La lingua: il nostro passato e il nostro futuro. Considerazioni sull'italiano nel quadro del multilinguismo attuale

di Nicoletta Maraschio

In occasione del 75° Congresso Mondiale dell'IFLA (International Federation of Library Associations and Institutions, Milano, 23-27 agosto 2009) Nicoletta Maraschio, presidente dell'Accademia della Crusca, ha pronunciato la tradizionale prolusione prevista dalla cerimonia di apertura sul tema La lingua: il nostro passato e il nostro futuro. Riproponiamo le due versioni, in italiano e in inglese, del testo in cui Nicoletta Maraschio ripercorre le fasi fondamentali della storia della lingua italiana come bene materiale concretamente disponibile nel patrimonio librario, ma soprattutto come bene culturale immateriale che si è diffuso tra tutti i parlanti e gli scriventi nel territorio italiano, lasciando molte sue tracce anche oltre i confini nazionali. L'italiano poi è inserito nel quadro del multilinguismo europeo, in quella che Francesco Sabatini ha chiamato "tempesta delle lingue", una sfida recente che tutte le lingue si trovano a dover fronteggiare.

Sono davvero onorata di partecipare a questa importante edizione del Congresso mondiale dell'IFLA, dedicato al tema Libraries create future: building on culturale heritage che, dopo oltre quarant'anni anni, si tiene di nuovo in Italia. Mi auguro di cuore che un evento come questo, di grande rilevanza internazionale, possa contribuire in modo significativo a stimolare e diffondere nel nostro Paese una maggiore sensibilità e una maggiore consapevolezza del valore di un'eredità culturale tanto ricca, articolata e stratificata, cronologicamente e regionalmente.

 

Mi occupo per mestiere di parole; parole parlate, parole scritte, parole trasmesse e digitate. Parole di ieri e parole di oggi. Non credo di sbagliarmi quando penso che il mio sia un lavoro di grande attualità, a causa della assoluta centralità della comunicazione nel mondo attuale. E intendo soprattutto comunicazione verbale. Anche se non tutti ne sono convinti, perché molti pensano che siano le immagini ad avere più potere impressivo e quindi a rappresentare meglio, nella loro sinteticità e immediatezza, la velocità dei processi che caratterizzano il nostro tempo.

 

Un mio collega illustre, Gian Luigi Beccaria dell'Università di Torino, ha scritto recentemente un piccolo libro Elogio della lentezza, che non significa altro che elogio della lettura. La lettura consente a ciascuno di noi di scegliere i modi e i tempi che preferisce per entrare nella pagina scritta, ed entrarci più o meno profondamente, a seconda dei suoi interessi, della sua cultura, della sintonia che vuole e riesce a instaurare con l'autore. "Nel tempo della velocità e della simultaneità imperanti l'indugio del leggere, lento e distanziante, permette ancora di trarre possibilità di coscienza critica, civile, razionale dalle parole del passato e del presente, di allontanarsi dall'immediatezza, di formulare giudizi sul mondo, di riconoscere il movimento delle cose". Quando si dice libertà che i libri ti consentono, si intende certo anche questo. Forse soprattutto questo.

 

La storia della lingua italiana è stata essenzialmente, fino a circa un secolo fa, la storia di una lingua scritta, quindi è stata una storia fatta di libri. Poi tutto è cambiato. La trasformazione politica, economica e sociale del Paese, dall'Unità per tutto il '900, è stata profondissima e ha avuto conseguenze molto rilevanti sulla lingua nazionale che da lingua di libri, parlata da un'esigua minoranza (nel 1861: circa il 10% della popolazione) è diventata, seppur tardivamente, lingua parlata da oltre il 90% degli italiani. Il processo di italianizzazione è avvenuto in tempi, forme e modi diversi, per lo più spontaneamente, sotto la spinta di fattori extralinguistici imponenti. L'unificazione politica ha portato infatti a un esercito, un'amministrazione e una scuola unitari, in gran parte centralizzati, e quindi alla necessità, inedita per la maggior parte delle persone che per secoli hanno abitato questo territorio, di dover far ricorso a un'unica lingua comune per comunicare con gli altri. Necessità per altro resa impellente anche dall'industrializzazione e dai rilevanti fenomeni migratori ad essa connessi: milioni di italiani si sono spostati dalle campagne e dalle montagne alle città e dal Sud al Nord del Paese; mentre l'emigrazione verso l'estero ha portato circa 30 milioni dialettofoni, tra il 1880 e il 1910, fuori dai nostri confini; i grandi mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, televisione) hanno successivamente messo in contatto sempre più italiani, in prevalenza dialettofoni, con un italiano parlato pubblico che è stato da loro, più o meno superficialmente, assimilato.

 

L'Italia comunque è stata e rimane un paese tipicamente multilingue. Anche oggi oltre il 30% della popolazione usa abitualmente un dialetto, in casa e sui luoghi di lavoro; si aggiungano circa il 5% di immigrati, persone provenienti da 180 paesi diversi di tutto il mondo, che hanno portato qui la loro lingua e la percentuale simile di parlanti alloglotti (greci, albanesi, tedeschi, provenzali, franco provenzali, francesi, catalani) che formano le minoranze storiche presenti da secoli sul nostro territorio. In questo quadro linguisticamente frammentato si individuano due linee ben rilevate e nettamente contrastanti: l'una che porta al centro l'altra che se ne allontana. Da una parte, la nostra storia linguistica è multicentrica - l'Italia dalle cento città - tanto che i dialetti sono non soltanto lingue quotidianamente parlate ancora da milioni di persone, ma sono stati e sono espressioni vivaci di tradizioni letterarie illustri. A Milano - permettetemi questo solo riferimento - si va da Bonvesin da la Riva, a Carlo Porta, a Delio Tessa, per arrivare ai tanti poeti che nel '900, come Franco Loi, hanno preferito all'italiano il milanese, giudicandolo più adatto alla sperimentazione espressiva che andavano cercando. Ma fin dagli inizi del '300 Dante - ecco l'altra linea - dimostrando una capacità metalinguistica e anche profetica straordinaria, nel De vulgari eloquentia, sostenne che un'unità linguistica in Italia ci sarebbe stata se solo i letterati l'avessero voluto: un volgare illustre di stampo letterario, creato appunto da scrittori e da poeti,cardine di tutti gli altri volgari, lingua scritta raffinata, ma degna di essere usata anche nella politica (nell'aula 'reggia') e per la giustizia (nella curia 'alto tribunale'). E Dante stesso, come è a tutti noto, contribuì autorevolmente a creare con la Commedia un modello linguistico unificante, in quanto ben presto ammirato e imitato in tutta Italia. Tendenze conguaglianti tra le molte varietà municipali si manifestarono poi con forza nel '400, in connessione con gli sviluppi della civiltà signorile e cortigiana di ambito tipicamente regionale, ma con esigenze comunicative nazionali e internazionali. E nel '400 un grande umanista Leon Battista Alberti, in grande anticipo sui tempi, scrisse la prima grammatica sistematica in Europa di una lingua volgare la Grammatichetta vaticana, per dimostrare l'uguale dignità strutturale della sua lingua materna rispetto al latino. Nel '500, ragioni ideali e esigenze materiali legate alla stampa e alla diffusione del libro portarono finalmente alla codificazione di un italiano scritto letterario, unitario e omogeneo, facile da imitare e riprodurre in quanto metastorico, perché fondato su una lingua di due secoli precedente, il fiorentino trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio. E 'questo il modello vincente del Bembo. Il Vocabolario della Crusca, pubblicato per la prima volta nel 1612, corresse almeno in parte questa impostazione rigidamente arcaicizzante e fuori dal movimento del presente, aprendosi al fiorentino dell'uso cinquecentesco. Il Vocabolario ha, quindi, nella storia linguistica italiana, un'importanza fondamentale perché è stato strumento identitario, sedimento, cioè tesoro di lingua e nello stesso tempo motore potente di un processo unificante destinato a protrarsi nel tempo. Si deve soprattutto al Vocabolario la creazione e diffusione di una lingua tetto, l'italiano lingua nazionale, che precede di molto la formazione dell'Italia come Stato politicamente unitario; una lingua tetto, al di sopra delle tante varietà che continuarono per secoli (e ancora continuano) ad essere usate con funzioni comunicative sociali e culturali diverse.

 

In Accademia, nella nostra Biblioteca, esiste un fondo che ha un valore altamente simbolico. Si tratta del Fondo dei citati . Esso è formato da tutti i libri che gli Accademici della Crusca nel corso dei secoli hanno ritenuto degni di essere "citati" nelle cinque edizioni del loro grande Vocabolario (1612-1923). In questo fondo, in questi libri, chiusi nei nostri armadi, c'è gran parte della lingua italiana dal '300 fino agli inizi del '900. Un fondo unico e prezioso che abbiamo avuto la possibilità recentemente di valorizzare grazie a un finanziamento del MIBAC. L'italiano è, come tutte le altre lingue del mondo, un importante bene culturale, un bene culturale immateriale, diffuso capillarmente tra tutti quelli che lo parlano e lo scrivono. Nelle sue parole, ma anche nelle sue specificità grammaticali, si può cogliere la storia delle persone che di generazione in generazione hanno abitato questa penisola, dei contatti che esse hanno avuto con altri popoli e altre culture, della loro capacità di imporre la propria lingua e la propria cultura all'esterno, al di là delle Alpi e oltre il Mediterraneo. L'italiano è una lingua che è stata influenzata per secoli dal latino e la sua grammatica ne serba tracce evidenti, ad esempio nella libertà di collocazione delle parole nella frase, nella mancanza dell'espressione obbligatoria del soggetto, in strutture morfologiche particolarmente complesse (basti pensare al sistema dei verbi e a quello dei pronomi che solo oggi si stanno semplificando). La presenza poi di gallicismi, solo per fare un altro esempio questa volta lessicale, è particolarmente nutrita in italiano, a causa di un rapporto quasi continuo, dal Medioevo al Novecento, con la lingua e la cultura della Francia, da gioia e cavaliere a democrazia e libertà. Recentemente l'Accademia ha pubblicato un Dizionario degli italianismi in francese, inglese e tedesco, scritto da un gruppo di studiosi coordinati dall'accademico tedesco Harro Stammerjohann, dal quale risulta che sono oltre 4400 gli italianismi che si sono imposti in queste lingue, da bravo a piazza, da balcone a sonetto, da adagio a ciao. Termini architettonici, musicali, scientifici, letterari ma anche voci legate al comportamento quotidiano. Esiste poi un lessico intellettuale europeo di base greco-latina che l'italiano ha contribuito ampiamente a formare, soprattutto in epoca rinascimentale, funzionando da lingua ponte tra l'antichità e la modernità. Dunque le lingue sono beni immateriali che hanno lasciato tracce ben al di là dei propri confini!

 

Ma l'italiano, oltre a essere un bene culturale immateriale, per la sua lunga storia di lingua soprattutto scritta, è anche un bene culturale materiale, perché possiamo ritrovarlo facilmente e concretamente, prendendo in mano e sfogliando i suoi libri, soprattutto alcuni libri fondamentali come la Commedia dantesca, il Canzoniere del Petrarca e il Decameron del Boccaccio. Oltre l'80% del lessico di base dell'italiano di oggi coincide significativamente con quello delle Tre Corone. L'italiano ha una continuità e una profondità temporale straordinaria che deriva dalla sua storia. Ma poi ci sono tutti gli altri libri raccolti e conservati nel fondo dei citati della biblioteca della Crusca, che hanno accresciuto e arricchito la lingua nel corso del tempo e sono entrati seppur "a pezzi", per citazioni ed esempi, nel Vocabolario. Possiamo allora, per così dire, toccare materialmente l'italiano, prendendo in mano, sfogliando e ora anche interrogando (grazie alla digitalizzazione che ne abbiamo fatto) proprio il Vocabolario degli accademici della Crusca; possiamo passeggiare tra le sue pagine e le parole lemmatizzate come in una "galleria della lingua" simile agli Uffizi, (l'immagine suggestiva è del mio maestro Giovanni Nencioni).Il Vocabolario è stato tesoro e fonte normativa per eccellenza, contestato da molti, ma tenuto sul tavolo di lavoro e usato concretamente in Italia per secoli da tutti quelli che sapevano scrivere.

 

Oggi anche l'italiano è entrato in quella che il mio predecessore Francesco Sabatini ha definito la "tempesta delle lingue" causata dalla globalizzazione e deve affrontare nuove sfide, la concorrenza di altre lingue e più in generale la sfida del multilinguismo che richiede innanzi tutto tutela di sé e insieme apertura all'altro. L'Europa si sta molto impegnando in questa direzione perché considera il multilinguismo, coerentemente coi principi dei trattati costitutivi, elemento fondante della propria identità. Questo implica che ogni stato europeo tuteli la propria lingua e ne diffonda la conoscenza all'interno e all'esterno dei propri confini e promuova, soprattutto attraverso la scuola ma anche in programmi di educazione permanente, il plurilinguismo individuale, richiedendo a ciascuno dei suoi cittadini la conoscenza di almeno tre lingue europee.

 

Nel maggio scorso, in occasione della partecipazione a un convegno internazionale organizzato a Firenze dall'Accademia della Crusca e dedicato alle lingue d'Europa, il commissario europeo al multilinguismo Leonard Orban e lo scrittore libanese Amin Maalouf (Presidente della commissione nominata dallo stesso Orban per tracciare alcune linee guida della futura politica linguistica europea) hanno ribadito l'idea che tutte le nostre lingue costituiscono un grande patrimonio comune da tutelare nella sua interezza. Il rapporto Maalouf si intitola significativamente "Una sfida salutare. Come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l'Europa" ed esprime una chiara visione non gerarchica dell'insieme delle lingue europee, una visione destinata ad aprire nuove, concrete, prospettive verso la loro parità sostanziale e non solo ideale. Si tratta di un documento di grande rilevanza e molto opportuno in un momento in cui sappiamo che, per ragioni diverse, alcune lingue tendono ad acquistare, nel nostro continente, un potere superiore rispetto a quello di tutte le altre, in evidente contrasto con il principio di unità nella diversità che ispira la costruzione della casa comune europea. Il rischio è che alcune lingue perdano progressivamente le funzioni superiori, legate alla ricerca scientifica, all'espressione letteraria, all'insegnamento universitario. Si consideri che in questo progetto di valorizzazione del multilinguismo e multiculturalismo, che è parte della sua storia, l'Europa si presenta come modello e esempio unico al mondo.

 

Le lingue, come il passato ma anche il presente ci insegnano, possono drammaticamente separare i popoli se considerate espressioni di identità monolitiche e chiuse e diventare strumenti potenti e aggressivi di rifiuto dell'altro. Ma le lingue possono invece unire popoli diversi, soprattutto se vengono considerate parti di una competenza linguistica multipla, elementi essenziali di conoscenza del proprio interlocutore e ponti utili per quel dialogo interculturale che tutti invochiamo, ma che è ancora lontano dall'essere realizzato. La sfida del multilinguismo europeo è una sfida di pace, è un'opportunità per tutti i nostri popoli. Nel rapporto Maalouf leggiamo parole consolanti: "L'Unione europea si è impegnata a costruire una società del sapere diversificata e armoniosa, competitiva e aperta sul mondo e a promuovere la conoscenza delle lingue; ha espresso l'auspicio, in particolare, che in ogni paese due lingue straniere siano insegnate fin dall'infanzia. Ponendosi in questa prospettiva il nostro gruppo di riflessione ha voluto proporre una modalità d'applicazione che tenga conto della complessità del fenomeno linguistico in questo inizio del XXI secolo" La proposta avanzata dal documento Maalouf (che si può leggere anche nel sito dell'Accademia della Crusca: www.accademiadellacrusca.it) ha quindi una forte valenza ideale, ma nello stesso tempo è precisa e concreta: ogni cittadino dell'Europa sia almeno trilingue, possieda cioè la sua lingua madre, porto di sicurezza di fronte al mutare del mondo, una lingua "segretaria" in qualche modo veicolare, indispensabile a garantire una comunicazione al di sopra della diversità (che in questo momento non può essere altro che l'inglese) e una lingua personale adottiva, cioè una lingua sposa, che può essere una qualsiasi lingua (compreso l'inglese naturalmente) che ciascuno decide di scegliere, conoscere, adottare, sposare e amare profondamente. Solo in questo modo, riconoscendo alle lingue il loro statuto non di semplici strumenti comunicativi, ma di beni culturali, di carte di identità delle persone e dei popoli, di modi diversi di conoscere e di analizzare la realtà, si eviteranno i rischi di una omologazione monoculturale eccessivamente semplificante e non rispettosa della storia. Nel sito dell'Accademia abbiamo scritto "la lingua è la nostra storia, il nostro futuro". Una coincidenza significativa con il tema di questo congresso. Non occorre insistere molto, soprattutto in questa sede, sul fatto che la conoscenza approfondita di una lingua non può avvenire senza i libri che ne esprimono le funzioni più alte, quelle della scienza, della filosofia, della poesia. Le biblioteche come granai, è stato detto in occasione della presentazione di questo Congresso. Le lingue possono allora essere considerate come il nostro pane: tutta la simbologia della Crusca, dal suo stesso nome, alle pale degli accademici, al suo emblema, il frullone (una macchina per separare il fior fior di farina dalla crusca appunto), il suo motto il più bel fior ne coglie, ruota intorno al tema del pane. Mi piace concludere quindi mostrandovi qualche immagine dell'Accademia, come invito caloroso a venire a visitarci nella nostra bella sede fiorentina.

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Nicoletta Maraschio, president of the Accademia della Crusca
Language: our past and our future. Considerations about Italian language in today's multiculturalism

 

I am really honoured to take part in this important edition of IFLA World Congress about "Libraries [that] create future: building on cultural heritage", which takes place in Italy again after forty years. I do hope that such an internationally relevant event can give a significant contribution in stimulating and disseminating a greater sensitivity and awareness in our Country for this cultural heritage, which is so rich, articulated and multilayered from both a chronological and regional point of view.

 

My job deals with words: spoken words, written words, transmitted and typed words. Words of yesterday and of today. I think I am not wrong when I say that my job is a very topical one, since communication is so central in today's world. And I mean verbal communication above all. Even if not everybody agrees, because most people think that images - so concise and immediate - have a greater impressive power and therefore represent in a more efficient way the fast processes which characterize our times.

 

An eminent colleague of mine, Gian Luigi Beccaria of the University of Torino, has recently written a little book with the title "Elogio della lentezza" (which we could translate in English as "Praise of slowness"). This means no other thing than a praise of reading. Reading enables each of us to choose the ways and times we prefer to enter the written word, and enter it more or less profoundly, according to our interests, culture and the rapport we want or can establish with the author. "In the age of prevailing speed and simultaneity, with the slow and distancing hesitation of reading, the reader's critical, civil, rational consciousness is still awakened by past and present words. They enable the reader to move away from immediateness, to express judgements about the world, to recognize the movement of things." When we talk about books engendering freedom, we surely mean that, too. Maybe especially that.

 

Up to a century ago, the history of Italian language can be considered essentially the history of a written language, and therefore a history made of books. Then everything changed. The political, economic and social transformations of the Country, from the Unity throughout the 20th century, were very significant and had deep consequences on the national language. From a language of books, spoken by a small minority (in 1861 about 10% of the population) Italian became, though quite late, the language spoken by over the 90% of Italians. The process of italianization evolved in different times, forms and ways, mostly spontaneously, caused by huge extra-linguistic factors. Political unity led indeed to the creation of a single centralized army, administration and school. That caused the unpreceeded need for people who had lived in this land for centuries of using a single common language in order to communicate. This need was urged also by the industrialization and the migrations it gave birth to: millions of Italians moved from the country and the mountains to urban areas, and from the south to the north of the Country. Migration towards foreign countries brought about 30 millions of dialect speakers out of our borders from 1880 and 1910. Later on, mass media such as radio, cinema and television put in contact an ever-growing number of Italians, mostly dialect speakers, with a spoken Italian language which they assimilated more or less superficially.

In any case, Italy was and remains a typically multilingual Country. Even today over 30% of the population uses dialect as a habit, both at home and at work. We must add a 5% of immigrants, people coming from 180 different countries from all over the world, who brought here their language; and a further similar percentage of alloglot speakers (from Greece, Albania, Germany, Provence, Franco-Provençal areas, France and Catalonia) who are historical minorities living in Italy for centuries. In this linguistically fragmented landscape, we can trace two well defined and clearly contrasting trends: one leading to the centre, the other distancing from it. On the one hand, our linguistic history is multicentric (that's why we talk of the " Italy of a hundred cities"): dialects are not only languages spoken everyday by millions of people, but were and still are living expressions of eminent literary traditions. In Milan - let me recall this very reference - we space from Bonvesin da to Carlo Porta and Delio Tessa, to the many poets such as Franco Loi who in the 20th century preferred Milanese dialect to Italian, judging it more suitable for the expressive experimentation they were looking for. But it is from the beginning of the 14th century (here is the other trend) that Dante showed an extraordinary metalinguistic, and prophetic ability as well, by stating in his De vulgari eloquentia that Italy would reach a linguistic unity only if intellectuals really wanted it. He was speaking of a noble literary vulgar Italian, created by poets and writers, foundation of every other vulgar Italian, a refined written language which could also be used in politics (in the aula "reggia") and for justice (in the curia "alto tribunale"). Dante himself, as everybody knows, gave an authoritative contribution to the creation of a unifying linguistic model by writing the Commedia, soon admired and imitated all over Italy . Levelling trends among the many different municipal varieties came pressingly into view in the 15th century, with the developments of the typically regional courtly seigniory society, which had national and international communicative needs as well. In the 15th century, well ahead of his time, the great humanist Leon Battista Alberti wrote the first European systematic grammar of a vulgar Italian language, the Grammatichetta Vaticana, to demonstrate the equal structural dignity of his mother tongue and Latin. In the 16th century, ideal reasons and material needs related to book printing and diffusion finally led to the coding of a written literary Italian, unitary and homogeneous, easy to imitate and reproduce because of its metahistorical qualities. It was indeed funded on a language born two centuries earlier, the fourteenth-century Florentine used by Dante, Petrarca and Boccaccio. This was the winning model followed by Bembo. The Vocabolario della Crusca, first published in 1612, partly corrected this rigidly archaic formulation, which was distant from the movement of the present, and opened itself to sixteenth-century Florentine. The Vocabolario has therefore a fundamental importance in Italian linguistic history, because it was an instrument of identity, a deposit and therefore a treasure of language and at the same time a powerful engine of a unifying process destined to last in time . We owe especially to the Vocabolario the creation and diffusion of an umbrella-language, Italian as a national language, which precedes by far the creation of Italy as a single political State. It was an umbrella-language above the many varieties which kept (and still are) being used for centuries with different social and cultural communicative functions.

 

In our Academy, in the Library, there is a collection of great symbolic value. Its name is Fondo dei citati. It is made of all the books that through the centuries the Members of the Accademia della Crusca thought worthy of quotation in the 5 editions of their Vocabolario (1612-1923). In these books, closed in our shelves, a great part of Italian language (from the 14th to the beginning of the 20th century) is preserved. A unique a precious collection which we recently could better exploit thanks to the funds of the Italian Ministry of Cultural Heritage and Activities (MIBAC). Italian is, like all other languages in the world, an important cultural good, an immaterial good, diffusely widespread among all those who speak it and write it. From its words, but also in its grammatical peculiarities, we can deduce and trace the history of Italian people, who for generations lived in this peninsula; the contacts they had with other populations and other cultures; their ability to impose their language and culture abroad, beyond the Alps and the Mediterranean . Italian is a language which for centuries has been influenced by Latin, as its grammar shows with clear evidence . We can recall for instance the free position a word can take in a sentence, or the fact that a subject is not obligatory, or again the existence of particularly complex expressions from a morphological point of view (we just have to think to the verbal system or to the pronouns, which are becoming simpler only today). The presence of gallicisms, then, just to make another example concerning the vocabulary, is particularly rich in Italian, and it is due to an almost continuous relationship with French language and culture from the Middle Ages to the 20th century: we go from words like gioia and cavaliere to democrazia and libertà. The Accademia has recently published a Dictionary of Italianisms in French, English and German, written by a group of scholars coordinated by the German member Harro Stammerjohann. In this study they could trace more than 4400 Italianisms in these languages, from bravo to piazza, from balcone to sonetto, from adagio to ciao. Architectural, musical, scientific, literary terms, but also words coming from everyday behaviour. There is then a greek- and latin-based European intellectual vocabulary which was widely nourished by Italian language, especially during the Renaissance, functioning as a bridge between antiquity and modern age. Languages are therefore immaterial goods which left traces well beyond their own borders!

 

Italian, though, is not just an immaterial cultural good due to its long history as a (mainly written) language; it is also a material cultural good because we can easily and tangibly find it just by taking in our hands and turning over the pages of its books, especially some fundamental ones such as Dante's Commedia, Petrarch's Canzoniere and Boccaccio's Decameron. Over 80% of the basic Italian words of our days significantly coincides with that of the Three Crowns. Italian has an extraordinary continuity and profundity in time which derives from its history. But then there are all the other books gathered and preserved in the Fondo dei citati in the Crusca Library, which enriched the language during centuries and entered the Vocabolario, though "by pieces", quotations and examples. We can therefore, so to say, materially touch Italian language, taking in our hands, turning the pages of and now even interrogating (thanks to the digitalization we made) the Vocabolario degli accademici della Crusca. We can walk through its pages and lemmatized words as if in a "language gallery" similar to the Uffizi (this striking image comes from my Teacher Giovanni Nencioni). The Vocabolario was a treasure and a prescriptive source par excellence, challenged by many, but kept on the desk and really used for centuries by all those who could write in Italy .

 

Today even Italian entered the "language tempest" caused by globalization, as my predecessor Francesco Sabatini defined it, and must face new challenges, the competition of other languages and more in general multiculturalism, which requires above all self-protection and openness t owards the Other as well. Europe is very engaged in this direction because it considers multilingualism as a funding element of its own identity, coherently with the principles of its constitutive treaties. This implies that every European State must preserve its language and make it well known within and without its borders, by promoting individual plurilingualism especially at school but also in life-long learning programmes, and by requesting from every citizen the knowledge of at least three European languages.

 

Last May, during an International Congress about European Languages organized in Florence by the Accademia della Crusca, the European Commissioner for multilingualism Leonard Orban and the Lebanese writer Amin Maalouf (President of the commission nominated by Orban and created to trace some Guidelines for the future European linguistic policy) reaffirmed that all our languages constitute a great common heritage which has to be preserved in its whole. The Maalouf Report is significantly entitled "A rewarding challenge . How the multiplicity of languages could strengthen Europe " and expresses a clearly non-hierarchical vision of all European languages, a vision destined to open new real perspectives towards their substantial (and therefore not only ideal) equality. It is a very relevant document, whose timeliness is greater if we think that nowadays in our continent, for different reasons, some languages tend to extend their power on the others, in evident contrast with the principle of unity in diversity which inspires the building of the common European house . We risk that some languages progressively lose their superior functions, related to scientific research, literary expression, academic teaching. In this project meant to improve multilingualism and multiculturalism, which are part of its history, Europe presents itself as a model and a unique example worldwide.

 

Languages, as past and present experiences teach us, can dramatically separate populations if we consider them as closed monolithic expressions of identity, and they can also become powerful aggressive instruments of rejection of the Other. But languages can also unite different populations, especially if we consider them as parts of a multiple linguistic competence, essential elements of knowledge of our conversation partner, and useful bridges for the intercultural dialogue which we all invoke, but which is still far from being accomplished. The challenge of European multilingualism is a challenge of peace, an opportunity for all people. In the Maalouf Report we read comforting words: "The European Union [and I am quoting] has already committed itself to building up a knowledge-based society, which is diverse and harmonious, competitive and internationally outward-looking, and to promote the knowledge of languages; it has amongst other things expressed the wish that two foreign languages be taught in every country at as early an age as possible. Within this perspective, our reflection group aimed at an approach which would take account of the complexity of the language issue at the start of the 21st century". The proposal made by the Maalouf Report [end of quote] (which can be read also on the website of the Accademia della Crusca, at www.accademiadellacrusca.it) has therefore a great ideal value, but at the same time is very precise and tangible . Every European citizen should know three languages: his/her mother tongue, a safe harbour facing the changing world, but also a "secretary" language, somehow an essential lingua franca able to guarantee a communication overcoming differences (a role which now can be only performed by the English language) and finally a personal adoptive language, a "bride" language, which can be any language (English included, of course), which everybody decides to choose, know, adopt, marry and love profoundly. Only in this way, by recognizing the statute of languages not as simple means of communication but as cultural goods, as identity cards of persons and populations, as different ways of knowing and analyzing reality, can we avoid the risks of an excessively simplifying monocultural homologation disrespectful of history. In the Accademia website we wrote "language is our history, our future". A significant coincidence, if we consider the theme of this congress. We have no need to insist too much, especially here, on the idea that we can't reach a deep knowledge of a language without the books which express its highest functions, those of science, philosophy, poetry. Libraries as barns, someone said at the presentation of this Congress. Languages can therefore be considered as our bread: all the Crusca symbology, from its very name (meaning "bran") to the "pale" (wooden shovels) of the Academicians, to its emblem, the "frullone" (the vessel used to separate superfine flour from bran), its motto "il più bel fior ne coglie" ("she gathers the fairest flower"), is evidently related to the theme of bread. I am therefore pleased to finish my presentation by showing you some images of the Accademia as a hearty invitation to come and visit us in our beautiful Florentine seat.


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