Per un’indagine fraseologica dei Promessi sposi

di Ersilia Russo

Presentazione:
Alla vigilia dell’anno in cui ricorre il centocinquantenario della morte di Manzoni si è tenuto a Parma (in data 7 dicembre 2022), nell’ambito delle attività della scuola di Dottorato di ricerca in Scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche e artistiche, una giornata di studio dal titolo La lingua dei «Promessi sposi»: lavori in corso. Era l’occasione per mettere a confronto ricerche linguistiche condotte su fronti diversi, e con differenti metodologie, da giovani impegnati nella tesi di dottorato, o da poco dottori, nella convinzione che il confronto potesse rappresentare, specie negli anni fecondi della formazione, un lievito prezioso di riflessioni. I saggi qui raccolti sono excerpta di lavori in corso di più ampio respiro: li offriamo ad Angelo Stella, che aveva incoraggiato l’iniziativa e attendeva di valutarne i risultati, in memoria di riconoscenza e di affetto, con l’auspicio che l’anniversario manzoniano, giunto ormai al termine, possa promuovere una nuova leva di valenti studiosi.

Abstract:
Il contributo propone una modalità di indagine della fraseologia dei Promessi sposi, circoscrivendo alcune coordinate teoriche fondamentali in relazione alla specificità del testo manzoniano. A partire dal concetto di “non non-creatività” (De Mauro 1990), la fraseologia viene considerata un livello fondamentale dell’uso linguistico per quanto riguarda la realizzazione di una medietà di tono e di registro (Testa 1997). Per via della convenzionalità che le caratterizza, le strutture fraseologiche diventano il “bandolo della matassa” della lingua del romanzo fino alla sua ultima versione. L’impiego di “modi di dire”, “frasi”, e “locuzioni”, vivi e veri, richiede allo scrittore un largo dispiegamento di forze, parallelo alla redazione dell’opera. La presenza di questi fenomeni può essere osservata in diacronia, verificandola nelle quattro forme del testo (le due minute, Fermo e Lucia e Gli Sposi Promessi, e le due edizioni a stampa), in modo da individuare le spinte linguistico-culturali che hanno determinato la costituzione della facies fraseologica del romanzo. In questo contributo si presenta, come caso di studio, la storia delle locuzioni avverbiali sinonimiche al buioa nasoa tastoni, a tentone. Alla luce di queste considerazioni, emerge come lo studio dei Promessi sposi da un punto di vista fraseologico permetta di ripercorrere le tappe fondamentali della sua stesura, e di dedurre il metodo di costruzione linguistica del romanzo attraverso le strategie, le fonti, le riflessioni teoriche dell’autore.

1. La fraseologia nell’architettura linguistica del romanzo

Nella formazione della tessitura linguistica dei Promessi sposi, che trova il suo culmine nell’approdo alla tesi fiorentinista, l’organizzazione della fraseologia acquista una rilevanza crescente nella misura in cui l’autore si rende conto del suo peso specifico nella restituzione di una lingua “viva e vera”. L’impiego consapevole e mirato della fraseologia è infatti da ricondurre a determinate strategie stilistiche, che, nel caso manzoniano, si sussumono nella creazione di una medietà dell’espressione e della concretezza della forza illocutiva[1]. Nel processo di stesura del romanzo, essa diventa il “bandolo della matassa”, lo snodo teorico e applicativo della questione linguistica ottocentesca, così come confluisce nel celebre romanzo storico. Considerarne il valore e ricostruirne la composizione permettono di svincolare il testo da giudizi prettamente estetici e critici per “fare al Manzoni linguista la parte che gli compete” (Nencioni 1987, p. 26). Tanto più che lo scrittore dedica alle strutture fraseologiche una serie di riflessioni, e ritiene che “il problema della lingua, inteso nei due sensi di teoria e prassi linguistica, [è] da non separarsi mai in uno scrittore, tanto meno in uno scrittore come Manzoni, proteso alla coerenza di concezione ed esecuzione” (ivi, pp. 15-16). Comprendere, dunque, il ruolo rivestito dalla fraseologia e dalle rispettive unità minime – le unità fraseologiche – attraverso la ricostruzione della loro evoluzione nelle diverse fasi redazionali dei Promessi sposi, rende possibile ripercorrere il lavoro di ricerca dello scrittore, condotto prima su fonti scritte, letterarie e lessicografiche, e successivamente tramite informatori locali, e permette di individuare le spinte concettuali che hanno dato forma alla futura lingua nazionale.

Gli studi incentrati sulla fraseologia manzoniana hanno alle loro spalle una significativa storia critica: dall’opera di De Capitani 1842, che, nella sua ricognizione diacronica, contempla formazioni polilessicali che hanno subìto una variazione tra Ventisettana e Quarantana[2], al più sistematico Cavallini 1975, che dà prova di un saggio di dizionario fraseologico elencando le polirematiche in prospettiva sincronica, fino allo studio di Cianfaglioni 2006, che concentra l’attenzione sui proverbi e sui modi di dire. Nencioni, a proposito dello studio di Cavallini, ebbe a dire: “nella sua parzialità ed esiguità, l’opera del Cavallini è utile, tanto scarse e malcerte per sicuri confronti e riferimenti sono le raccolte fraseologiche dell’italiano” (ivi, p. 19), riconoscendo l’occasionalità dei metodi e dei presupposti delle raccolte locuzionali in italiano, dovute senza dubbio all’evanescenza dell’ambito di ricerca, variamente delimitato dalle diverse correnti linguistiche se non dai singoli studiosi[3]. Per intraprendere un’indagine storica del patrimonio fraseologico dei Promessi sposi, è opportuno, quindi, mettere ordine all’area di competenza dello specifico settore linguistico, delimitando l’àmbito mediante parametri teorici ricavati dalla letteratura scientifica più recente (§ 2). La sistematicità dell’approccio potrà quindi essere garantita dall’individuazione di una tassonomia che tenga conto delle strutture multiparola che informano il testo (§ 4), e per le quali Manzoni propone una definizione sintetica ma esaustiva (§ 3). Nel § 5 la ricostruzione storico-linguistica della fraseologia manzoniana viene esemplificata da un caso di studio d’eccezione: l’alternarsi, nelle varie fasi del romanzo, delle locuzioni idiomatiche sinonimiche a naso, a tastoni, a tentone, al tasto.

2. La fraseologia come campo d’indagine

 

Per motivare la presenza della fraseologia nelle lingue, Koesters e Berardini[4] si rifanno al principio semiotico della “non non-creatività” (De Mauro 1990, p. 53), in particolare a una sua precisa modalità di manifestazione. In generale, la “non non-creatività” indica la caratteristica delle lingue storico-naturali di potersi esprimere in modo non prevedibile, nuovo, se non unico. È ciò che differenzia il codice della matematica – dove esso è un calcolo solo se non-creativo, costituito da un numero finito di regole di funzionamento – dal codice linguistico: le lingue non sono sistemi chiusi, ma creativi, o, più tecnicamente, “non non-creativi”, intendendo con creatività la “disponibilità alla variazione delle forme di un sistema o di un codice semiologico, insita negli utenti del sistema o codice e riconoscibile come proprietà del sistema o codice stesso” (Ibidem). La “non non-creatività” si manifesta su vari livelli: nell’oscillazione collettiva e individuale del vocabolario, che sul piano intersoggettivo contempla “l’obsolescenza, la progressiva uscita dall’uso e dalla memoria d’un vocabolo, e il neologismo” (De Mauro 1990, p. 90); nell’indeterminatezza dei significati e significanti, non sempre univocamente stabiliti; e, infine, nella presenza di stringhe di parole considerabili sia come combinazioni libere sia come espressioni agglutinate dotate di significato complessivo:

questa “non non-creatività” si manifesta [...] nel fatto che nelle lingue una stringa di parole può essere usata sia come una combinazione libera di elementi in cui il significato globale si presenta come la somma dei significati delle singole parole, sia come un’unica espressione, dal significato complessivo, agglutinato e irriducibile alla somma dei significati dei singoli costituenti. (Koesters-Berardini 2020, p. 1)

“Ogni lingua”, scrive De Mauro, «ha i suoi idioms, le sue “espressioni idiomatiche” o “frasi fatte”», come “andare in bianco, mangiare in bianco, essere in rosso, vedere rosso, ridere verde, vedere nero, vedere rosa, essere al verde” (De Mauro 1990, p. 140). In essi, “il gioco combinatorio e metaforico originario si è perduto e l’intero sintagma, nel suo complesso, vale come una parola a monema lessicale unico” (ibidem). Le espressioni agglutinate descritte dallo studioso rientrano nell’àmbito della fraseologia, che, nella sua accezione ampia[5], comprende un vasto e differenziato numero di strutture multilessicali. Sebbene circoscrivere la sua area di competenza presupponga una serie di riflessioni teorico-metodologiche che difficilmente possono essere riconducibili a principi unanimemente riconosciuti e accettati, è tuttavia necessario individuare, in una fase preliminare dei lavori, parametri che permettano la ricognizione delle forme coinvolte. Nostro punto di partenza è la considerazione della fraseologia come “sovraordinato indicante tutte le espressioni che limitano, a diversi gradi, la scelta del parlante sull’asse della combinazione” (Cini 2005, p. 22). In questo senso, viene ritenuta fraseologica “qualsiasi combinazione di parole o morfemi lessicali in cui sia presente un elemento di agglutinazione semantica e/o strutturale fra i costituenti lessicali” (Koesters-Berardini 2020, p. 21). Tali elementi, che possono essere anche molto diversi tra loro da un punto di vista formale, presentano tutti un certo grado di non-composizionalità semantica e di fissità strutturale[6], in misura variabile tra le diverse tipologie di polirematica ma anche all’interno di una stessa tipologia[7]. Esistono, inoltre, molteplici livelli di trasparenza/opacità e calcolabilità semantica, nonostante i termini coinvolti nelle espressioni siano per lo più comuni e trasparenti. Dal punto di vista strutturale, la coesione morfo-sintattica può svilupparsi su gradi diversi di fissità, per cui talvolta sono ammessi alcuni procedimenti di trasformazione, come la passivizzazione, la topicalizzazione, l’interrogazione e altri. Per rendere conto, dunque, della polimorfia che caratterizza le unità fraseologiche sembra opportuno far riferimento a “una nozione graduale di parola: esiste un continuum che va dalla parola-parola alla non-parola, lungo il quale si collocano vari tipi di forme complesse che saranno ritenute tanto più parole quanto più presentano le caratteristiche peculiari della parola prototipica” (Casadei 2003, p. 124). Per questi motivi, classificare i fraseologismi diventa un’operazione tutt’altro che univoca e lineare, tant’è che i confini tra una struttura e l’altra sono estremamente sfumati e la concezione della fraseologia può variare sulla base delle diverse posture teoriche adottate dai linguisti.

3. La riflessione fraseologica manzoniana

Tali costruzioni multiparola sono centrali nella stesura dei Promessi Sposi. Nella seconda Introduzione a FL, in cui la riflessione linguistica si insinua nel bilancio complessivo della scrittura (con il celebre “scrivo male a mio dispetto”[8]) Manzoni esprime un’avvertenza al lettore, che diventa una excusatio non petita:

Quanto allo stile, d’una sola cosa crediamo dovere avvertire il benigno lettore. Egli vedrà che noi abbiamo conservat<e> non solo nei dialoghi, ma anche nel racconto vocaboli, modi proverbiali, frasi assolutamente Lombarde. […] Se noi avessimo conosciute frasi dello stesso valore le quali fossero non solo intelligibili, ma adoperate negli scritti e nei discorsi per tutta Italia, certamente le avremmo preferite. (FL, p. 5)

Lo scrittore dichiara di aver utilizzato, non soltanto nelle parti dialogate ma anche in quelle della narrazione autoriale, vocaboli, modi proverbiali e frasi assolutamente Lombarde. Nell’enumerazione a climax ascendente fa succedere all’elemento lessicale minimo – il vocabolo – due elementi lessicali multipli: i modi proverbiali – i proverbi ma anche gli idioms di cui parla De Mauro – e le frasi, costruzioni sintattiche o fraseologiche specifiche di un dato idioma. In quanto forme idiomatiche (dal gr. ἰδιωματικός ‘particolare’, ‘proprio’), questi ultimi sembrano costituire gli elementi più specifici e caratteristici di una lingua, e di conseguenza più difficilmente traducibili. Essi sono per di più particolarmente attivi sul versante dell’oralità; così, rintracciare i modi di dire, “vivi e veri”, diventa operazione necessaria: per via del significato globale e convenzionale che li determina, è necessario che essi siano in uso, altrimenti la struttura risulta incomprensibile dai parlanti stessi. Sintomatica la lettera inviata a Tommaso Grossi durante il soggiorno fiorentino del 17 settembre 1827, che “mostra un Manzoni già molto indaffarato a risciacquare i suoi lenzuoli in acqua d’Arno” (Pollidori Castellani, p. 383). In essa si riscontrano un’autocorrezione e una rimodulazione proprio di un’espressione idiomatica:

Oltre quel che si risponde alle mie domande espresse, non passa giorno, ch’io non raccolga accidentalmente nel discorso modi di dire, dei quali io sarei andato a cercare il corrispondente toscano, e non l’avrei trovato, o l’avrei trovato nei libri disusato, ignorato, morto fradicio. Mi ricordo d’essere stato lì lì (così si dice, non: a un pelo) per fare un baratto onde sostituire archibugiata a schioppettata, ch’io non aveva mai avuto il piacere d’incontrare nè in libri di lingua, nè nei vocabolarii. (Manzoni/Arieti 1986, p. 433, n. 265)

Dopo il riscontro con la realtà toscana, Manzoni realizza che il modo di dire essere a un pelo sia tipico anche del proprio dialetto, e che la forma tosco-italiana corrispondente dal punto di vista semantico sia essere lì lì, ossia ‘essere sul punto di fare qualcosa’.

Che quello fraseologico fosse un punto nodale nella scrittura del testo lo si riconosce dalla riflessione metalinguistica che Manzoni vi dedica. Essa è concentrata negli scritti linguistici editi e inediti, in particolare nella relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla e relativa Appendice e nel trattato Della lingua italiana, ma è ricostruibile anche tramite considerazioni ricavabili dall’epistolario e dalla ricerca svolta sui postillati, che ha portato alla redazione di veri e propri repertori di locuzioni, oltre alle inchieste rivolte agli amici e collaboratori toscani, in primis quelle a Emilia Luti.

Nella quinta redazione del Della lingua italiana, Manzoni si sofferma lungamente sull’illustrazione dei modi di dire:

Intendo que’ modi di dire composti di più vocaboli, e che hanno un loro significato particolare e determinato, come andare in collera, mettere in campo, far caso, lasciare stare, esser fuori di sé, da parte mia, vostra, sua, val a dire, in lungo e in largo, a man salva, di mano in mano, etc. etc. Il qual significato, come ognun vede, anche da questi pochi esempi, e come, del resto, ognuno sa, non risulta però sempre e necessariamente dal concorso de’ vocaboli: alle volte ne risulterebbe uno diverso; alle volte nessuno. (Manzoni/Stella-Vitale 2000, p. 400, t. I)

È interessante notare la corrispondenza dei tratti peculiari affidati in questo breve paragrafo ai modi di dire e la definizione offerta da Casadei delle espressioni idiomatiche[9]: gli elementi caratterizzanti tali formazioni sono la polilessicalità, cioè l’essere graficamente composti da più vocaboli, e la non-composizionalità, avendo essi una semantica globale svincolata dai significati dei costituenti dell’espressione, che ne sottolinea la convenzionalità di forma e senso.

4. Una proposta di tassonomia

Una concezione ‘ampia’ della fraseologia sembra quella più efficace per rispondere efficacemente sia alle considerazioni teoriche dell’autore, sia alla molteplicità dei fenomeni multiparola presenti nel romanzo. Analizzando il testo, abbiamo individuato una serie di strutture che trovano riscontro nella letteratura scientifica di riferimento, oltre che nei vocabolari storici e sincronici e nei commenti all’opera. Esse sono caratterizzate da un diverso grado di fissità strutturale e di opacità semantica, e sono state ricondotte a undici categorie: proverbi, espressioni o locuzioni idiomatiche (i “modi di dire”), binomi irreversibili, paragoni standardizzati, formule, segnali discorsivi, costruzioni a verbo supporto, locuzioni, collocazioni, verbi sintagmatici, reduplicazioni.

I proverbi, caratterizzati da un altissimo grado di fissità e convenzionalità, veicolando un contenuto metaforico e sentenzioso, non sono numerosi. Spesso glossati, talvolta camuffati nel testo, sono stati ricondotti a molteplici origini: biblica, classica, cólta, lombarda e di neoformazione[10]. Essi provengono tanto dalla voce narrante quanto dai personaggi, sia socialmente e culturalmente elevati, sia provenienti dai ceti più bassi. Il loro andamento nelle diverse fasi del romanzo è piuttosto stabile: ambasciator non porta pena, inserito in FL (i, V 53), rimane invariato fino a Q (tranne per il ripristino della vocale finale di ambasciatore in SP i, V 35, troncata nelle altre redazioni). Molti proverbi sono inseriti in SP, ovvero durante la revisione del primo manoscritto, successiva o contemporanea alla lettura e rilettura dei testi toscani, da cui Manzoni deriva moltissimi di questi modi fraseologici. Tra gli altri: del senno di poi son piene le fosse (SP ii, XXIV 80); il lupo lascia il pelo, ma non il vizio (SP ii, XIX 16), che diventa in V il lupo muta il pelo, ma non il vizio (ii, XIX 16) e in Q il lupo cambia il pelo, ma non il vizio (XIX 16). Talvolta il proverbio può sostituire una frase libera: è il caso di Uomo avvertito… lei c’intende (Q I 32), entrato in SP, sostituendo era nostro dovere d’avvisarla e l’abbiamo fatto FL i, I 32. Il carico antonomastico del proverbio è così forte che non è necessario per il bravo che l’ha pronunciato concludere la frase per farsi intendere, ed è sufficiente a sottolineare, nella sospensione, il tono intimidatorio utilizzato nei confronti di don Abbondio.

L’espressione (o locuzione) idiomatica abbina “un significante fisso a un significato convenzionale tipicamente non letterale” (Casadei 1996, p. 13). Con espressioni idiomatiche intendiamo quindi quelle formazioni polilessicali sintatticamente e semanticamente fisse, totalmente opache a un parlante non nativo. Sono estremamente diffuse nel romanzo, entrando in particolare in Seconda Minuta: esse diventano uno degli strumenti per caratterizzare la lingua scritta di fenomeni tipici dell’oralità. L’espressione idiomatica essere un altro paio di maniche, ossia ‘essere una cosa completamente diversa’[11], è presente in due luoghi: È un altro par di maniche (Q XVII 48) che sostituisce Gli è un altro paio di maniche e un altro par di maniche (Q XXVII 13), che rimpiazza, questa volta, una frase libera (è un’altra cosa SP V ii, XXVII 13). Questa tipologia di unità fraseologica ha la funzione di esprimere con maggiore intensità e concretezza quanto sarebbe detto con circonlocuzioni meno efficaci: come “mettere qualcuno alle strette”, che compare in due luoghi in Q (II 26 e XV 57), sostituendo due frasi libere, rispettivamente per incalzarlo a parlare (FL i, II 30) e quando sono in angustie (SP V ii, XV 57)[12]. Moltissime sono le espressioni idiomatiche che fanno riferimento alla vita quotidiana o a fatti storici, come nei seguenti casi:

(Q) io fo l’orecchio del mercante (IV 10)
(SP) (V) io faccio orecchie da mercante (i, IV 10)

(Q) portare il soccorso di Pisa (VII 57)
(V) portare il soccorso di Pisa (i, VII 57)

(Q) Vide il soccorso di Pisa (XIII 41)
(SP) (V) Vide il soccorso di Pisa (ii, XIII 41)

(Q) è un porto di mare (XI 31)
(SP) (V) è un porto di mare (i, XI 31)

I binomi irreversibili sono formati da una coppia di termini appartenenti alla stessa categoria grammaticale, uniti da una congiunzione e tendenzialmente non scambiabili. Sono strutture piuttosto ricorrenti e fisse; pensiamo al vo e torno di Perpetua (Q VII 84) e di Griso (Q XXXIII 15), entrato già in FL, risentendo in Q della morfologia toscana. Di più o meno sono presenti tredici occorrenze, di cui una entra solo in Q (XXXII 27) e un’altra in V (i, I 5), tutte proferite dal narratore, tranne in XXXVIII 14 (dove pronunciata da don Abbondio). Qua e là presenta ventisette occorrenze, solo in cinque casi derivate da FL, senza contare le possibili variazioni: in qua e in là (Q VII 28) che sostituisce quà e là (FL i, VII 48, SP V i, VII 28), or qua or là (Q V VIII 45), di qua e di là (Q IV 23). Un caso particolare è quello di su e giù (FL i, III 8), sostituito da innanzi e indietro in V i, III 8, mentre in Q VII 11 è innanzi e indietro (SP V i, VII 11) a essere sostituito con in su e in giù (Q VII 11).

Un’ulteriore struttura fissa che può essere considerata nell’analisi fraseologica dei Promessi sposi è quella dei paragoni standardizzati, cioè dei paragoni il cui portato concettuale si fissa in un patrimonio comune. Quelli utilizzati nel romanzo sono, nella loro icasticità, estremamente eloquenti:

(Q) era più impicciato come un pulcino nella stoppa (III 11)
(SP) (V) impacciato come un pulcino nella stoppa (i, III 11)

(Q) Bianco come un panno lavato (XIII 55)
(SP) (V) bianco come un panno curato (ii, XIII 55)

(Q) venivan giù come la grandine (XII 40)
(SP) (V) venivano giù come gragnuola (ii, XII 40)

(Q) far morir la povera gente, come mosche (XII 36)
(FL) ammazzare la povera gente (iii, VI 26)
(SP) (V) far morir la povera gente come mosche (ii, XII 36)

Numerose sono le formule, soprattutto quelle di benedizione (Il Signore vi benedica! Q III 43; Il Signore sia con voi Q III 43) e di esclamazione (per amor del cielo, con ben diciannove occorrenze, Che Dio guardi in FL i, V 78 e SP V Q i, V 62), frequentemente riferite all’ambito religioso. Per la loro finalità pragmatica, si trovano esclusivamente nel discorso diretto, non essendo mai proferite dal narratore.

I segnali discorsivi strutturano il discorso sottolineando l’architettura interattiva della conversazione[13]. Sono piuttosto frequenti nel romanzo, in contesto sia intra che extra-dialogico: sono rappresentati dai tanti come si dice (dieci occorrenze), per dir così (trentaquattro occorrenze), come si suol dire (tre occorrenze), che svolgono di volta in volta di una funzione di attenuazione e rimodulazione del contenuto espresso appena dopo.

Le costruzioni a verbo supporto – in cui il verbo ha il ruolo di ‘supporto’ di un nome – ricorrono con costanza, essendo molto frequenti nella lingua:

(Q) Facendo vista di (XX 28)
(SP) facendo vista di (ii, XX 28)(V) Facendo vista di (ii, XX 28) 

(Q) fece le viste di (XVI 21)
(V) fe’ sembiante di (ii, XVI 21)

Talvolta si registra un’oscillazione del verbo reggente, che rispecchia un’incertezza nell’uso del termine più adeguato, perché aderente alla lingua di riferimento, come nel caso di domandare scusa, sostituito in Q dalla forma più colloquiale chiedere scusa:

(FL) gli avrei domandato io scusa (i, IV 75)
(SP) gli domandava io scusa (i, IV 61)
(V) gli domandava io scusa (i, IV 61)
(Q) gli chiedevo scusa io (IV 61)

A metà tra espressioni idiomatiche e collocazioni, le locuzioni sono definite dalla parte del discorso che occupano, non rendendo conto del ruolo grammaticale dei suoi costituenti. Esse possono essere avverbiali (a bizzeffe Q III 49, da a furia FL i, III 58), verbali (dare un’occhiata, con ben quarantanove occorrenze, comprese le varianti con occhiatina Q XV 44, occhiate Q XXIII 5, delle occhiate Q V 66), nominali (maestro di casa Q IV 19 da maggiordomo FL i, IV 19), aggettivali (in gran gala Q IV 57 da riccamente vestito FL i, IV 57), preposizionali (in faccia al Q XX 19), congiunzionali in modo che (Q X 49, da in maniera che SP i, X 49).

Le collocazioni sono definite come la “frequente co-occorrenza di due parole in una lingua”[14]; tra queste tendere insidie (Q I 14), affrettò il passo (Q IV 52), attaccar discorso (Q II 26), Si sparse la voce (Q III 49) da Si sparse la voce (FL i, III 58), divenuto Andò attorno la voce in SP e V (i, III 49).

I verbi sintagmatici appaiono piuttosto stabili nella diacronia delle fasi redazionali del romanzo: aver fatto bene (Q Intr. 15), abbiam fatto male (Q XXIV 74), tirarsene indietro (Q V 27), gli metteva addosso (Q XX 15), venne avanti (Q III 43) da entrò (FL SP V i, III 50/43), così come le reduplicazioni: via via (Q I 6), adagio adagio (Q XVI 41), a poco a poco (ventidue occorrenze, e nessuna attestazione in FL), quasi quasi (quattro occorrenze, aggiunte in SP), nulla nulla (Q V 19), bel bello (Q I 8), che sostituisce lentamente (FL SP i, I 18).

5. Un caso di studio: le espressioni a naso, a taston(e/i), a tentone, al tasto

Per esprimere l’azione di procedere “per intuizione, senza avere elementi di fatto”[15], Manzoni, nelle diverse fasi del romanzo, si serve di una serie di espressioni idiomatiche avverbiali: a naso, a tentone, a tastoni, al tasto, non tutte sopravvissute fino all’ultima edizione del romanzo (Tabella 1).

 

Tabella 1. Occorrenze delle espressioni idiomatiche a naso, a tentone, al tasto, a tastoni in diacronia.

L’espressione a naso rappresenta un unicum in SP e in V, cadendo in Q. Nel Gdli 1961-2002 essa è accompagnata dalla locuzione sinonimica a lume di naso, ossia “con l’odorato, annusando” in senso letterale, succedendo, nel significato figurato, “seguendo il proprio intuito senza un programma o degli indizi precisi; procedendo a tentoni, a caso”. In SP e V l’espressione è circoscritta dalla glossa metalinguistica come si dice, che ha lo scopo di indicare un’espressione comunemente utilizzata nella lingua corrente. Infatti, essa è registrata regolarmente sui vocabolari milanesi presi in esame: in Cherubini 1814 s.v. vista: “A vista de nas. A occhio e croce. Così alla grossa, senza cura”; in Cherubini 1839-1843 s.v. nas: “A lumm o A vista de nas. A occhio e croce. A giudicio dell’occhio. A man chiusa? Alla grossa, senza consideraz.e”, in Arrighi 1896 s.v. vista, “A vista o a lumm de nas: A occhio e croce”; infine in Angiolini 1897 s.v. “nas, à lümm de nas: a occhio e croce, a colpo d’occhio: di giudizio che si faccia senza molta analisi”. La stessa espressione risulta invece assente nei vocabolari toscani, sintomo della sua estraneità al repertorio linguistico fiorentino, e verosimile motivo di esclusione dalla compagine linguistica di Q. Qui, al suo posto, troviamo l’espressione al tasto[16], sempre introdotta da una segnalazione metalinguistica. Al tasto rimane un unicum in Q, e nella sua forma con la preposizione articolata è presente solo nel Rigutini-Fanfani 1875, s.v. tasto “Andare al tasto, per camminare all’oscuro tastando i luoghi, gli oggetti, al fine di aiutarsi col tatto, non potendo con la vista”, mentre nella versione a tasto è attestata tanto nei vocabolari milanesi (Cherubini 1839-1843 s.v. tàst, Arrighi 1896 s.v. tast) quanto in quelli toscani (Tommaseo-Bellini, Rigutini-Fanfani 1875, Giorgini-Broglio 1870-1897, s.v. tasto).

In FL l’unico modo utilizzato per esprimere un andare casuale e incerto corrisponde all’espressione a tentone, situata in due luoghi, anche piuttosto vicini (i, VII 97 e i, VIII 13). In i, VII 97 l’espressione rimane intatta fino a V, mentre viene sostituita in Q, dalla forma semanticamente coincidente a tastoni. Nella seconda occorrenza (i, VIII 13) essa cade già in Seconda minuta, dove però entra in altri cinque luoghi. In nessun caso si stabilizza fino a Q: in SP i, VIII 13 e V i, VIII 52 galoppò a tentone è sostituito in Q con corse, come poteva, al buio (VIII 52); SP i, VIII 71 cade in V; SP i, XXI 15 a tentone viene sostituito in Q con a tastone; SP i, XXI, 51 è cambiato in V con in furia (fino a Q); infine, SP iii, XXXVIII 43 è sostituito in Q con a tastoni. La polirematica rimane dunque intatta fino a V (tranne nel caso di in furia, complice uno slittamento semantico). Nei vocabolari milanesi, la locuzione a tentone, peraltro ben attestata nei vocabolari toscani[17], è presentata come il corrispettivo italiano di a tastoni, la quale diventa la variante più diffusa in Q (compreso a tastone), forse proprio per tale corrispondenza tosco-milanese[18].

 




Tabella 2. Presenza delle diverse espressioni idiomatiche nei vocabolari milanesi e toscani.

In Q, troviamo in aggiunta le espressioni al buio (Gdli 1961-2002 s.v. buio, nel senso figurato di “Andare, fare al buio: procedere a caso, alla cieca, non sapere esattamente ciò che si deve fare”) e al tasto (Gdli 1961-2002 s.v. tasto, tra le locuzioni “A, al tasto. Procedendo tentoni, alla cieca, senza vedere, tastando con le mani e con i piedi”). Mentre la prima locuzione avverbiale non trova riscontro nei lemmi dei vocabolari consultati, la seconda è piuttosto ben attestata, sia in milanese (Arrighi 1896 s.v. tast, tasto, “Andà a tast o a tastón: Andar tastoni”) che in toscano (Rigutini-Fanfani 1875 s.v. tasto, Andare al tasto, per camminare all’oscuro tastando i luoghi, gli oggetti, al fine di aiutarsi col tatto, non potendo con la vista)”.

Per quanto riguarda la restante produzione manzoniana, le voci a naso e a tastone/i non hanno nessuna attestazione; a tasto è presente nell’Appendice alla relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (due occorrenze), nella Storia Longobardica (due attestazioni) e nell’epistolario (una attestazione). L’espressione a tentone è usata nella lettera a Ranieri Sbrangia del 12 ottobre 1853 e in quella a Luigi Pellico del 9 novembre 1823. Negli Scritti Linguistici inediti rinveniamo a tastoni, nel suo senso figurato, all’interno delle liste lessicali redatte tra il Fermo e Lucia e la Ventisettana (1823-1825). Dalla collaborazione con Cioni e Niccolini (1827-1830) risulta invece l’appunto su “A stima; a lume di naso”, glossato con «In senso disprezzativo: “a occhio e croce” è ancora in uso. “A occhio” quando si tratti di giudicar cosa che possa esser sotto il giudizio degli occhi; anche “a vista”: si dice». Un’ultima attestazione, estremamente significativa, è riconducibile alle postille apportate dal nostro autore sul Vocabolario degli Accademici della Crusca nell’edizione cosiddetta ‘veronese’: sul margine inferiore della pagina che contiene il lemma naso, Manzoni scrive “A naso. V. not. marg.” con un rimando intratestuale alla propria nota appuntata alla lettera A, nell’intervallo ANA, dove viene riportato un passo tratto dall’Orlando Innamorato di Francesco Berni: “A naso. Bern. Orl. In. 1. 15. 29. E non vo’ dir s’abbatte Il Conte quivi, anzi vi venne a naso. E, 1. 19. 39: Questo è quel traditore, a naso il sento. Vale: per leggieri indizii, quasi indovinando, e corrisponde al milanese: a lume di naso”. Nonostante la conferma del testo toscano, la locuzione cade nel romanzo, in cui la forma predominante è appunto a tastone/i, che, come mostra la Tabella 2, è la maggiormente attestata in tutti i vocabolari, milanesi e toscani, concretizzando quella commistione tra i due idiomi così vagheggiata da Manzoni[19].

6. In conclusione

Conseguentemente all’affermazione della necessità di adottare una concezione ‘ampia’ della fraseologia per l’analisi della lingua dei Promessi sposi considerata nella sua diacronia, sono state individuate undici categorie fraseologiche che rappresentino adeguatamente le caratteristiche sintagmatiche del testo. La rapida panoramica svolta su ciascuna struttura ha perseguito l’obiettivo di delimitare il campo d’indagine, circoscrivendo un’area – quella della fraseologia – piuttosto vaga ed evanescente. Caso particolare, tra le formazioni multiparola, è costituito dalle locuzioni idiomatiche, nelle quali la convenzionalità di forma e significato risulta più manifesta. È probabilmente questo il motivo per cui si registra un loro incremento nel processo di riscrittura del romanzo: esse rispondono all’intenzione di modulare il registro linguistico verso il basso, rendendo la lingua scritta letteraria più vicina alla colloquialità del parlato.

Allora lo studio della fraseologia dei Promessi sposi acquista il merito di portare alla luce il processo di redazione del romanzo e del lavoro di ricerca linguistica che lo sorregge, individuando proprio nell’impiego di determinate strutture multilessicali uno dei modi di perseguire la medietas del registro, costruita attraverso un lavoro di esplorazione che, partendo dalla consultazione di fonti scritte toscane, si è esteso all’interrogazione dell’oralità fiorentina ed è sfociato nella riflessione metalinguistica.

 

Nota bibliografica: 

  • Angiolini 1897: Francesco Angiolini, Vocabolario milanese-italiano coi segni per la pronuncia, preceduto da una breve grammatica del dialetto e seguito dal repertorio italiano-milanese, Torino, Paravia, 1897.
  • Arrighi 1898: Cletto Arrighi, Dizionario milanese-italiano col repertorio italiano- milanese, Milano, Hoepli, 1898.
  • Casadei 1996: Federica Casadei, Metafore ed espressioni idiomatiche: uno studio semantico sull’italiano, Roma, Bulzoni, 1996.
  • Casadei 2003: Federica Casadei, Lessico e semantica, Roma, Carocci, 2003.
  • Cavallini 1975: Giorgio Cavallini, Saggio di dizionario fraseologico manzoniano, Roma, Bulzoni, 1975.
  • Cherubini 1814: Francesco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Stamperia Reale, 1814.
  • Cherubini 1839-1843: Francesco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Imperial Regia Stamperia, 1839-1843.
  • Cianfaglioni 2006: Claudio Cianfaglioni, Vox populi vox Dei? Proverbi e locuzioni idiomatiche nei Promessi Sposi, San Martino delle Scale, Abadir, 2006.
  • Cini 2005: Monica Cini, Problemi di fraseologia dialettale, Roma, Bulzoni, 2005.
  • De Capitani 1842: Giovanni Battista De Capitani, Voci e maniere di dire più spesso mutate da Alessandro Manzoni nell’ultima ristampa de’ Promessi sposi, Milano, Tipografia e Libreria Pirotta e C., 1842.
  • De Mauro 1990: Tullio De Mauro, Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Bari, Laterza, 1990.
  • GDLI 1961-2002: Salvatore Battaglia (a cura), GDLI. Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, 1961-2002.
  • Giorgini-Broglio 1870-1897: Giovan Battista Giorgini, Emilio Broglio, Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, Firenze, Cellini, 1870-1897.
  • Ježek 2005: Elisabetta Ježek, Lessico: classi di parole, strutture, combinazioni, Bologna, Il Mulino, 2005.
  • Koesters-Berardini 2020: Sabine Koesters Gensini, Andrea Berardini (a cura), Si dice in molti modi. Fraseologia e traduzioni nel Visconte dimezzato di Italo Calvino, Roma, Sapienza Università, 2020.
  • Manzoni/Arieti 1986: Alessandro Manzoni, Tutte le lettere, vol. I, a cura di Cesare Arieti, Milano, Adelphi, 1986.
  • Manzoni/Colli-Italia-Raboni 2006: Alessandro Manzoni, Fermo e Lucia. Prima minuta (1821-1823), a cura di Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni, Milano, Casa del Manzoni, 2006.
  • Manzoni/Colli-Raboni 2012: Alessandro Manzoni, Gli Sposi Promessi. Seconda minuta (1823-1827), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, Milano, Casa del Manzoni, 2012.
  • Manzoni/Nigro 2002: Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi (1827), a cura di Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, 2002.
  • Manzoni/Nigro-Paccagnini 2002: Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi (1840) - Storia della colonna infame, a cura di Salvatore Silvano Nigro ed Ermanno Paccagnini, Milano, Mondadori, 2002.
  • Manzoni/Stella-Vitale 2000: Alessandro Manzoni, Scritti linguistici inediti, a cura di Angelo Stella e Maurizio Vitale, Milano, Casa del Manzoni, 2000.
  • Nencioni 1987: Giovanni Nencioni, Manzoni e il problema della lingua tra due centenari (1973-1985), in Manzoni. “L’eterno lavoro”. Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano, 6-9 novembre 1985), Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 1987, pp. 15-56.
  • Nuccorini 2007: Stefania Nuccorini, Italian phraseology, in Harald Burger et al. (a cura), Phraseologie / Phraseology. Ein internationales Handbuch zeitgenössischer Forschung / An International Handbook of Contemporary Research, Berlino, De Gruyter, 2007, pp. 691-703.
  • Pollidori Castellani 1987: Ornella Pollidori Castellani, Teoria e prassi tra le quinte dei «Promessi sposi», in Manzoni. “L’eterno lavoro”. Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano, 6-9 novembre 1985), Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 1987, pp. 373-402.
  • Quartu 1993: Monica Quartu, Dizionario dei modi di dire della lingua italiana, Milano, Rizzoli, 1993.
  • Renzi-Salvi-Cardinaletti 1988-1995: Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi, Anna Cardinaletti (a cura), Grande Grammatica di Consultazione, Bologna, Il Mulino, 1988-1995.
  • Rigutini-Fanfani 1875: Giuseppe Rigutini, Pietro Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata, Firenze, tipografia Cenniniana, 1875.
  • Rossi 2020: Micaela Rossi, FRASE(MI)OLOGI(SMI)(A)? Tra terminologie e concetti, in Iride Valenti (a cura), Lessicalizzazioni “complesse”. Ricerche e teoresi, Roma, Aracne, 2020, pp. 81-96.
  • Testa 1997: Enrico Testa, Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi, 1997.
  • TOMMASEO-BELLINI: Niccolò Tommaseo, Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, Torino, Dalla Società L’Unione Tipografico-Editrice, 1861-1874.
  • Vocabolario Treccani 2008: Il Vocabolario Treccani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2008.


Note: 

[1] Cfr. Testa 1997, pp. 3-17.
[2] D’ora in poi, si farà riferimento alle quattro ‘forme’ del romanzo attraverso l’utilizzo delle seguenti sigle: FL per Fermo e Lucia (Manzoni/Colli-Italia-Raboni 2006), SP per Gli Sposi Promessi (Manzoni/Colli-Raboni 2012), infine V (Ventisettana) e Q (Quarantana) per la prima e la seconda edizione a stampa, edite rispettivamente da Ferrario e da Guglielmini Redaelli (rispettivamente Manzoni/Nigro 2002 e Manzoni/Nigro-Paccagnini 2002).
[3] A proposito della molteplicità delle concezioni della fraseologia, e per una ricognizione degli studi, cfr. Cini 2005, pp. 27-58 e Nuccorini 2007.
[4] Cfr. Koesters-Berardini 2020, pp. 1-14.
[5] Cfr. Koesters-Berardini, pp. 1-14.
[6] Con non-composizionalità si fa riferimento al fatto che il significato dell’espressione si trova a essere svincolato dalla semantica dei suoi componenti. Cfr. Casadei 1996, pp. 3-14.
[7] Alcuni arcilessemi che indicano qualsiasi struttura compresa nella fraseologia sono: unità fraseologica, polirematica, lessema complesso, locuzione, lessicalizzazione complessa, fraseologismo, ecc. Per approfondire la questione terminologica nella denominazione delle formazioni fraseologiche, cfr. Rossi 2020, pp. 81-96.
[8] FL, p. 6.
[9] Cfr. Casadei 1996, p. 13.
[10] Cfr. Cianfaglioni 2006, pp. 95-127.
[11] Quartu 1993, s.v. manica.
[12] Invece entra direttamente in SP i, VI 5 venir più alle strette, stabilizzandosi fino a Q.
[13] Cfr. Renzi-Salvi-Cardinaletti 1988-1995, p. 225, t. III.
[14] Ježek 2005, p. 177.
[15] Vocabolario Treccani 2008 s.v. naso.
[16] Gdli 1961-2002 s.v. tasto “Locuz. - A, al tasto -. Procedendo tentoni, alla cieca, senza vedere, tastando con le mani e con i piedi”.
[17] Tommaseo-Bellini s.v. tentone o tentoni “Andar tentone, o a tentone, e vale Andare adagio e leggeri, quasi tastando co’ piedi il suolo, e facendosi la strada collo stendere le braccia innanzi; il che si fa per bujo, o per non essere sentito. Da Tentare”, Rigutini-Fanfani 1875 s.v. tentóne e tentóni “usato col verbo Andare, e vale Adagio e leggieri, quasi tastando co’ piedi il suolo e facendosi la strada collo stendere le braccia innanzi, il che si fa per buio, o per non esser sentito”, Giorgini-Broglio 1870-1897 s.v. tentone e tentoni “Usasi col verbo Andare, per Andare adagio, a tasto, quasi tentando il terreno, come si fa nel buio per non inciampare”.
[18] L’oscillazione è presente sia in Cherubini 1814 s.v. taston (a) “Tastone. Tastoni. A tastone. A tentone. Al tasto. Brancolando” e Cherubini 1839-1843 s.v. tastón (a) “A giudicio del tatto. Tastone. Tastoni. A tastone. A tentone. Al tasto. Brancolando”, che in Tommaseo-Bellini s.v. tastone e tastoni “Andar tastone, o a tastone, vale Andar brancolando, al tasto” e Giorgini-Broglio 1870-1897 s.v. tastone, o oni “lo stesso che A tasto. Andare, Camminare a tastoni; Andare barcollando. Andare a caso o a vanvera”.
[19] Cfr. la lettera a Rossari del giugno del 1825; in Manzoni/Arieti 1986, p. 380, n. 220.


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