Presentazione:
Il 12 giugno 2023 si è tenuta in Crusca una giornata di studio organizzata in occasione del centenario dalla nascita di Don Lorenzo Milani, È solo la lingua che ci fa uguali. L'insegnamento di don Lorenzo Milani, a cui hanno partecipato studiosi di lingua, di didattica ed educazione, rappresentanti del mondo della politica vicini al mondo della scuola. La giornata è stata organizzata dall'Accademia in collaborazione con l'Associazione Proteo Fare Sapere. Riportiamo qui i contributi dei partecipanti.
Lorenzo Milani e la sua «officina» generativa di nuova comunicazione: ovvero cittadinanza
Un paradigma comunicativo che non funziona più
Da dove nasce l’idea, all’interno del Centro Ricerche ‘sAu’, ovvero del Centro Ricerche scientia Atque usus per la Comunicazione Generativa ETS, di creare il Centro Generativo ‘Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana’ (www.sau-centroricerche.org/centro-don-milani/)? Il progetto, in collaborazione con la Fondazione CR Firenze e la Fondazione Don Lorenzo Milani, è stato presentato il 13 gennaio 2023 a Firenze presso la sede della Fondazione CR Firenze. La risposta è semplice: la lezione di Lorenzo Milani è radicalmente in contrasto con il paradigma comunicativo, ancor oggi dominante, basato su una logica di tipo trasmissivo, gerarchico, emulativo, meccanicistico (Toschi 2011). Essa rappresenta una grande lezione per comprendere i limiti del nostro modo di comunicare, ormai non più sostenibili, e riuscire a superarlo definitivamente.
Quanto il persistere di questo vecchio modello, più o meno tecnologicamente rivisitato, sia dannoso per il nostro tempo, è esperienza quotidiana, pubblica e privata, di ognuno di noi: sia in ambito sociale che culturale, sia economico che politico. Ad iniziare dalla scuola - così cara a Lorenzo Milani -; perché la scuola è, prima di tutto, scuola di comunicazione e quindi di cittadinanza (Toschi 2012a).
Un paradigma comunicativo che in una società come la nostra, considerata dal senso comune e percepita come società sì della conoscenza ma all’insegna dell’indubbia centralità di questa cattiva comunicazione, risulta essere la causa prima della crisi che stiamo vivendo, sia a livello locale che planetario, e che, proprio per questo, il Centro Ricerche ‘sAu’ (le cui origini risalgono al 1991, presso l’Università di Firenze) sta cercando di correggere, fino a tentare di sostituirlo radicalmente con uno nuovo, la cui sperimentazione, sempre da parte del nostro Centro Ricerche va avanti ormai da decenni e la cui formalizzazione scientifica è iniziata con il 2011.
Questo nuovo paradigma comunicativo, denominato Generativo, è utilizzato da ‘sAu’ in ambiti d’intervento anche assai diversi, tradizionalmente considerati molto lontani ma in realtà oggi fortemente correlabili fra loro, favorendo così progettualità trasversali rispetto al passato, proprio grazie alla specificità della metodologia generativa: dalla sanità all’agricoltura, dalla formazione, dal patrimonio culturale allo sviluppo delle nuove tecnologie, dalla sostenibilità alla ricerca portata avanti dal terzo settore alle problematiche dovute al cambiamento climatico. Il paradigma generativo, infatti, in una società della complessità e della conoscenza come la nostra, si sta rivelando, al di là delle più ottimistiche previsioni, particolarmente efficace per individuare e valorizzare risorse altrimenti sottostimate, sottoutilizzate e spesso sconosciute, favorendo la collaborazione e la cooperazione fra soggetti tradizionalmente sollecitati, non solo a non condividere ma nemmeno a concepire progettualità comuni.
Quale comunicazione dalla “contro-cultura” milaniana
Restando nello specifico di questo incontro organizzato dall’Accademia della Crusca, per il Centro Ricerche ‘sAu’ lo studio di Lorenzo Milani costituisce un punto di riferimento italiano fondamentale per il suo impegno a creare una ‘contro-cultura’ antagonista rispetto al modello egemonico borghese e capitalistico. Di chiara matrice evangelica, impegnata a superare ingiustizie e insopportabili sperequazioni, a difendere i diritti dei poveri e degli emarginati all’insegna dei valori laicamente indicati come fondativi dalla Costituzione Italiana, questa ‘contro-cultura’, in gran parte tutta da costruire, comporta il superamento di una visione della cultura popolare stereotipata quanto funzionale a mantenere l’egemonia della cultura borghese. Un’idea di ‘popolare’ legata, da una parte, al vecchio folklore - sulla linea romanticismo, positivismo e soprattutto fascismo, quella linea contro cui già Gramsci molto aveva scritto e fatto -, e dall’altra, ma strettamente connessa alla precedente, l’idea della realtà contadina come un contenitore vuoto da riempire - se e quando fosse stato possibile senza turbare equilibri di potere intoccabili - con conoscenze, saperi, competenze e valori appartenenti alla classe dominante, secondo il preciso schema che vuole la cultura alta ‘trasferita’, ‘trasmessa’ nella parte bassa della scala sociale.
La necessità di superare questa visione spinse don Milani a vedere - lui figlio di una famiglia non solo dell’alta borghesia ma di grandi relazioni internazionali - la crisi in cui si agitava la cultura egemone di cui lui stesso era espressione, a mano a mano che si attenuavano gli effetti benefici del secondo dopoguerra. Scriveva, ormai prossimo alla morte, a Franco Gesualdi che lavorava a Tripoli: “l’Arno è di nuovo fuori. [...] L’alluvione ha ricreato l’atmosfera del dopo guerra. Preti e comunisti a fianco a fianco hanno in mano la situazione. il Governo è sempre l’ultimo a arrivare e ognuno ne diffida”[1].
Per rispondere a quella crisi Milani guarda alla cultura contandina\popolare nella prospettiva sì di difenderla dalla “rivoluzione antropologica del consumismo” (Pasolini 1975; 1976), dal consumo culturale e materiale di massa che la classe egemone le offre per controllarla e sfruttarla, ma anche per evitare il rischio di creare una ‘Repubblica di Barbiana’ che divenisse una meravigliosa zona franca, isolata e autoreferente; magari oggetto di studio proprio di quegli ‘intellettuali’ che vivono solo di ‘inchiostro’ e di ‘rielaborazione intellettuale’ (Lettera a Alberto Parigi, 20/5/53). Per questo propone la cultura popolare come strumento per una battaglia che, prendendo le mosse dal conflitto durissimo fra classe egemone e classe subalterna, mira a riscrivere i fondamentali dell’intero sistema culturale e politico, sociale ed economico, nella prospettiva di difesa di quei valori di libertà e di vera uguaglianza, di diritti violati, di ricerca di cooperazione e collaborazione che la Costituzione Italiana, nata, appunto, dalle tragedie della Seconda Guerra Mondiale e dalle lotte partigiane per la Liberazione, ci ha consegnato come una meravigliosa sceneggiatura tutta da realizzare. Nella prospettiva di superare quello che lui definiva il ‘medesimo male’ che ammorbava tutta la società, a cominciare dalla Chiesa, un ‘male’ per sanare il quale era necessario ribaltare la comunicazione fra i detentori della cultura alta e coloro che, nei termini stretti che la classe egemone determinava, dovevano applicarla sul piano della vita concreta, operativa, fattiva di tutti i giorni.
La rifondazione doveva venire dal basso, dal ridefinire radicalmente il rapporto fra la mente e la mano, fra sapere e fare, dal trasformare la comunicazione, a cominciare da quella formativa, superando la logica dell’assemblaggio su cui si basa il rapporto tra ideatori, progettisti da un lato ed esecutori, realizzatori dall’altro. Insomma, tra classe dirigente e “classi subalterne e strumentali”, avrebbe detto Gramsci (1975).
Scientia e usus scomunicati
L’esperienza di Milani, quindi, ha affrontato problemi di sconcertante attualità, ruotanti attorno al monopolio ma anche alla omologazione culturale, e ai meccanismi visibili e invisibili che li aveva resi e continuava a renderli possibili. Questioni ritenute sempre meno centrali nei decenni a seguire, che, al contrario, hanno registrato un progressivo aggravarsi del problema proprio mentre la scientia si dimostrava sempre meno interessata a cercare di affrontarlo e la stupefacente e comunque, sia chiaro, benvenuta innovazione tecnologica stava e sta progressivamente investendo il mondo del lavoro e dello studio e della ricerca, del governo della cosa pubblica e privata, avviando forme di automazione ritenute o fatte ritenere tecnicamente neutrali.
Quest’ultime, viceversa, a seconda della soluzione tecnica adottata, ognuna delle quali è portatrice di visioni e di valori, di scopi e di obiettivi, ci orientano nel sentire, nel pensare e nel fare. Non sarà un caso, allora, che l’espressione divide et impera, seppure di origine incerta (Filippo il Macedone? Luigi XI di Francia? Impero austro-ungarico?), usata per indicare la tendenza a creare conflitti fra coloro che sono dominati per garantire la leadership del potere egemone, sia un’espressione fondamentale per sviluppare la selva di algoritmi digitali in cui siamo avvolti. Secondo una tecnica di approccio tipicamente top-down.
I gravi danni di natura socio-culturale ed economico-politica che derivano da questo tipo di relazione fra cultura egemonica e cultura egemonizzata, basata su modalità rigorosamente, appunto, top-down, manipolatorie, sono quotidianamente riscontrati dal Centro Ricerche ‘sAu’ in tutti i suoi progetti. Fatto che spinge le sue ricercatrici e i suoi ricercatori a ritenere fondamentale ridefinire in maniera radicale il rapporto tra i mondi della scientia e i mondi dell’usus, cercando di favorire la nascita tra di loro di un nuovo patto comunicativo.
Dove si intende con scientia il prodotto di quella articolata comunità professionale, nazionale e internazionale, che, con rigore e metodo, vive il suo lavoro quotidiano, nel pubblico e nel privato, studiando, indagando, formando, sperimentando nel campo delle scienze naturali e umane. Si indica, viceversa, con l'espressione usus quelle infinite attività umane, considerate sempre ‘altro’ da qualsiasi forma di ricerca e formazione scientifiche, le quali, da parte di ‘non esperti’, sono praticate, o dovrebbero esserlo, facendo proprie le conoscenze, i saperi che i mondi della scientia dovrebbero mettere loro a disposizione per essere applicate e, così facendo, trarre stimoli importanti per la ricerca stessa.
“Dovrebbero”, appunto. Perché, nella realtà dei fatti, lo squilibrio attuale fra potenzialità e realizzazioni in tutti i campi del nostro sistema socio-economico, politico, la conflittualità quotidiana fra strumentazioni potentissime e, viceversa, debolissime capacità di ideazione, progettazione, realizzazione - da cui nasce la falsa illusione di salvare la situazione utilizzando le tecnologie per ottimizzare la gestione (gestione di che cosa?) - scaturiscono dal persistere dell’errata collaborazione tra scientia e usus, la cui soluzione appare raggiungibile solo a patto di ripensare radicalmente sia la relazione dell’una con l’altro, sia la natura stessa dell'una e dell'altro: e cioè, quanto di scientia ci sia nell’usus e quanto di usus ci sia nella scientia, e cosa si debba intendere per scientia e cosa per usus. Perché, oggi come mai, viviamo in una società in continuo cambiamento, dove il rapporto fra immaginazione e realizzazione, grazie al ricordato sviluppo esponenziale delle tecnologie, è segnato da una velocità incredibile con cui l’una si trasforma nell'altra e viceversa (Toschi, 2022). Mentre ogni attività ha inevitabilmente una fortissima connotazione sperimentale ribaltando il tradizionale rapporto fra sistema e esperienze innovative (Toschi 2020), poiché ogni innovazione degna di tale nome non può limitarsi ad un solo ambito, magari nella speranza che la mitica viralità faccia il suo corso, ma pur partendo da un settore specifico deve diventare innovazione di sistema.
Dinamica questa che fa della stessa sperimentazione una categoria del tutto nuova, dove il ruolo dei mondi dell’usus non è più quello di essere cavie passive, se non ignare, ma soggetti che partecipano consapevolmente e criticamente nella prospettiva di diventare sempre più co-autori di prodotti, servizi o quant’altro. Ne deriva che il non esperto necessita dell’aiuto dell’esperto, e viceversa; certo in una distinzione ferma delle relative conoscenze e competenze, ma nell’altrettanto ferma convinzione che la scienza non può progredire senza la collaborazione intelligente e partecipativa del mondo dell’usus, e, appunto, viceversa.
Una prospettiva di natura valoriale ma che prospetta concretamente infinite potenzialità sociali, politiche, economiche. Nondimeno, seppure in crescita in molti settori, per ora resta operativamente sottoutilizzata, quando non ignorata, perché molto conflittuale con il sistema vigente, né credo che le sollecitazioni dell’Unione Europea, per spingere la ricerca nella direzione del Public Engagement, o del Public Participation in Science, oppure del Citizen Science, certamente di una qualche rilevanza, possono favorire quel taglio netto con il passato che ora è indispensabile.
In questo scenario è chiaro perché l’attività sperimentale, e sul piano intellettuale e politico, la contro-cultura perseguita da don Lorenzo Milani eserciti su noi tutti, donne e uomini della società della complessità, una così alta attrazione, rappresentando un mondo difficilissimo da realizzare ma necessario.
A iniziare dall’aver individuato il difetto originario degli ‘intellettuali’, i quali fondano i loro saperi su “superficialissimi giudizi” basati “sulle cose della vita reale che per forza di cose” non possono “mai palpare con mano, ma solo attraverso l’inchiostro e la rielaborazione intellettuale” poiché sanno vivere “di sola carta stampata”, oggi diremmo di testualità digitale[2]. Mancano loro, cioè, quello che hanno in abbondanza i ‘diseredati’, e cioè le “inesauribili ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale che Dio ha nascosto nel loro cuore quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui sono vittime”[3]. Quegli intellettuali sono privi di quel “realismo” di cui ha bisogno la nuova cultura per nascere, e cioè di una conoscenza diretta e quotidiana della realtà che solo l’osservazione fatta personalmente, l’uso, le pratiche di ogni giorno di realtà effettuali possono garantire[4]. Quello che Machiavelli così spiegava: “mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa” (Machiavelli 1532, cap. XV).
È la sua denuncia dell’isolamento ignorante e arrogante - oltre che devastante per gli effetti che ha sul piano scientifico e delle pratiche e visioni quotidiane - proprio della cultura borghese e capitalistica, cui egli attribuisce una totale mancanza di conoscenza della “realtà nella sua interezza e concretezza”, mancanza che è errore credere di compensare con una quantitativa “concentrazione” di informazioni[5], tutte prive di esperienza diretta.
E tutto questo nel persistere di un ingiusto quanto immenso “dislivello culturale”, e quindi politico, economico, sociale, tra chi progetta e controlla il sistema e chi lo subisce soltanto, spesso senza neppure rendersene conto. Un dislivello, avvertiva il ‘sociologo’ Milani, che sarebbe più corretto vedere come una sovrapposizione concatenata di “dislivelli”, almeno quattro[6].
Il "grande libro del bosco e del campo"[7]
Quanto ricordato fino a questo punto rimanda a due questioni centrali.
La prima riguarda la persistente quanto pericolosa separazione, a tutt’oggi dominante nel campo della scientia, fra le discipline afferenti alle scienze della natura e quelle alle scienze dell’uomo; così diverse eppure così inscindibili come ci insegnano, tra le altre, le scienze della salute dell'uomo. Con il conseguente riduzionismo disciplinare e specialistico che penalizza - ad iniziare dai metodi di valutazione scientifica - il bisogno di inter\transdisciplinarietà che questa società richiederebbe; salvo poi registrare, a dannosa compensazione - una sorta di green-washing accademico - improbabili nomadismi scientifico-settoriali. Riduzionismo-trasformismo scientifico, con attività di riciclaggio-riconversione sulla base delle richieste del mercato (sia della ricerca che degli insegnamenti) - il tutto proposto come responsabile partecipazione ad affrontare le problematiche più urgenti - cui corrisponde, sul piano professionale, sì la fine delle professioni predefinite, con i relativi vincoli aziendali dai percorsi ben segnati e prevedibili, ma co tutti i limiti ormai ben chiari rappresentati dalla tanto apprezzata employability.
Quest’ultima capacità di stare sul mercato del lavoro, il più delle volte, scaturisce non tanto da un’idea di saperi e di pratiche aperte alla discontinuità, alla ricerca, all’innovazione sistemica, ad un rispetto e ad una cura di sé, come persona e come lavoratore\lavoratrice, quanto dall'accettazione di un ruolo da mercenario che finisce con il riproporre le vecchie catene di montaggio, opportunamente rivisitate.
Una mentalità già attivamente sostenuta dalle nostre modalità formative, e dai relativi contenuti, che, con la fine degli studi, con l’ingresso nel mondo del lavoro, con l’evolversi della carriera professionale, mira a favorire ogni forma di sudditanza degli individui rispetto a dinamiche lavorative che non hanno alcun tornaconto nell’incoraggiare professionalità che aspirino ad avere un ruolo attivo, creativo, proattivo nelle organizzazioni. Si premia, in linea con la visione del merito così come inteso nella scuola, le capacità esecutive di chi lavora specie se in grado di ri-contestualizzarsi volta per volta, di aggiornarsi costantemente in funzione del mutare degli obiettivi.
Un camaleontismo che ben interpreta la logica vincente del divide et impera, accettata come un ‘bene’ necessario, apparentemente scelto in assoluta libertà, quasi con gioia, che, viceversa, ha come scopo quello di inibire, delegittimare, in nome di un frainteso senso di concretezza e fattibilità, la voglia di vivere ogni libertà e creatività individuale (“Diventare sovrani!”) non in solitario, ma come parte di un progetto comune, amato quanto condiviso: non citata mai abbastanza la celebre frase di Lettera ad una professoressa: “il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia” (Scuola di Barbiana 1967, p. 14).
A questa situazione, espressione di nuove modalità per rafforzare vecchie ma anche inedite egemonie, fa da contrafforte la seconda questione cui si faceva riferimento. Si tratta della crescente massificazione e omologazione, a livello locale e mondiale, del mondo dell’usus. dei suoi saperi, delle sue conoscenze, delle sue abilità. Una distruzione quasi inarrestabile della ‘cultura’ popolare nella sua accezione più gramsciana.
“I poveri […] scimmiottano […] le carnevalate offensive dei borghesi”[8]
Questa crisi identitaria della classe subalterna nasce dal fatto che la classe egemone non si limita più soltanto a tenerla fuori dalle mura, esposta alle intemperie e alle scorribande dei violenti, relegandola ad un ruolo passivo e servile, ma cerca ora di ‘bonificarla’, di ‘sanarla’ dalle sue impurità sovversive e destabilizzanti. Delle sue potenzialità conflittuali: pesano sul popolo “tutte le mode fuorché quelle buone. Chi non le accetta si isola. [...] Fanno a gara a chi lo trascina più in basso. Come se non bastassero le voglie che abbiamo dentro” (Scuola di Barbiana 1967, pp. 65-66).
Una strategia, questa, che affonda le sue radici nella crisi dei primi anni Settanta del secolo scorso, con l’avvio di una crisi energetica, politica, economica, sociale senza fine - tuttora persistente - scatenata per azzerare quanto gli anni del dopoguerra, pur con le loro contraddizioni, avevano fatto per cercare equilibri culturali, sociali, economici più equi, più orientati verso un salto di sistema globale, planetario, che avrebbe portato, finalmente, l’umanità, scossa dagli orrori culminati nella Seconda Guerra Mondiale, a vivere una fase radicalmente inedita rispetto al suo passato.
Negli anni a seguire, il processo di una globalizzazione omogeneizzante e standardizzante - rafforzato dalle nuove tecnologie - sviluppato secondo la ricordata concezione riduzionistica del vivere sociale, ne rappresenta non tanto la causa ma lo strumento. Ed è stato affiancato dall’imposizione di una cultura dell’esperienza - in tutti gli ambiti della nostra esistenza - ridotta a semplice consumo, ad acquisizione di abilità spendibili in dinamiche settorializzate quanto contingenti, legate al “qui ed ora”, tali da inibire qualsiasi legittima esigenza dei soggetti ad aspirare a crearsi, e a contribuire a creare a livello collettivo, visioni e pratiche che potessero dare vita ed alimentare idee, progetti, aspettative di cambiamento, di miglioramento del sistema, sociale, culturale, economico ma anche politico.
Il risultato è che la biosfera culturale delle classi subalterne, insieme a quella materiale, molto più evidente della prima, si è sempre più indebolita, e con essa un patrimonio dell’umanità immenso, che è quello capace di esprimere diversità e divergenze - ma anche vitali conflittualità - rispetto al sistema vigente. Un bacino prezioso di valori e di pratiche, che i poveri storicamente hanno sempre offerto ai Signori dell’abbondanza, soltanto con il loro vivere, sopravvivere, con il loro riuscire anche ad avere una loro identità, e in questo senso felicità, pur vivendo in condizioni di grande povertà, perché sempre capaci di aspirare a fare, miracolosamente, dal poco, o niente, il tanto. Insomma di trovare risorse vitali dove gli altri vedevano soltanto mancanza, assenza, inedia. Questo è ormai un bacino a rischio di scomparsa e Lorenzo Milani aveva chiaramente intuito quanto stava accadendo, entrando anche in polemica durissima con quella sinistra che mirava ad adottare un galateo borghese invece che inventarsene uno proprio, uno ‘sborghesito’ consono ai suoi valori. Ma su questo torneremo nel paragrafo successivo.
Il nodo era il linguaggio: il linguaggio non è cosa neutra, né neutrale. Il vero potere, quindi, sta nel controllo del linguaggio. Chi presidia la tecnica prima di tutto immateriale di cui si avvale l'uomo, quella simbolica, è in grado di condizionare agevolmente quella materiale. Con il linguaggio si controlla l’estetica, il piacere, il desiderio; è così che la cultura borghese entra nella mente dei poveri i quali “son poveri di fatto, borghesi nel cuore. Roba che si sconfigge facilmente con le gratifiche, il miracolo economico, gli aumenti di stipendio, gli elettrodomestici”[9].
Eppure, nonostante il rischio che già allora stava correndo la cultura popolare, i segni evidenti di cedimento, l’ignoranza crescente, la sua intrinseca debolezza dovuta ad un senso di inferiorità difficile da superare, in una società della Complessità come è la nostra, che ritiene, contrariamente ad ogni evidenza, di essere in perenne carenza di risorse, drogata da facilitazioni banalizzanti, da un malinteso senso di realismo, di praticità, di presentismo, è proprio da quella cultura ormai a rischio di estinzione che contraddistingue chi vive in una condizione di reale emarginazione e di carenza di risorse, che può venire un grande aiuto al progresso dell’intera comunità umana. Quella concretezza “che sui libri non si raggiungerà mai”[10].
Milani maestro di comunicazione
Insomma, se si volesse riassumere in cosa sia consistita la lezione di Milani, si potrebbe tentare di sostenere che la sua è stata una grande lezione di comunicazione, dove la comunicazione formativa ha spezzato la riserva indiana così tipicamente borghese in cui era finita, di palestra preparatoria in vista del futuro incontro con la realtà sociale, economica, culturale, politica di uomini e donne adulte. I ragazzi sono già cittadini a pieno titolo, e il loro ‘lavoro’ di studenti è un atto di profonda e fondamentale e fondativa cittadinanza. La comunicazione, cioè, è lo strumento sia per esercitare una cittadinanza completa sia per attuare il progetto rappresentato dalla nostra Carta Costituzionale.
Riduttiva come sintesi? Forse; ma è difficile ignorare che non c’è parte del pensiero e dell’agire di don Lorenzo che non ponga la comunicazione al centro dell’esistenza umana. Scrivendo, nel febbraio del 1952, a Maurice Cloche, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, per proporgli una sua idea per realizzare un film su Gesù, spiegava: «È strano, ma oggi è più facile che si creda Gesù Dio che Gesù uomo. Il film dovrà far capire a fondo che cosa significa in concreto “la parola si è fatta carne”». La parola è carne e la carne è parola, chiunque spezzi questa relazione crea le condizioni per una cattiva comunicazione, e cioè una cattiva vita: sia che sia ricco sia che sia povero. Gli elementi quindi non sono due ma tre: la relazione, infatti, è la politica, nell’accezione milaniana del termine, o se vogliamo la Storia. Ma non è questa la sede per approfondire la cosa.
La comunicazione, quindi, non è una tecnica mercenaria che si può applicare a qualsiasi contenuto, interagisce con il contenuto stesso. Un punto centrale del suo pensiero e delle sue azioni paradigmaticamente di rottura rispetto a tutta la tradizione culturale precedente, una comunicazione al futuro, e quindi oggi come poche altre attuale, in linea con le necessità di una società complessa come la nostra.
Per questo analizzando tutta l’esperienza milaniana si viene come sommersi dalla presenza di questa visione e delle relative pratiche e sperimentazioni. Si va dalla centralità della parola, scritta, letta, pubblicata nei libri, nei giornali, nei fumetti, detta ad alta voce, alla ricerca di contatti continui, per ascoltare, discutere, affermare l’importanza delle domande di quei giovani e della loro guida, dalle esperienze vissute in ambienti lontani o lontanissimi alla disamina dei mezzi di comunicazione, dagli strumenti per studiare tecnologicamente allora più innovativi (giradischi, proiettore, ma anche fatti in casa come l’astrolabio) alle pubblicazioni fatte dagli allievi. Dalle lettere alle gite per apprendere. Dai viaggi etimologici nel passato all’ascolto della musica mentre scorreva la partitura così che tutti potessero leggerla. Dalla pittura alle telescriventi, dal cinema, non solo da vedere ma anche da fare, al teatro, alla radio. Al paesaggio, alle armi da guerra. Dalla nuovissima ‘televisione-spia’, messa in qualche fabbrica a Milano per controllare il lavoro degli operai allo studio della pubblicità ("persuasori occulti” in Scuola di Barbiana 1967, p. 69), alla ricerca di strumenti per condizionare l’opinione pubblica. Dall’architettura della scuola di Barbiana all’organizzazione del tempo dello studio e degli spazi per studiare.
La sua era, per le ragioni qui già evidenziate, una comunicazione a tuttotóndo. Ed ecco allora la sua attenzione alla natura comunicativa degli ascensori, delle auto, del telefono, le sue battaglie per cambiare la mobilità nel territorio, per avere, cioè, una strada che arrivasse a Barbiana; ma anche per portare nelle case di montagna quell’elettricità che avrebbe cambiato tutta la comunicazione globale. Così come l’acqua, fino a mettersi a lavorare ad un nuovo galateo ed è più che probabile che avesse letto l’opera di Giovanni della Casa[11], anticipando punti essenziali della futura semiologia. Fino al progetto di un “giornale-scuola” da realizzarsi insieme ad Aldo Capitini, dal momento che i giornali non erano certo all'altezza del loro compito sociale e culturale. E gli esempi potrebbero continuare.
Milani rompe con tutto il passato. Il problema della comunicazione, infatti, non è più, come può essere stato prima, un problema di procedimenti metodologici o di tecniche da aggiornare ai nuovi bisogni: investe direttamente il concetto, l’idea stessa di ‘comunicare’, di ‘comunicazione’ rappresentando un salto di sistema rispetto alla precedente, lunga storia della comunicazione umana. Milani mira a trasformare definitivamente quel paradigma comunicativo, la sua stessa mappa cognitiva, fino ad allora mai messa in discussione, con le relative regole, pratiche, modelli. Se vogliamo affrontare quel “medesimo male” che ammorba l’intera società, dobbiamo inventare una comunicazione che non c’è mai stata prima, e cioè che non miri a creare e a rafforzare l’egemonia di una classe sull’altra, la battaglia del potere si trasferisce dall’uomo contro l’uomo, a l’uomo impegnato a dare vita ad un’umanità che vada definitivamente oltre la soglia che l’ha tenuta prigioniera, per scrivere un progetto comune con cui valorizzare le risorse di tutti in funzione della creazione della “cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo” e che ”è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola”. Ai poveri, infatti, manca “il mezzo d’espressione”, ai ricchi “la conoscenza delle cose” (Scuola di Barbiana 1967, p. 105).
Perché ciò che produce diseguaglianze, squilibri culturali, sociali, economici, differenze nell’esercitare i propri diritti di cittadine e cittadini, che ci impedisce di vedere e di utilizzare le immense risorse attorno a noi di cui potremmo disporre se solo le riconoscessimo come tali, ma che come tali non vogliamo riconoscerle per timore di perdere la condizione di privilegio di cui disponiamo, quella forza che ci distrugge è proprio quella comunicazione gerarchica, trasmissiva, emulativa, meccanicistica di cui la scuola è il più potente strumento di affermazione e di diffusione. E a combattere la quale don Milani ha dedicato la sua vita.
Di chi è il Centro Generativo don Lorenzo Milani?
Siamo fin troppo abituati a strutture che vengono annunciate in concomitanza con ricorrenze di varia natura, negli ambiti più diversi, presentate durante eventi importanti e qualificati. Strutture progettate, e anche realizzate, che però poi faticano a trovare una loro ragion d’essere trascorso il periodo delle celebrazioni, degli anniversari, della progettazione.
Se il Centro Generativo su don Milani e Barbiana sia destinato ad andare ad affollare questo destino non raro delle buone, a volte anche ottime intenzioni, non è dato saperlo. Non c’è che da aspettare e vedere quali evoluzioni avrà. Ma, al di là del suo futuro, la natura che vorremmo avesse, le basi su cui lo stiamo costruendo, sono chiare.
Lo stiamo realizzando appoggiandoci all’Ambiente Integrato “Atque”, la suite di strumenti sviluppati dal Centro Ricerche ‘sAu’ per la Comunicazione Generativa che offre a chiunque voglia collaborare permette di progettare, realizzare, documentare, formare e informare.
Lo scopo è quello di sostenere la vasta e variegata Comunità di tutti coloro che cercano NON di far ri-vivere nel presente il pensiero e il magistero di don Lorenzo Milani MA di vivere il presente secondo la visione della realtà che il magistero e l’azione di Milani avevano indicato. Non un modello da riprodurre passivamente, meccanicamente, ma una strada da costruire per poterla così percorrere. E questo nei contesti più diversi: dalla scuola alle associazioni di volontariato, dal mondo dei religiosi al mondo dei lavoratori, dal mondo della ricerca a quello dell’impresa etc. etc.
Secondo il paradigma della Comunicazione Generativa che è alla base del progetto, a mano a mano che stiamo realizzando il Centro Generativo, lo stiamo anche rendendo pubblico, per avviarne un usus che ne verifichi e ne corregga concretamente, a contatto con le realtà in cui si cerca di realizzare i vari progetti di attualizzazione milaniana, la scientia che ne indirizza la creazione: https://www.sau-centroricerche.org/centro-don-milani/.La sua realizzazione, quindi, non può che avvenire in stretta collaborazione e cooperazione con tutti coloro che stanno sempre più manifestando interesse a collaborare alla sua attuazione. Non pochi, davvero.
Parafrasando le notissime parole di Milani “E la scuola di chi è? La scuola siamo noi” (Scuola di Barbiana 1967, p. 79), chi sta lavorando alla realizzazione del Centro Generativo vorrebbe che il Centro fosse di tutti coloro che cercano di disubbidire a una comunicazione troppo intrisa di metafore belliche (target, strategia, tattica…), una comunicazione che non sappiamo se sia mai stata virtuosa, ma certamente oggi obbedire a quella comunicazione non è più una virtù.
Nota bibliografica:
Note:
[1] Lettera a Francuccio Gesualdi del 4 dicembre 1966, in Don Lorenzo Milani 1917, tomo II, p. 1332.
[2] Lettera a Alberto Parigi del 20 maggio 1953, in Don Lorenzo Milani 1917, tomo II, pp. 276-278.
[3] Lettera a Gian Paolo Meucci del 2 marzo 1955, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo II, p. 352.
[4] Giovani di montagna e giovani di città. Lettera di un parroco su uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo I, pp. 1007-1013.
[5] Giovani di montagna e giovani di città. Lettera di un parroco su uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo I, pp. 1007-1013, e Lettera a Nicola Pistelli del 3 agosto 1959, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo II, pp. 683-700.
[6] Giovani di montagna e giovani di città. Lettera di un parroco su uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo I, pp. 1007-1013.
[7] Giovani di montagna e giovani di città. Lettera di un parroco su uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo I, p. 1010
[8] Lettera a Corrado Bacci del 27 dicembre del 1961, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo II, p. 841
[9] Lettera a Corrado Bacci del 27 dicembre del 1961, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo II, pp. 839-841.
[10] Giovani di montagna e giovani di città. Lettera di un parroco su uno dei problemi fondamentali del nostro tempo, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo I, pp. 1007-1013.
[11] Cfr. Appunti per un nuovo galateo, e Lettera a Corrado Bacci del 27 dicembre del 1961, in Don Lorenzo Milani 2017, tomo II, pp. 839-841.
Christian Ferrari
Maurizio Landini
Dario Missaglia
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).