che però potrebbe avervi una parte assolutamente non piccola…) tra eccellenza reale e parvenza di eccellenza – ossia dall’eterno provincialismo italiano che porta oggi i medici a chiamare gluten free i cibi senza glutine, o a dire random invece di casuale, ecc., in una sorta di inglesorum che dovrebbe servire a connotare come scienziato chiunque lo adotti – per giudicare il ruolo che nella sua produzione potrebbe avere la lingua inglese, l’eccellenza di un corso va misurata evidentemente in relazione ai risultati formativi che ci si propone di ottenere.

A che serve la formazione del medico? Quale tipo di medico si vuol formare? Cosa dunque deve sapere, saper fare e ancor più voler fare un medico per considerarsi eccellente?

Per rimanere agli obiettivi didattici “contenutistici”, quelli indicati in rete per i corsi in inglese sono grosso modo una traduzione degli analoghi obiettivi dei corsi in italiano; del resto, il contenuto del sapere medico è uno solo, e l’insegnamento di tale contenuto di sapere e saper fare non cambia certo con la lingua (e l’argomento che la conoscenza dell’inglese serva a favorire l’accesso alla letteratura scientifica, oggi prevalentemente disponibile in inglese – peraltro non tutta, e soprattutto non in tutte le discipline mediche – non regge di fronte alla sua stessa definizione: serve appunto la conoscenza della lingua, cioè una buona conoscenza dell’inglese, e non necessariamente il madrelinguismo simulato da un corso in inglese).

Dunque, la specificità dei corsi in inglese rispetto a quelli in italiano sembra rimanere appunto solo nella lingua in sé; elemento peraltro non trascurabile – anzi, fondamentale – nel terzo, cruciale ambito della formazione medica (oggi piuttosto incongruamente degradato dalla mentalità scientista a cosiddetto soft skill, ossia mero elemento accessorio): e cioè il saper essere; e ancor più, forse, il voler essere, conformandosi allo stile trasmesso esplicitamente o implicitamente dai propri docenti e dalla propria agenzia formativa; che è assolutamente decisivo nell’orientare l’uso – e dunque nel decretare il senso – di ogni sapere e di ogni saper fare.

Ossia, la specificità della lingua di insegnamento si traduce nella differenza del volume di senso espresso/inespresso che ogni formazione porta con sé in relazione al linguaggio che utilizza; perché ogni lingua costituisce un contesto valoriale e di riferimenti – oltre che esperienziale e di retaggio storico – nel quale acquistano pregnanza i suoi termini. Esprimere gli stessi contenuti con linguaggi diversi conferisce una coloritura, un senso diverso a quei contenuti, connesso al senso complessivo espresso da quei linguaggi.

C’è da chiedersi, dunque, quale sia il senso che oggi si è stratificato sulla lingua inglese, e in particolare sull’inglese scientifico.

Inglese scientifico, si badi; non la lingua meravigliosa di Shakespeare, ma quella specie di versione scientista del globish (l’inglese tecnocratico, circa 1.500 vocaboli appena, utili nelle relazioni commerciali internazionali) che potremmo definire per assonanza scientish – o scientese, a voler farla proprio da puristi… Un gergo limitato, rigorosamente paratattico e comunque poverissimo nella costruzione, che manifesta la sua attinenza con il gergo degli affari riproducendone i valori di velocità, efficienza, standardizzazione, specializzazione, nettezza, schematizzazione, brevità. Tutti valori, a rifletterci bene, forse informativi ma in sè fortemente anticomunicativi.

Ma anche l’inglese inteso come pura lingua franca – i cento vocaboli dell’inglese internazionale, esperanto di un universo globale che si colloca al minimo comune denominatore dell’espressività mondiale – non sembra possedere le qualità atte a veicolare pienamente l’attitudine all’attenzione e all’accoglienza che il medico deve formarsi per il corpo fisico e spirituale del malato, o il suo viversi come professionista d’aiuto prima e più che come erogatore di gesti tecnici; e la sua conoscenza può essere ad esempio utile nel curare malati di lingue diverse solo come base di elementarissima comprensione, da integrare con l’intervento e il supporto di specialisti nella mediazione culturale.

Banalmente, comprendere un cinese o un africano (ma anche un contadino, o un ingegnere, o un bambino, o un anziano…) richiede la conoscenza della loro lingua e, ancor più, della loro cultura – di cui il linguaggio è evidentemente parte fondante – nella quale le patologie si inscrivono e si esprimono. In tal senso, al medico occorrono capacità psicologiche e conoscenze antropologiche, insieme alla capacità di gestire il linguaggio in tutte le sue più articolate possibilità, come scandaglio sensibile e duttile, che si adatti all’incontro di volta in volta diverso con ogni specifico paziente.  L’inglese internazionale, invece, e ancor di più lo scientese anglofono – neolingua nel senso di Orwell, tagliente e precisa, senza sinonimi, in cui la sottile distinzione delle varietà viene rasa al suolo dalla normalizzazione standardizzante – è una lingua che serve principalmente a fare e a far fare; a trasferire conoscenze e prescrizioni, non a costruire e condividere significati; a convincere, non a convivere.

In virtù di tali sue caratteristiche, lo scientese focalizza necessariamente i puri gesti tecnici o addirittura tecnicali della medicina, che tali valori condividono; e insegnare in scientese, ovviamente, significa implicitamente formare il saper essere dei medici in tali valori.

Lo scientese disegna e si adatta a una didattica sempre più formale, regolamentata, riproducibile, “scientifica” anch’essa, che finisce per sopprimere ogni senso nella funzione del docente, ridotto a video vivente, a voce sostituibile, a commentatore di diapositive (slide…) standardizzate, uguali per tutti; una didattica conformista, in cui scarseggia l’interazione reciprocamente modificante e la crescita comune docente-discente che sola può conferire allo studente capacità critica e addestrarlo a esercitarla, e per la quale è indispensabile praticare il linguaggio nelle sue possibilità più estreme. Lo scientese implicitamente restringe la formazione medica al biologico e si centra sui contenuti, perché sono gli ambiti quantitativi cui meglio la sua struttura di lingua si attaglia; e se già ora, in italiano, è fatica improba portare i discenti a riflettere sul complesso perché delle cose e distrarli dal rassicurante come, può divenire pressochè impossibile farlo in un contesto culturale-linguistico che il “perché” lo scotomizza quasi del tutto, possedendo in minor misura “le parole per dirlo”.

E allora, i corsi in scientese possono favorire la costruzione di un medico educato alla certezza e alla relazione unidirezionale, o ad incertezze misurabili solo probabilisticamente e non anche esistenzialmente; e possono tendere a espungere – per pura impossibilità di rappresentarli o anche solo di alludervi – l’inesprimibile, l’attesa, l’accompagnamento, la compassione; forze potentemente terapeutiche, oltre che dinamiche doverosamente da considerare in una professione di aiuto.

Lo scientese può favorire il disegno di una estraneità tecnicale del medico dal soggetto del suo intervento, un aldilà dal vetro – di cui la telemedicina è il trionfo – che rifiuta sostanzialmente (in quanto poco “efficiente”) non solo l’assunzione su di sé della ferita del paziente come base del successo del terapeuta (come per lo sciamano, come nella metafora cristologica), ma addirittura anche la sua semplice presenza; e trasforma la relazione terapeutica in una sorta di rapporto entomologico osservatore-osservato.

E nella ricerca, l’uso dello scientese può procurare rilevanti difficoltà ad esprimere nei propri lavori argomentazioni più complesse di: “su diciotto casi tre risposte positive”, rischiando dunque di appiattire la riflessione sul dato puramente quantitativo; e sembra meno adatto ad esprimere dinamiche salute/malattia non esclusivamente biologiche né completamente quantificabili, quali ad esempio quelle che si ritrovano nel campo della sanità pubblica, ma non solo.

Qual è dunque l’eccellenza che ci si può verosimilmente aspettare da un corso di Medicina in scientese?

Di sicuro, l’eccellenza nella relazione didattica “magistrale”, da riempitori a recipienti di dati e conoscenze; ossia una sorta di ippocratismo formativo di ritorno, che potrà tramutarsi verosimilmente nei discenti in neo-ippocratismo clinico; probabilmente oggi entrambi in linea con i tempi, ma che rischiano di segnare di fatto – non certo i picchi di modernità pretesi per definizione dagli anglofoni – quanto piuttosto un ritorno indietro al grado zero della didattica e della Medicina (come forse i tempi attuali segnano nel loro complesso un ritorno indietro al grado zero della convivenza).

E di sicuro ci si può aspettare anche l’eccellenza nel fornire ai discenti strumenti e conoscenze utili a leggere (e scrivere) la letteratura medica, prevalentemente scritta in scientese; capacità fondamentale per un ricercatore.

Ma i corsi di Medicina hanno l’obiettivo di formare prevalentemente un ricercatore, o un clinico? Uno studioso, o un agente di salute? Perché una formazione in scientese appare insostituibile per chi nella sua vita professionale incontrerà prevalentemente le pubblicazioni scientifiche, e non il malato; o che incontrerà il malato come oggetto di studio prima che come soggetto sofferente; per chi non si sporcherà le mani con le angosce di chi muore né con l’aggressività di chi rimane, con gli spasmi di chi soffre né col disorientamento di chi spera. Può andar bene per un ricercatore che leggerà riviste in scientese, e non vivrà l’impiccio della relazione clinica e umana.

 Ma è la ricerca l’eccellenza “per eccellenza” cui occorre far riferimento in Medicina? È davvero un medico ricercatore quello che vogliamo formare? Centrato sui suoi strumenti e non sugli occhi del paziente, più attento ai tempi che alle esigenze incomprimibili della relazione? Conoscitore dei protocolli più che delle passioni?

Per curare complessivamente, più che per ristabilire somaticamente, non può che essere utilizzata dal curante la lingua del malato. Se vogliamo formare un terapeuta per il nostro Paese, non possiamo che formarlo in italiano – e all’italiano.

Occorrerebbe dunque forse nelle Facoltà mediche italiane studiare, approfondire, esercitare l’italiano, non tanto come grammatica e sintassi (per quanto, anche questo forse non guasterebbe…), ma soprattutto come strumento di relazione terapeutica profonda; di scavo anamnestico come comprensione profonda dei moventi del malessere; di ascolto e di conforto terapeutico, di racconto e anche di affabulazione medica (ossia anche come placebo oggi utilissimo ad esempio ai medici di base nella gestione delle patologie più comuni, sempre più ai confini tra malattia somatica, sofferenza sociale e disagio psichico); e in generale come strumento di conferimento di senso all’atto medico, o meglio ancora di condivisione di senso col paziente.

Del resto, l’italiano è per nostra grande fortuna – e vanto – una lingua splendidamente articolata, utile ad esprimere con raffinatezza sensazioni (sintomi…) e stati d’animo, o anche a mantenere le zone di oscurità risonante (il parlare “suggestivo”, che suggerisce, appunto, e apre la relazione, non la delimita), le interpunzioni e i sottotesti che servono al medico per una comunicazione e una comprensione completa del sofferente e della sua sofferenza; per una comunicazione emozionata come segno di partecipazione, e emozionante come presupposto di efficacia. Una comunicazione profonda, che peraltro spesso è anche strumento “tecnico” insostituibile: si pensi alla fallacia dei tentativi di far descrivere il dolore – ma anche semplicemente di farlo esprimere – utilizzando scale predefinite – colorimetriche, di analogie, di aderenza a definizioni precostituite, ecc.; o alle difficoltà della “compliance” (fiducia, direbbe un vecchio Condotto…) verso i prodotti medicali e verso il medico – oggi dilaceranti, dall’antivaccinismo alle aggressioni ai sanitari – che è possibile ricostruire non certo con strategie di counselling strumentale (convincimento, direbbe un pubblicitario… no, direbbe marketing…) fondato su una autorevolezza indiscussa del ruolo cui ormai non è più possibile appellarsi, ma solo nella forza della relazione umana di reciproco riconoscimento tra medico e paziente, che come tutte le relazioni funziona nella verità e nella vicinanza che soltanto un linguaggio comune (prima sintattico e poi emozionale) garantisce.

Va giustamente diffondendosi sempre più la medicina “di precisione”, che riconosce l’unicità biologica irripetibile di ogni organismo, e afferma la necessità di un intervento terapeutico altrettanto specifico, personalizzato. Ebbene, è davvero stupefacente che tale esigenza di personalizzazione non si senta anche – o soprattutto – verso l’unicità della personalità di ogni paziente. Si sente cioè sempre più l’esigenza di connotare la specificità umana definendone l’identità genetica e biologica, per garantire un intervento farmacologico appropriato; ma si lascia fuori da tale connotazione l’identità culturale e spirituale, in un processo di neo-meccanicismo negatore dell’esistenza e comunque della rilevanza sanitaria di qualsiasi cosa non sia riconducibile a schemi ed analisi quantitative.

Ma la salute e la malattia sono entità per definizione qualitative, che visione della vita, atteggiamenti e credenze enormemente influenzano; e per addentrarsi nei territori della qualità medica completa (non solo efficacia degli interventi, non solo efficienza dei servizi, non solo ripristino funzionale; ma piena guarigione) e accettarne le sfide, occorre azzardare la vicinanza “culturale” completa al malato; e primo strumento della vicinanza e dell’accoglienza è il linguaggio.

Ma mentre la definizione della diagnostica per immagini, o la precisione delle indagini molecolari e genetiche, aumentano fino a livelli stupefacenti, per lo strumento primario dell’analisi e dell’intervento qualitativo medico – ossia per il linguaggio – ci si accontenta ancora di rimanere sostanzialmente a “io Tarzan tu Jane”; e la relazione medica, non riconosciuta come strumento professionale di diagnosi e cura ma ridotta a bontà opzionale, compressa dalla routine, inaridita dalla formazione tecnica che lo scientese potentemente privilegia, langue nei territori dell’irrilevanza.

Un mio più giovane collega, vanto della chirurgia pugliese, mi ha ricevuto con mia moglie, tempo fa, per un grave problema. Nel suo enorme, spoglio studio di ospedale, dietro la sua sterminata scrivania con un piano di cristallo nero completamente vuoto, ha assistito – non ascoltandola – all’espressione del nostro dolore, sterilizzandola con un silenzio ostinato e uno sguardo che mai ha incrociato i nostri occhi, concentrato sulle sue mani. E ci ha detto congedandoci non più di venti parole, a voce bassissima, amimico, sempre guardando altrove. Ottimo chirurgo, pessimo, inqualificabile medico; ottimo meccanico, inesistente come terapeuta e professionista. Esperto redattore di lavori in scientese.

Sono questi i medici che vogliamo? Bravi tecnici di organi e apparati, cui con ogni evidenza non serve e non interessa l’incontro con l’umano, e cui dunque più che una formazione basta un addestramento?  

Se la risposta è no, allora non solo serve più italiano – più comunicazione – nei corsi di Medicina, e magari meno corsi in inglese; ma servono corsi in Giovannese, Lucillese, Renatese, Albertese, Ceciliese…; corsi in cui si impari – si viva – che la lingua del medico è prima quella del paziente e poi quella della scienza.