Il 26 febbraio scorso è stata dedicata una serata alla memoria del poeta fiorentino Mario Luzi, evento organizzato dal Comune di Firenze e dal Quartiere 5-Rifredi in collaborazione con l'Accademia della Crusca. La commemorazione si è svolta nella chiesa di San Michele a Castello, frazione in cui il poeta è nato, ha trascorso i primi anni della sua infanzia e dove poi è tornato nelle ultime fasi della vita, per poi trovarvi sepoltura.
Giuseppe Nicoletti, professore ordinario dell'Università di Firenze, è intervenuto con un bellissimo Ricordo di Mario Luzi poeta, uomo di cultura, docente universitario. Il testo che segue è un estratto di questo Ricordo che l'autore stesso ha "ritagliato" proprio per la Crusca e ha pensato di offrire perché venisse reso pubblico attraverso le pagine del sito dell'Accademia, di cui Mario Luzi era diventato membro effettivo nel 2003.
Come molti ricorderanno, per la Crusca la giornata del 9 giugno 2003 fu a suo modo memorabile: Mario Luzi, nominato appena da un paio di mesi membro effettivo dell'Accademia, venne accolto nella sala dei convegni della Villa di Castello dal presidente Francesco Sabatini, dopodiché Cesare Segre presentò l'illustre socio agli intervenuti con un breve e ammirativo indirizzo di saluto. Il poeta tenne a sua volta un breve discorso durante il quale, salutando per la prima volta ufficialmente i colleghi accademici, affrontò con talune suggestive ma profonde riflessioni (da lui definite con autoriduttiva ironia Pensieri casuali sulla lingua) il tema di una retta considerazione-conservazione del nostro idioma. Fra gli altri, ci piace ricordare questo pensiero che il poeta volle riferire in quella occasione:
È di uso burocratico la locuzione: di madre lingua. Eppure, che grandezza reale essa contiene. In verità il rapporto che noi abbiamo con la lingua è proprio quello: da madre a figlio, voglio dire, e reciprocamente. È la lingua nella quale siamo nati e cresciuti che modella in misura non certo esigua la nostra mente. La nostra sensibilità dipende anche dai toni, gradi, risvolti della lingua che suona intorno a noi e dentro di noi. La madre lingua a sua volta riceve e raccoglie l'effetto delle esperienze serie e perfino delle marachelle dei propri figli; si arricchisce di invenzioni, di trovate, di nuovi possibili costrutti, di significati transitori o improvvisi. Tiene conto di tutto, anche se molto sarà da buttare. È bonaria, parsimoniosa, non spreca niente la madre lingua; ma non è facilona, è anche gelosa di sé.
Nell'infanzia io avevo come termine di paragone immediato il paese, Samprugnano paese della Maremma originario dei miei genitori, e il borgo fiorentino di Castello. Su questo sfondo si staccava, senza avere nulla di conclamato, la figura di mia madre.
Su questo mondo, che era anche quello di mia madre, lei si profilava in un modo per me più avvincente: io ho visto in mia madre tutto quel mondo di religione contadina ed elementare ma introflesso e pensato e molto intensamente vissuto. Questo mi ha incantato in lei, al di là del grande affetto che ci legava.
quando penso alla mia infanzia, alla prima a Castello, in quella casa tranquilla, insieme a degli amici, a dei piccoli coetanei, mi sembrava che fosse un luogo e un tempo molto sereno, e serenamente vissuto anche dagli adulti. Può darsi che su questo la memoria lavori molto, insomma faccia il suo lavoro di trasformazione, però ero molto innamorato di mia madre, mi piaceva mia madre, tutto quel che faceva mi incantava, come usava le mani, come cuciva, come sorrideva e quando poi era triste, perché mia madre aveva anche dei periodi di malinconia: questo mi abbatteva moltissimo, io ero molto legato ai suoi sentimenti, si riflettevano molto su di me, mi era impossibile essere allegro quando la vedevo così.
Il posto dove sono nato, presso Firenze, ha in sé un contrasto molto pronunziato. In alto, sulle colline, la forma armoniosa e conclusa che gli architetti delle ville e dei giardini hanno dato alla natura nel Rinascimento e nel Sei e nel Settecento, in basso la polverosa animazione di una borgata industriale. Inoltre un contrasto ancora più lacerante assimilato, anch'esso, nella prima infanzia: quelle sobrie ma monumentali dimore del potere e del privilegio ho imparato a conoscerle quando trasformate in ospedali militari ingoiavano dentro i loro cancelli colonne di autoambulanze con a bordo i feriti che i treni provenienti dai fronti della prima guerra mondiale scaricavano sulle banchine dei binari morti nella piccola stazione di Castello di cui mio padre era il capo: qualcuno di quegli uomini deposti sulle barelle con le bende insanguinate mi resta anche oggi stampato in mente. Lo stesso luogo mi fece conoscere i disordini sociali del dopoguerra e le violenze fasciste.
Tutto forse si ricompone nel gran fiume della nostra lingua italiana e della nostra peculiare ideazione: quel fiume nomina le cose portate dai tempi e cerca e rompe di continuo (ma con grandi ristagni) lo splendore della cristallizzazione. Sono immerso anche io in qualche modo dentro quella corrente.
Christian Ferrari
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