“La parola è la chiave fatata che apre ogni porta”. Come leggere oggi l’insegnamento di don Milani
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Nella Lettera a una professoressa si riportano alcuni versi tratti dai Sepolcri di Ugo Foscolo che, tra le altre considerazioni, danno modo di osservare la distanza tra l’italiano di tradizione letteraria e la lingua comune. Il commento si concentra, in particolare, sul termine inaugurate, che nei versi non ha il significato oggi in uso, bensì quello di ‘cattivo auspicio’, vicino ma non coincidente con quello dell’aggettivo sciagurate: ‘critico’.
"[...] inutil pompa
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti”
[...]
Io non dirò mai ai miei scolari che inaugurare vuol dire augurare male. C’è scritto nella nota [...]. Lei mi faceva tenere un quaderno sulle note per costringermi a imparare a mente quella lingua. E io dovevo imparare un’altra lingua per parlare a chi?»[1] .
Nel commento, come dimostrano altri passaggi della Lettera e altri scritti di don Milani, non si intende mettere in discussione lo studio dei testi del passato, ma contestare un insegnamento che non riusciva a sottolineare l’inadeguatezza dell’antico italiano letterario a divenire strumento di comunicazione sociale. Sebbene possa apparire singolare, l’osservazione richiama alla mente le numerose riflessioni elaborate da Alessandro Manzoni sull’impossibilità che la lingua degli scrittori sia in grado di trattare ogni tipo di contenuto. Basterà leggere anche uno solo dei tanti passi che nei suoi scritti linguistici ritornano sull’argomento:
L’Uso poi di nessuna lingua non è certamente contenuto e ristretto nei libri: il che, se avesse mestieri di prove, basterebbe questa: che l’Uso, appunto perché è l’arbitro delle lingue, dee di sua natura comprendere e risguardar tutta la lingua: e non c’è una ragione al mondo, per la quale gli scrittori d’una lingua, e meno ancora alcuni scrittori, debbano, senza pure averne preso accordo fra loro, esser riusciti tutti insieme a porre quella lingua tutta quanta nei libri che è loro venuto in taglio di scrivere[2].
L’accostamento di Manzoni a don Milani apparirà ad alcuni improprio, se non del tutto ingiustificato. Si tratta però di perplessità che trovano giustificazione solo nei tanti luoghi comuni che nel corso dei decenni si sono generati sia intorno al grande scrittore milanese sia sulla figura del maestro di Barbiana, riducendo il pensiero linguistico del primo alla cosiddetta risciacquatura in Arno e chiudendo il pensiero del secondo entro schematiche semplificazioni. Non è questa la sede per soffermarsi sul contributo dato da Alessandro Manzoni alla storia della nostra lingua, ma non possiamo non osservare quanto riduttivo sia limitarsi a trattare nelle aule scolastiche solo la revisione linguistica del romanzo o l’adesione al fiorentino di uso vivo, senza ricostruire la riflessione che ha condotto a queste scelte sottolineandone la modernità. Per quanto riguarda, invece don Milani, sono numerosissimi i cliché sul suo supposto rifiuto verso alcune discipline o sulla presunta eterodossia della sua fede che indurrebbero a ritenere irriverente l’accostamento a Manzoni.
L’enfasi posta, in particolare, sul dissenso espresso verso la Chiesa ha fatto parlare di don Milani come di un ‘prete comunista e anticlericale’. Non c’è dubbio che negli anni del suo operato il sacerdote fiorentino abbia avuto conflitti con le autorità ecclesiastiche, soprattutto per aver coinvolto la comunità nel processo educativo e per aver disatteso istruzioni che giudicava inadeguate o prive di senso rispetto alla realtà in cui operava. È, tuttavia, un errore confondere il suo impegno nel sociale e soprattutto la sua volontà di educare gli allievi a esercitare un pensiero libero e critico con l’adesione al comunismo. I giudizi negativi di don Milani verso la Chiesa riguardavano sempre i suoi apparati burocratici e le pastoie istituzionali, ma non coinvolgevano mai la fede e gli insegnamenti religiosi. Se ne ha una conferma in uno dei tanti scritti del sacerdote riprodotti nella biografia di Neera Fallaci, dove leggiamo, tra l’altro, una piena dichiarazione di obbedienza alla Chiesa:
Non si riuscirà mai a trovare in me la più piccola disubbidienza proprio perché, prima di ogni altra cosa, mi premono i sacramenti. E nessuno riuscirà a farmi disubbidire. Il primo ordine che il vescovo mi dà, se lui mi sospendesse eccettera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee[3].
Don Milani era un cattolico sincero e convinto, che si inseriva nella linea della dottrina sociale della Chiesa, identificatasi, a partire dalla Rerum novarum di Leone XIII e dagli scritti dell’economista Giuseppe Toniolo, con la solidarietà, lo sviluppo del bene comune, la giustizia sociale.
Alla raffigurazione distorta del prete dissenziente si è spesso associata quella dell’educatore ribelle che, criticando apertamente il sistema scolastico italiano del suo tempo e indicando un metodo pedagogico alternativo, avrebbe favorito una didattica poco rigorosa, e avrebbe finito, nei fatti, con il danneggiare proprio gli studenti delle classi più umili. Le pagine, al contrario, in cui don Milani ribadisce l’importanza per gli allievi svantaggiati di impadronirsi dei contenuti più alti sono forse tra le più intense e nulla nell’andamento della sua scuola può lasciar credere a facilitazioni del percorso educativo. A questa critica, d’altro canto, se n’è opposta frequentemente un’altra, che denuncia l’enfasi data a discipline tradizionali, come la grammatica, sia italiana sia latina, a fronte di una disattenzione verso lo sviluppo di competenze più pratiche, legate al mondo delle professioni, all’economia e alla tecnologia. Certamente è vero che don Milani ha apertamente criticato e messo in discussione la scuola dei suoi anni, ma è vero in senso positivo, prima di tutto per aver voluto coinvolgere gli studenti nella loro stessa formazione, per aver posto costantemente l'accento sull'importanza dell'autonomia e del pensiero critico e per aver capito con una lungimiranza che rimane ancora ineguagliata quanto fosse prioritario l’apprendimento pieno e profondo della lingua, più importante o comunque assolutamente propedeutico rispetto all’acquisizione di competenze professionali e tecnologiche. “È solo la lingua che fa eguali”[4] è la frase forse più conosciuta e ripetuta di Lettera a una professoressa, ma forse mai veramente assimilata o veramente ben compresa nell’insieme delle nostre scuole, soprattutto in questi ultimi due decenni.
Capire come far tesoro delle eredità lasciate don Lorenzo Milani, evitando i luoghi comuni, non è semplice; in questa sede ci concentreremo, infatti, solo su due aspetti: il primo connesso a quanto abbiamo detto sulla rilevanza particolare data dal maestro di Barbiana agli insegnamenti linguistici, letterari, storici e teorici rispetto alle competenze tecnologiche; il secondo, più ampio, legato a coloro che sarebbero oggi gli allievi privilegiati di don Lorenzo.
L’importanza della riflessione teorica
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’impegno di don Milani nell’assicurare ai propri alunni l’apprendimento della lingua e delle discipline che per i figli delle famiglie borghesi erano di comune e facile apprendimento significava assicurare la conquista di una cultura alta, che sarebbe stato possibile sfruttare per ogni tipo di professione; indirizzare, al contrario, fin da subito i suoi allievi verso gli strumenti delle professioni e delle tecniche avrebbe comportato una formazione monca, fatta di abilità ma non di capacità di riflettere criticamente. Oggi le cose sono molto cambiate e da almeno 20 anni a questa parte si insiste su un apprendimento che punti soprattutto alla piena competenza tecnologica: un obiettivo legittimo quando si pensi allo sviluppo delle nostre società e alle richieste del mondo del lavoro, che non dovrebbe, tuttavia, annullare l’attenzione verso le sempre più scarse competenze linguistiche. Ci siamo quasi stabilmente assuefatti agli esiti negativi delle indagini OCSE PISA, che mostrano proprio nel nostro paese un indice intollerabile di analfabetismo funzionale, esiti che generano, al più, qualche articolo indignato ma nessuna seria riflessione, se non da parte di linguisti, pedagogisti e insegnanti. Nessuno riflette a sufficienza sui risvolti negativi che la scarsa capacità di comprendere testi complessi comporta sulla crescita di una cittadinanza consapevole, né sembra ragionare sul fatto che acquisire abilità tecnologiche senza saper riflettere sulle teorie che hanno generato alcuni meccanismi comporta il rischio di vivere la tecnologia come una sorta di bacchetta magica e di annullare progressivamente la complessità.
Ovviamente non stiamo dicendo che le strumentazioni tecnologiche, soprattutto quelle informatiche, siano demoniache o che non vadano conosciute e usate con competenza, ma che il loro uso va bilanciato con un costante esercizio alla riflessione critica. Come confermano da tempo molti neurologi e studiosi del comportamento, la riduzione della complessità coinvolge ormai diversi aspetti, anche banali, della vita quotidiana: basterà pensare al fatto che, fino a qualche anno fa, per trovare una strada in una città poco conosciuta, dovevamo orientarci, saper leggere una cartina topografica e soprattutto capire poco per volta come fosse strutturato un intero luogo: la complessità di queste operazioni, in grado di attivare catene neuronali, è oggi semplificata grazie a google map. Sono in atto cambiamenti cognitivi che dipendono anche dalla semplicità con cui si accede alle informazioni: se da un lato abbiamo conquiste straordinarie, che consentono ricerche un tempo inimmaginabili, dall’altro assistiamo a cambiamenti nella crescita cognitiva i cui risvolti non siamo in grado di prevedere.
La formazione scolastica, peraltro, continua a seguire procedimenti analitici e consequenziali (un capitolo dopo l’altro, un significato connesso al successivo e così via), ma la ricerca in rete consente passaggi veloci e simultanei tra i contenuti, favorendo procedimenti sintetici. Sicuramente le generazioni più giovani stanno sviluppando capacità nuove, che per ora riusciamo solo a intuire, ma i metodi di insegnamento sono da un lato in ritardo rispetto a quanto sta avvenendo e dall’altro inadeguati a compensare la semplificazione in atto tramite un’opportuna conciliazione tra riflessione teorica e abilità tecnologiche. L’insegnamento di don Milani può invece aiutarci a capire che insistere sullo studio della lingua, sulla riflessione teorica e sullo sviluppo del pensiero critico è, se non il solo, certo uno dei mezzi più efficaci per non annullare la complessità e stimolare la crescita cognitiva. Avere accesso a così tante informazioni in modo semplice e rapido è un grande traguardo del progresso scientifico, ma se non conduciamo i nostri giovani verso le conoscenze teoriche, storiche, linguistiche, li renderemo fruitori passivi di informazioni non verificabili e di decisioni prese da altri senza alcuna partecipazione attiva.
Gli allievi di don Milani oggi
Il secondo aspetto da considerare riguarda, come si è detto, i destinatari odierni dell’insegnamento di don Lorenzo Milani: chi sono oggi gli alunni con maggiori difficoltà, soprattutto sul piano sociale, culturale ed economico, che hanno necessità di superare limiti non certo dovuti alle loro capacità? Purtroppo non sono pochi se pensiamo ai casi di analfabetismo funzionale di cui si è detto e alla crescita di povertà e di deprivazione culturale che avanza in modo preoccupante, ma c’è un’ampia quota di studenti cui sicuramente il maestro di Barbiana avrebbe rivolto una particolare attenzione. Se ne parla pochissimo, non certamente nel mondo della scuola e degli insegnanti, dove è al centro di un ampio dibattito ma nella società e nelle istituzioni: si tratta dei giovani di discendenza non italiana, perlopiù seconde generazioni di immigrati e di solito italiani a tutti gli effetti, anche se ci ostiniamo a non riconoscerli tali o a farlo con parsimonia e con una sorta di supponente condiscendenza.
Le seconde generazioni di immigrati sono una realtà importante del nostro paese, come mostrano alcuni dei dati relativi agli studenti con cittadinanza non italiana pubblicati dal Ministero per l’istruzione nel luglio del 2022 e risalenti quindi al 2021. Cercheremo di sintetizzarli, incrociandoli con le considerazioni dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale, che nel marzo 2022 ha pubblicato nuove linee guida tramite il documento Orientamenti interculturali - Idee e proposte per l’integrazione di alunni e alunne provenienti da contesti migratori[5]. I dati riguardano, come si è accennato, gli studenti che possiedono cittadinanza diversa da quella italiana, in obbedienza a quanto stabilito dal Regolamento 862/2007 del Parlamento Europeo, che cerca di agevolare il confronto di dati e statistiche in materia di migranti tramite rilevazioni uniformi. Va tuttavia ricordato che la realtà è molto più complessa: ci sono, infatti, sia studenti che, pur essendo riusciti a ottenere la cittadinanza, vivono in un ambiente familiare non italofono sia figli di coppie miste la cui italofonia non è sempre consolidata; né vanno dimenticati i giovani immigrati che non entrano affatto nelle nostre scuole e sui quali non abbiamo informazioni.
Se ci limitiamo all’insieme degli studenti che hanno cittadinanza diversa da quella italiana la crescita, dall’anno scolastico 1986/87 al 2019/20, è stata, come conferma il grafico 1, vertiginosa e non viene compromessa dal lieve calo di circa l’1,3% del 2020/21, registrato soprattutto nella scuola dell’infanzia e attribuibile alla pandemia.
Grafico 1: Alunni con cittadinanza non italiana (valori assoluti) - AA.SS. 1986/1987 - 2020/2021.
L’incremento rimane, dunque, mostrando nel 2021 un’incidenza sul totale degli studenti pari al 10,3%; la percentuale sale però di molto se consideriamo la sola scuola primaria, ovvero il settore che assorbe il maggior numero di studenti con cittadinanza non italiana, raggiungendo il 35,8% del totale. Nella secondaria di primo grado, l’incidenza è di circa il 21,3%, mentre scende nella secondaria di secondo grado, nonostante si registri anche qui un lieve aumento. Nell’insieme, il tasso di scolarità dei giovani privi di cittadinanza segue, negli anni della scuola dell’obbligo, quello degli studenti italiani, attestandosi intorno al 94,1%, ma scende drasticamente, rispetto a quello dei ragazzi italiani, nel triennio delle superiori.
Naturalmente i dati cambiano da regione a regione e da area ad area: l’incidenza delle seconde generazioni sul totale degli studenti è al Nord del 65,3%, al Centro del 22,2% e al Sud del 12,5%. Rimane, però, nell’ombra, come si diceva, la percentuale di bambini e ragazzi privi di cittadinanza italiana che eludono l’obbligo scolastico; se si considera, tra l’altro, che la gran parte degli studenti provenienti da famiglie di immigrati è di origine europea, a fronte di un numero inferiore di iscritti provenienti dall’Asia e dall’Africa (Tab. 1), cresce il sospetto che ci sia una realtà sommersa di cui non abbiamo notizia.
Tabella 1: Percentuali di alunni con cittadinanza non italiana per continente di origine.
Ciò su cui più occorre riflettere, tuttavia, è il ritardo scolastico, che purtroppo continua a caratterizzare una fetta molto alta degli studenti provenienti da contesti di immigrazione. Mediamente, il percorso scolastico si presenta per questi giovani ancora molto irregolare. Il ritardo è spesso conseguenza di un inserimento in classi inferiori a quelle corrispondenti all’età anagrafica ed è ovviamente complicato dalle frequenti non ammissioni all’anno di corso successivo. Gli anni di ritardo crescono, com’è facile immaginare, con il crescere dell’età e del ciclo scolastico: se nella primaria l’82% delle seconde generazioni è abbastanza regolare, nella secondaria di primo grado la percentuale di studenti con percorso regolare scende al 65,4% e nella secondaria di secondo grado arriva fino al 42,5%. Migliore è, però, come mostra il grafico 2, la situazione delle studentesse:
Grafico 2: Alunni con cittadinanza non italiana in ritardo scolastico per età e genere.
Ovviamente il ritardo riguarda anche gli studenti con cittadinanza italiana; se però confrontiamo le percentuali di entrambi i gruppi nel grafico 3, salta subito all’occhio l’altissimo divario che separa gli studenti italiani in ritardo (colore bordeaux) da quelli di diversa cittadinanza (colore viola):
Grafico 3: Alunni con cittadinanza italiana e non italiana in ritardo scolastico.
Il dato si aggrava ulteriormente quando scopriamo che in Italia l’abbandono scolastico degli studenti di origine straniera è il più elevato nel confronto con il resto dell’Unione europea. Lo rileva l’esame condotto attraverso l’indicatore europeo ELET (Early Leaving from Education and Training), relativo ai giovani compresi tra i 18 e i 24 anni che non abbiano titolo di studio superiore alla secondaria di primo grado e che non siano iscritti a corsi di formazione professionale. Il grafico 4 mostra, infatti, che nel 2020 la percentuale di abbandono era pari al 35,4%, contro il 13,1% della media relativa agli studenti italiani e con un distacco sensibile dal resto dell’Europa.
Grafico 4: Percentuali di abbandoni scolastici precoci (anno 2020).
Le criticità più importanti che le nostre scuole non riescono ad affrontare sono abbastanza note e includono la diversità linguistica e culturale, soprattutto quando le lingue d’origine sono strutturalmente distanti dall’italiano; i livelli di alfabetizzazione differenziati, determinati anche dal fatto che i figli di immigrati possono avere differenti gradi di scolarizzazione e competenze linguistiche diverse nella loro lingua madre; alcuni fattori socio culturali, che includono la mancanza di familiarità con norme e convenzioni sociali italiane, le barriere culturali e la necessità di adattarsi a una nuova realtà; le barriere emotive e psicologiche.
Ancora dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri apprendiamo che gli studenti con cittadinanza non italiana hanno una vita sociale meno ricca rispetto ai loro compagni di classe, frequentano in misura minore i loro coetanei e sono, più spesso degli italiani, vittime di atti di bullismo.
Che cosa si dovrebbe e si deve fare? Alcune azioni sono state effettivamente promosse nella nostra scuola; abbiamo anche disposizioni e documenti importanti prodotti dal Ministero, come La via italiana per la scuola interculturale del 2007, le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del 2014 con la nuova versione del 2022 coincidente, come si è detto, con il documento sugli Orientamenti interculturali - Idee e proposte per l’integrazione di alunni e alunne provenienti da contesti migratori[6]. Si ribadisce, tra l’altro, il diritto all’istruzione di tutti i minori che risiedano in Italia in maniera permanente o transitoria, qualunque siano la nazionalità e il luogo di nascita e in qualunque momento dell’anno si verifichi l’inserimento, anche se spesso le iscrizioni vengono respinte con la scusa che le domande sono state presentate in ritardo. Norme, indicazioni e guide non sono, purtroppo, adeguatamente applicate o almeno non lo sono in modo uniforme in ogni città e regione della penisola.
Come per i ragazzi della scuola di Barbiana, anche per gli studenti provenienti da contesti di immigrazione, uno dei problemi principali è rappresentato dalla conoscenza della lingua, che in questo caso, purtroppo, non riesce a fare eguali. Il ritardo è evidenziato anche dalle prove Invalsi, che individuano divari molto ampi nei test di Italiano, ma più contenuti in quelli di Matematica, evidenziando in quale direzione dovrebbero essere orientate le risposte ai bisogni educativi dei ragazzi e delle ragazze di origine straniera. È stata istituita un’apposita classe di concorso per l’insegnamento dell’italiano a studenti stranieri e i corsi di formazione nelle nostre università si sono moltiplicati; sono anche in continuo aggiornamento le tecniche didattiche elaborate dai linguisti, ma non si riesce a costruire un percorso lineare che connetta la formazione dei futuri insegnanti di italiano a stranieri con l’inserimento nelle scuole in cui più sarebbe necessaria la loro presenza. Le linee guida prevedono, tra l’altro, che all’arrivo a scuola degli studenti con cittadinanza non italiana si faccia un’attenta valutazione delle loro competenze linguistiche, ma in quante scuole lo si fa? e con quali competenze nella somministrazione e valutazione dei test di ingresso? È prevista l’introduzione, durante l’insegnamento in aula di letture e riflessioni sull’interculturalità, ma dove e come si attuano? È stata data a tutte le scuole la possibilità di usufruire del mediatore interculturale, una figura riconosciuta fin dal 1998 (Decreto legislativo 286 del 25 luglio 1998, artt. 38 e 42) come esperto in grado di favorire accoglienza e integrazione, ma in quali e quante scuole se ne fa ricorso? Si auspicano, infine, percorsi integrativi di italiano nelle ore del tempo pieno, ore che peraltro sarebbero di grande utilità anche per gli studenti italiani, ma nel nostro paese, unico nel mondo occidentale, il tempo pieno non è mai stato stabilmente e diffusamente applicato. Eppure, sono ben note le parole con cui don Milani sosteneva l’utilità del ‘dopo scuola’ anche per favorire l’apprendimento degli studenti più svantaggiati:
Sapete bene che per fare tutto il programma a tutti non bastano le due ore al giorno della scuola attuale.
Finora avete risolto il problema da classisti. Ai poveri fate ripetere l’anno. Alla piccola borghesia fate ripetizioni. Per la classe più alta non importa, tutto è ripetizione. Pierino quello che insegnate l’ha già sentito in casa.
Il dopo scuola è una soluzione più giusta.
[...]
Il doposcuola va lanciato come si lancia un buon prodotto. Prima di farlo bisogna crederci[7].
L’obiettivo continua a essere quello di una scuola sempre aperta, come sempre aperta era la scuola di Barbiana, un obiettivo che richiede investimenti, assunzione di personale, adeguamento di edifici e di attrezzature, ma che nell’agenda politica non appare quasi mai al posto d’onore che meriterebbe.
Abbiamo aperto queste poche considerazioni con la citazione di due passi di Alessandro Manzoni e di don Milani solo apparentemente distanti; ci sembra opportuno chiuderle, invece, con due testi la cui vicinanza appare fin da subito molto chiara:
Ricordo che eri seduta su una sedia di legno [...] Tentavi di comprendere l’avviso che echeggiava sul mio diario scolastico e in cui stava scritto che il giorno seguente avrei dovuto portare un ramo d’albero a scuola per un’attività artistica. Leggevi e rileggevi, provando a collegare ogni parola a qualche termine francese simile, ma RAMO non ti era per nulla chiaro e non ti suonava omofono a niente. Chiedevi a me cosa volesse dire e io, che a sei anni ancora non riuscivo a destreggiarmi tra due spessori linguistico-culturali differenti, non riuscivo né ad aiutarti né ad aiutarmi [...]. Il mattino dopo, a scuola, ho appreso cosa fosse un ramo e poi sono tornata a casa e te l’ho spiegato [...]. Tu hai sorriso, perché proprio non ti capacitavi del fatto che una piccolezza così ti avesse messa in ginocchio[8].
Io ho pianto tre giorni quando sono andata a scuola, perché non capivo una parola e non conoscevo nessuno. Comunque la scuola è stata la nostra salvezza, perché ci ha dato lo stimolo di imparare e ci ha dato la nostra carriera[9].
Il primo brano è tratto da una raccolta di poesie e brevi racconti di Fatima Bouhtouch, autrice di testi di ‘letteratura migrante’ nata nel 1994 a Mirandola, in provincia di Modena, da genitori immigrati dal Marocco; il secondo è la trascrizione di una testimonianza resa da Giorgina Cassettari, emigrata in Inghilterra con la famiglia alcuni decenni fa. Entrambi parlano della sofferenza che si prova nel trovarsi immersi in una lingua sconosciuta, un’esperienza che “mette in ginocchio” o che fa piangere per giorni. Le due testimonianze si toccano; le loro storie dovrebbero parlarsi e la scuola, come dice l’anziana signora italiana che da anni vive in Inghilterra dovrebbe “dare una carriera” anche ai giovani nuovi italiani. Don Milani avrebbe fatto di tutto perché la scuola desse questa possibilità a tutti i bambini e le bambine come Fatima Bouhtouch.
Note:
Christian Ferrari
Maurizio Landini
Dario Missaglia
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
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