Il contributo fa parte degli atti del convegno Giovanni Nencioni a dieci anni dalla scomparsa, svoltosi in Accademia l’11 settembre 2018 per ricordare il grande linguista e Presidente dell’Accademia della Crusca dal 1972 al 2000.
Giovanni Nencioni appartiene al novero ristretto degli individui che lasciano una traccia profonda anche in chi li abbia non più che fuggevolmente incontrati. Credo che tutti, fin dal primo incontro, siano stati segnati dalla rivelazione di una personalità straordinaria, che colpiva per la grazia dimessa di affabile e partecipe interlocutore, dal linguaggio al tempo stesso arguto e misurato; e che ben presto finiva per ammaliare con la sua ricca e personalissima scelta lessicale, da cui filtrava, senz’essere mai esibita, un’immensa cultura, di cui si aveva poi conferma nelle pagine inimitabili dei suoi scritti. Ogni volta si restava – almeno questo accadeva a me – con la sensazione di aver colloquiato con uno spirito eletto. Se esiste una nobiltà del garbo, Giovanni Nencioni vi occupava di certo il grado di sovrano.
Va detto però che la sua innata gentilezza non andava intesa come remissività, perché quando occorreva sapeva emettere giudizi taglienti. Solo che, nel farlo, non lasciava mai trasparire irritazione o impazienza. La severità del giudizio era accompagnata da una sorta di rassegnata indulgenza. Questo suo tratto trovava un curioso riscontro in un altro atteggiamento che apparteneva al suo modo d’essere, e cioè il fatto di non esibire i propri successi. Il parallelo può apparire incongruo, ma lo chiarirò con due precisazioni in rapida sequenza. Per prima cosa va notato che, piuttosto che dei successi, Egli accennava semmai alle fatiche e alle frustrazioni che gli derivavano dalle sue varie responsabilità. In secondo luogo va aggiunto – e qui sta l’elemento di convergenza – che tali accenni non erano mai espressi con tono querulo: pareva insomma attribuire alle incorreggibili debolezze dell’animo umano ciò che, nella maggior parte della gente, suscita indignazione o rabbia. Ma Nencioni non avrebbe mai concesso a siffatte miserie l’immeritato vanto di aver provocato in lui altro che commiserazione per le altrui deficienze.
Tra i ricordi che conservo di Nencioni c’è una sua confessione circa il fatto di non essere praticamente mai riuscito ad avere allievi nei non pochi anni trascorsi alla facoltà di Magistero (come allora si chiamava). Per contro, una volta trasferitosi alla facoltà di Lettere, gli allievi divennero numerosi. Anche questo me lo disse, tuttavia, con tono sommesso; ben diversamente da altri colleghi i quali, in quegli stessi anni, non perdevano occasione per vantarsi di aver “messo in cattedra” molti allievi, indicando anche il numero esatto (ed usando una locuzione che dovrebbe suscitare quanto meno l’imbarazzo dell’interlocutore, piuttosto che la sua ammirazione).
A questo punto, è opportuno partire da qualche dato biografico. Nencioni conseguì la libera docenza nel 1938. Ebbe poi una parentesi romana nel biennio accademico 1944-1946, quando sostituì Antonino Pagliaro momentaneamente allontanato dall’insegnamento per la sua adesione al fascismo. Nel 1950 ebbe la cattedra di Glottologia all’Università di Bari, e dal 1952 divenne professore di Storia della Grammatica e della Lingua Italiana presso la Facoltà di Magistero di Firenze. Così almeno è scritto nel Dizionario Biografico degli Italiani; ma Anna Antonini mi ha precisato che, almeno all’inizio, la cattedra doveva piuttosto essere di Storia delle Tradizioni Popolari. In seguito, Nencioni restò comunque fedele alla Storia della Lingua Italiana, declinata infine in Linguistica Italiana nel passaggio alla Scuola Normale Superiore; e questo nonostante il fatto che Giacomo Devoto lo volesse come proprio successore sulla cattedra di Glottologia (di ciò esiste precisa testimonianza in una lettera di Nencioni stesso a Devoto, di cui ha dato notizia Claudio Ciociola). Il trasferimento alla facoltà di Lettere e Filosofia, sempre a Firenze, avvenne nel 1967, seguito nel 1974 da quello alla Normale. Se dunque assumiamo come termine post quem il 1967, abbiamo un intervallo di appena 14 anni fino al termine del periodo di insegnamento, avvenuto nel 1981 (il pensionamento avvenne invece cinque anni dopo, allo scadere del periodo di ‘fuori ruolo’, come si usava all’epoca).
Quanti allievi si possono avere in questo limitato arco di tempo? (intendendo ovviamente per “allievi” non già i semplici laureati, bensì coloro che hanno proseguito, in un modo o nell’altro, la vita degli studi). Si tenga tra l’altro presente che (com’è noto) in Normale non ci si laurea, mentre semmai ci si ‘perfeziona’, ossia si può ottenere il titolo di dottore di ricerca. Poiché Nencioni non era portato ad esibire questi dati, ho provato, io per lui, a fare questa specie di inventario in ordine cronologico di laurea (col prezioso aiuto iniziale dell’amica Anna Antonini, che qui ringrazio, con ulteriori precisazioni da parte di vari tra i qui sotto nominati). Un preliminare avvertimento è doveroso: di ciascun individuo mi limiterò a tracciare un ritratto laconico, più ancora che condensato, ben consapevole che di ciascuna e di ciascuno si potrebbe dire molto di più. Ma non vorrei essere frainteso: non sto parlando di loro, bensì del loro maestro Giovanni Nencioni. Il mio intento è di far emergere come, attraverso i campi di studio degli allievi, si possa ricavare un riflesso veritiero della vastità di interessi del maestro.
Comincio dunque con l’elencazione:
Gastone Venturelli. Questa è una parziale smentita dell’affermazione di Nencioni sopra riportata, in quanto si laureò quando il Nostro era ancora alla facoltà di Magistero. Scomparso molto prematuramente (1942-1995), è stato, per quanto ne so, il primo laureato di Nencioni. È stato un eminente studioso di etnografia, che ha insegnato Storia delle Tradizioni Popolari a Firenze. Ha lasciato un’importante raccolta multimediale, con particolare riguardo alla Garfagnana, purtroppo tuttora non accessibile alla consultazione.
Ada Braschi. Anch’ella si laureò presso il Magistero; ma qui terminano le eccezioni, che del resto, proprio in quanto tali, confermano la regola. Scomparsa nel 2014, si è occupata a lungo, insieme a Severina Parodi e a Nencioni stesso, del periodico La Crusca per voi, della cui opera di intelligente e alta divulgazione non occorre che tessa le lodi.
Omar Calabrese. Anche lui prematuramente scomparso (1949-2012), è stato professore di Semiotica presso l’Università di Siena e lo IULM. A parte l’impegno scientifico, ha ricoperto incarichi di natura politica ed ha svolto attività di pubblicista, dirigendo tra l’altro, per un periodo, la rivista Alfabeta.
Emanuela Cresti. Non si laureò con Nencioni, pur avendolo avuto come correlatore (nel 1970), ma di lui divenne ben presto assistente e ciò le garantisce a buon diritto uno scranno in questa nobile compagnia. È accademica della Crusca ed è stata ordinaria di Linguistica Italiana a Firenze, dove ha alimentato importanti iniziative sullo studio della pragmatica della comunicazione parlata.
Nicoletta Maraschio. Laureatasi anch’essa nel 1970, è stata ordinaria di Storia della Lingua Italiana a Firenze, ed ha in particolare lavorato sui trattatisti cinquecenteschi e sui linguaggi della comunicazione di massa. È stata inoltre presidente della Crusca dal 2008 al 2014, proseguendo nella scia del suo maestro, che a questa istituzione dedicò energie e passione.
Luciana Salibra. Si è laureata nel 1972; ha condotto ricerche linguistiche su scrittori dell’Otto e del Novecento, occupandosi anche di letteratura di consumo; ha inoltre indagato il parlato cinematografico e televisivo.
Leonardo Savoia. Laureatosi nel 1972, ha insegnato a Urbino e poi, come ordinario di Linguistica Generale, a Firenze. È stato Presidente della Società di Linguistica Italiana dal 2003 al 2007; si è occupato di fonologia, morfosintassi, acquisizione del linguaggio, con particolare attenzione alle lingue minoritarie (specie i dialetti albanesi d’Italia).
Anna Antonini. Si è laureata (in lettere classiche) nel 1973, è stata ricercatrice di Linguistica Italiana alla SNS, ed ha condotto studi sui grammatici rinascimentali. Di lei mi piace però raccontare che si ritirò da un concorso ad associato quando ebbe, più che il sentore, la certezza che le cose si stavano mettendo male, anzi molto male, perché c’era la concretissima possibilità che potesse risultare vincitrice (questo lo appresi da uno dei commissari). Insomma: un rarissimo caso di certamen interruptum.
Luciana Brandi. Laureatasi nel 1973 e successivamente perfezionatasi in Normale, è stata associata di Psicolinguistica presso l’Università di Firenze. Ha svolto ricerche sulla sintassi dei dialetti, sulle patologie del linguaggio, sulla scrittura delle donne.
Enrico Paradisi. Anch’egli perfezionatosi in Normale dopo la laurea nel 1974, è stato professore aggregato a Firenze di Linguistica Italiana e Didattica dell’Italiano, occupandosi tra l’altro di linguaggio della comicità e di glottodidattica.
Giuseppe Mazzocolin. Laureatosi nel 1975, ha insegnato per alcuni anni nelle scuole, prima di intraprendere un’attività imprenditoriale. Un percorso diverso, non c’è dubbio; ma merita citarlo qui per queste sue parole (tratte, senza peraltro chiedergli il consenso, da una sua comunicazione personale): “Il suo magistero e la sua testimonianza di vita mi hanno accompagnato sempre, in vigna, in cantina e in giro per il mondo”. Tutti noi possiamo dire lo stesso.
Stefania Stefanelli. Si è laureata nel 1975 ed è stata ricercatrice alla SNS. Vincitrice di concorso ad associato, ha condotto studi sul linguaggio del teatro e della letteratura italiana contemporanea.
Gabriella Alfieri. Laureatasi nel 1976, è divenuta ordinaria di Linguistica Italiana a Catania. Ha studiato tra l’altro la lingua letteraria (con particolare attenzione a Verga), la politica linguistica (il manzonismo), l’italiano della comunicazione televisiva.
Massimo Moneglia. Si è laureato nel 1976 e si è perfezionato in Normale con Nencioni, divenendo in seguito associato di Linguistica e di Semantica e Lessicologia nell’università di Firenze. Ha condotto studi di semantica e di linguistica dei corpora.
Mario Vayra. Si è laureato nel 1976; dopo il perfezionamento in Normale, è divenuto associato ad Arezzo (sede dell’Università di Siena) e successivamente a Bologna, dedicandosi a studi di fonologia sperimentale e di acquisizione della competenza fonologica.
Patrizia Cordin. Si è laureata nel 1978 con Arrigo Castellani, essendosi Nencioni ormai trasferito a Pisa, ma con quest’ultimo si perfezionò poi in Normale. È associata di Linguistica Generale all’Università di Trento, dove è anche delegata per le iniziative in materia di minoranze linguistiche. Ha compiuto studi in ambito soprattutto sintattico e lessicografico.
Chiara Tomasi. Laureatasi nel 1979, ha poi avuto una carriera nella scuola secondaria superiore, senza peraltro abbandonare la ricerca, com’è dimostrato dal suo intervento sulle frasi esclamative nel volume per il settantesimo genetliaco di Nencioni.
Cinzia Avesani. Laureatasi nel 1980 (con Arrigo Castellani come primo relatore), è “prima ricercatrice” CNR nella sede di Padova dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, dove conduce ricerche di fonetica sperimentale.
Luigi Fallani. Ecco un’altra eccezione che merita segnalare: mentre preparava la tesi, vinse un concorso nelle ferrovie. Nencioni era contento di fare quattro chiacchiere con il controllore Fallani nei viaggi tra Firenze e Pisa. Dopo la laurea, ha poi intrapreso una carriera di insegnante nelle scuole superiori.
Qui termina, in base alle mie informazioni, questa sorta di albero genealogico. Se ho dimenticato qualcuno, spero che l’interessato non me ne voglia troppo: mi assumo ogni responsabilità per le eventuali omissioni.
Ci sono poi coloro che in Normale hanno seguito i seminari di Nencioni, presentandovi proprie esposizioni seminariali. Questi non si possono considerare allievi in senso stretto, perché si tratta di studiosi istradati nei rispettivi campi soprattutto da altri maestri. Tuttavia, allievi di certo lo sono stati, e alcuni di quelli che ora nominerò hanno potuto godere delle opportunità che Nencioni offriva loro, organizzando convegni su argomenti lontani dai propri interessi di studio, e dunque concepiti al solo scopo di far venire a Pisa o a Firenze (alla Crusca) studiosi particolarmente interessanti per questi giovani allievi, oltreché di indubbio richiamo. Merita qui citare almeno (ma la lista sarebbe di certo più lunga): gli ordinari di Linguistica Generale Adriana Belletti, Giuseppe Longobardi, Luigi Rizzi e Rita Manzini, che poterono tra l’altro profittare dell’invito rivolto a Noam Chomsky per le famose Pisa Lectures; e poi gli ordinari di Filologia Italiana Claudio Ciociola e Vittorio Formentin, l’associata di Storia della Lingua Italiana Serena Fornasiero, l’ordinario di Filologia Semitica Riccardo Contini, nonché Sonia Maffei, associata di Storia della Critica d’Arte, la quale collaborò con Nencioni allo studio della lingua dell’architettura, con confronti Vitruvio-Cesariano.
Ci sarebbero infine alcuni stranieri che hanno passato un periodo di perfezionamento a Firenze e che hanno sempre riconosciuto in Nencioni un maestro, come dimostra la loro partecipazione agli scritti in sua memoria. Proprio per questo merita citare, quanto meno: Giuseppe Brincat, ordinario di Linguistica Italiana all’Università di Malta; Hermann Haller, professore di Italian and French alla City University of New York, Harro Stammerjohan, docente di Filologia Romanza prima a Francoforte su Meno e poi a Chemnitz, e Serge Vanvolsem, scomparso prematuramente, che è stato ordinario di Linguistica Italiana all’Università Cattolica di Lovanio; anch’egli, come i precedenti, accademico corrispondente estero della Crusca.
Qui si conclude definitivamente il mio elenco. Quello che tuttavia non farò è calcolare la somma. Non lo faceva Nencioni, e dunque non lo farò io, per rispettare la sua consegna al riserbo. Questo mi risparmia anche la noia di fare il calcolo di tot ordinari, tot associati e così via. Credo comunque che si possa convenire che l’elenco non è né breve, né di portata modesta. Ed a questo riguardo, per mera evidenza dei fatti, mi pare che si imponga una considerazione: se questa è stata la messe raccolta in 14 anni, fra la presa di servizio alla facoltà di Lettere di Firenze e la cessazione dell’insegnamento a Pisa (con le pochissime eccezioni dei laureati del periodo precedente), si può facilmente immaginare quale ne sarebbe stata l’entità su un arco di tempo più ampio. E si consideri, una volta ancora, che in Normale (per le note restrizioni) Nencioni poté solo avere un limitato numero di perfezionandi, ma nessun laureato.
Ma a parte queste considerazioni di natura quantitativa, mi preme qui sottolineare la varietà degli interessi coltivati; che vanno dalle tradizioni popolari al linguaggio letterario, dalla lingua e trattatistica del Rinascimento agli usi settoriali della lingua, dalla semiotica all’indagine sulle minoranze linguistiche, dalle ricerche sul parlato alla lingua della comunicazione di massa… Il tutto entro il perimetro della linguistica, intesa in senso lato come studio di una fondamentale espressione della cultura umana. Una gamma di studi assai variegata, e tuttavia pienamente ricompresa nell’ambito di interessi dello studioso Giovanni Nencioni. Una vastità di interessi forse connaturata all’atteggiamento da autodidatta (come è stato notato da altri) con cui Nencioni si accostò alla linguistica, dopo i suoi primitivi studi giuridici; un atteggiamento quindi del tutto esente dalle remore che possono derivare da una formazione specialistica.
Ciò a maggior ragione, se si considera che, agli ambiti sopra ricordati, Nencioni aggiungeva il proprio amore per gli studi strettamente glottologici, coltivati soprattutto all’inizio, ma mai abbandonati, come egli stesso mi confidò al momento del pensionamento, quando mi disse che la sua ricreazione serale consisteva, e sempre più sarebbe consistita, nel dedicarsi alla traduzione di qualche testo antico. Ciò che mi colpisce è il fatto che, di tali esercizi serali, non v’è traccia nelle pubblicazioni tarde: evidentemente, Egli li concepiva come una sorta di impegno privato, da custodirsi gelosamente. Come se volesse riservare a sé qualcosa, dopo essersi speso per gli altri così a lungo e con così buon frutto.
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