Il contributo fa parte degli atti del convegno Giovanni Nencioni a dieci anni dalla scomparsa, svoltosi in Accademia l’11 settembre 2018 per ricordare il grande linguista e Presidente dell’Accademia della Crusca dal 1972 al 2000.
Ci sono saggi di Giovanni Nencioni (Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio 1946, Fra grammatica e retorica 1953, Conversioni dei “Promessi Sposi” 1956, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato 1976, Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici 1983, La lingua del Manzoni. Avviamento alle prose manzoniane 1993) che sono ormai dei “classici”, e che hanno segnato le tappe decisive della nostra formazione. Abbiamo contratto un debito enorme con questo studioso eminente che ci ha insegnato un mestiere, spinto a indagare sul presente e sul passato della nostra lingua materna, in pagine luminose, variamente mosse ora nel settore della terminologia tecnico-scientifica e del processo di tecnificazione del lessico italiano, ora nell’ambito all’italiano che nei secoli aveva ruotato intorno alla duplice vocazione sua per le “differenze” da un lato, per l’”unità” dall’altro, due anime congenite del resto, già nate al tempo di Dante; e poi le sue analisi sull’italiano lingua colta condizionata più di altre dal suo passato, lingua aristocratica scritta dai colti e parlata da pochissimi, che da ultimo si avviava, finalmente, a diventare lingua parlata da tutti gli italiani…
Tra queste mura va ricordato innanzitutto Nencioni presidente per lunghi anni dell’Accademia della Crusca, la sua consegna ai successori di insegnamenti duraturi, indelebili, anzitutto direi quel non delegare all’Accademia la funzione di autoritaria normatrice della lingua, ma l’assecondare un principio condiviso oggi dalla totalità dei linguisti, e che fu già di Manzoni, e poi di Ascoli e ancora dei nostri grandi maestri (Devoto, Terracini, Nencioni appunto), vale a dire che il potere discriminante e regolatore della lingua è soprattutto nelle mani di chi usa la lingua, il frutto consolidato dell’«energia operosa delle menti» come diceva l’Ascoli del Proemio.
Se sapessi tratteggiare ritratti a parole, mi piacerebbe anche esser capace di indugiare sull’indimenticabile carattere dell’uomo, eccezionalmente generoso: penso alla sua proverbiale disponibilità (nonostante la natura schiva) al servizio degli altri e delle istituzioni scientifiche. Chi lo ha frequentato è stato ogni volta sedotto dal suo garbo, dalla fede e dalla letizia per un comune lavoro, e oltre che dalla vasta dottrina, dal suo modo direi di suscitare entusiasmi e speranze, a beneficio in particolare dei più giovani che hanno avuto la fortuna di stargli accanto. Lo si cava del resto anche dai saggi suoi: non ce n’è uno che, oltre ai contributi scientifici, non abbia insieme additato vie nuove da percorrere. Ciò avveniva per la natura stessa degli interventi suoi, che non hanno mai fornito blocchi di un sapere conchiuso, ma additamenti di varchi, di aperture, di irraggiamenti di spunti. Il suo modo di lavorare, anche noi non diretti allievi, lo riconoscemmo subito congeniale. Per esempio, il mostrarci che di un testo occorre sempre reperire direzioni piuttosto che contorni fissi, rappresentarne la mobilità piuttosto che la rigidezza, coglierne la tensione, la vita dialettica (non è un caso che un suo autore prediletto, come ricorderò tra un momento, e su cui ha scritto cose mirabili, sia stato Pirandello).
Perché eleggemmo Nencioni a nostro maestro e gli siamo rimasti devoti, affezionati discepoli? Non solo per la varietà e qualità altissima della produzione scientifica, dicevo, che svaria dagli studi di orientalistica e di antichità classiche alla filosofia del linguaggio e alla storia della linguistica, non solo per la singolare sensibilità per gli aspetti teorici e metodologici della ricerca linguistica, ma soprattutto per la singolare capacità di interpretare i testi secondo un’analisi formale che restava in definitiva sostanzialmente autonoma, capace sempre di distanziarsi o meglio di distinguersi da quella, poniamo, del critico letterario, perché è analisi che non mira a scoprire direttamente, nel testo, la nuda individualità del soggetto che l’ha prodotto, ma punta, prima che sull’animo del poeta, sulla “struttura espressiva” dell’opera. Nencioni, tra le tante cose, credo ci abbia soprattutto insegnato a lavorare sui testi non solo con scrupolosa attenzione, ma in particolare a presentarli nella loro storicità e nel loro spessore totale. Io che mi sono formato alla scuola di Benvenuto Terracini come potevo non trovare immediatamente in Nencioni un secondo maestro, per quel suo spiccato interesse per gli aspetti (sintassi o lessico che fosse) che meglio di altri segnano la traccia dell’”atto linguistico”, considerato come atto agonistico, conflitto, atteggiamento verso il lettore, ricerca di una intesa, di una collaborazione, o di un distacco, di un contrasto, di cui il testo serba sempre traccia formale (permettetemi, a proposito di vicinanze, di divagare con un ricordo personale molto significativo, forse a voi ignoto, ma che sottolinea la vicinanza tra i due maestri. Quando Terracini stava per andare in pensione mi confidò un giorno un suo desiderio, quello di avere come successore Nencioni: partì col treno per Firenze per andarglielo a chiedere. Quando tornò ricordo che mi disse, col suo solito lucido candore: “Sono stato da Nencioni, ma quando ho visto la sua casa non ho più avuto il coraggio di chiedergli di venire a Torino!”).
Nencioni aveva lavorato tra Firenze e Pisa accanto a maestri d’eccezione, da Giacomo Devoto a Bruno Migliorini a Gianfranco Contini. Aveva con Migliorini cordiali rapporti e grande stima (rimando al necrologio che Nencioni tenne ai Lincei nel 1976, ristampato nei Saggi di lingua antica e moderna, 1989; alla Premessa all’Opera di Migliorini nel ricordo degli allievi, ristampata dalla Salibra nel volume delle Prefazioni disperse, 2011). Con Devoto condivideva la competenza e gli interessi strettamente glottologici, e le aperture alla linguistica moderna. Con Contini aveva in comune l’interesse primario per i testi letterari, ma sempre con lo sguardo più da storico della lingua che da filologo. Con a mente quelle di Contini, basti pensare alle pagine che Nencioni ha dedicato a Dante, tese a cogliere il miracolo della lingua poetica dantesca capace di intensa osmosi tra le città toscane, moderatamente aperta verso i loro dialetti così come verso gli elementi extratoscani, e aperta alla classicità, alla tradizione siciliana, alla lingua d’oc e d’oil, e capace così di raggiungere un assetto sovramunicipale e sovraregionale. Accanto al Dante della Commedia, sta il Manzoni dei Promessi sposi, le varie fasi della scrittura e la riflessione linguistica che le ha accompagnate, il rovesciamento manzoniano della secolare relazione tra la letteratura e la lingua, Manzoni prosatore che, per la prima volta, fa sì che anche in letteratura sia la lingua che comincia a dettar legge e non viceversa, come fino allora avveniva. A questa antologia ideale delle grandi pagine di Nencioni vanno aggiunte quelle sul Leopardi linguista dello Zibaldone, quando Nencioni sulla scia di Leopardi rimedita la categoria di “europeismo” emancipata dalla categoria “prestito”, e riporta l’”europeismo” nell’ambito di quelle parole-testimonio interidiomatiche, appartenenti a un interlessico intellettuale, i mots de civilisation, come li chiamava Meillet.
Infine, per citare anche una rarità, mi piace ricordare il Nencioni finissimo metricologo, quando si occupa del Giusti, e non tanto del suo toscaneggiare, ma della maestria del Giusti nel manovrare il metro breve, soprattutto in sede di rima, che diventava in lui ossessiva nel quinario, tant’è che il poeta cerca di alleggerirla infilandovi tutta quell’alternanza di uscite sdrucciole (pensate al Brindisi di Girella), salvo a intensificarla come rima baciata, secondo procedimento caratteristico dello stile burlesco.
Ma soprattutto non va dimenticato l’amore del toscano Nencioni per il Carducci toscano, il poeta che invece di inalvearsi inertemente in una tradizione aveva saputo compiere scelte magari oscillanti, ma originali sempre, nonostante quel difficile rapporto dialettico tipicamente ottocentesco tra la lingua del quotidiano e la lingua della tradizione: una lingua del quotidiano che faticava in quel secolo a penetrare nelle lettere, perché allora convivevano come due lingue, nettamente distinte, la prosastica e la poetica, ed esse non riuscivano quasi mai ad entrare in contatto: entro questa “lacerazione” formale, evidentissima in tanti poeti dell’Ottocento, entro questa difficoltà linguistica effettiva nel conciliare le forme vetuste con le moderne, nell’applicare cioè la lingua colta della nostra tradizione poetica a contenuti nuovi e attuali, ecco la peculiarità di Carducci che per vie autonome, eleganti, colte, riesce come nessun altro a rinverdire il mito dell’eccellenza linguistica toscana, ma lo fa scevro di fanatismo, contemperando stile classico e soavità toscana, conciliando arcaismo e popolarismo; Nencioni mostra come in Carducci le voci poetiche passino molto spesso nella categoria dei toscanismi popolari, con un effetto di ritorno, di riappropriazione per un lettore toscano, e di dialettizzazione per un lettore non toscano, fino a raggiungere un effetto anticlassico, e mai puristico, antiquario: una toscanità “di memoria” – dice Nencioni – avvivata con una toscanità “di presenza”.
Nencioni a Firenze, dicevo prima, nel contesto universitario fiorentino, fra eminenti individualità di linguistici e filologi. Tra di esse, Contini credo abbia avuto grande peso su di lui. Basterebbe rileggere il profilo che Nencioni ne ha tracciato (lo si veda nel libro Saggi e memorie, uscito in occasione dei suoi novant’anni), dove rileva a fondo l’autonomia del metodo continiano dalle estetiche, e dunque lo spostamento prodotto da Contini nella nostra cultura, quello spostamento dell’asse della storia e della critica letteraria dai contenuti psicologici o ideologici alla lingua: alla lingua “non solo testuata – dice Nencioni –, ma contestuata di tutta la sua memoria e di tutti i valori ad essa connessi”. Contini fu, in tempi diversi, presenza forse ipotizzabile negli interessi gaddiani di Devoto (che avrebbe voluto “smorzare, rassettare, condurre all’ovile lo scrittore più puntualmente violento e centrifugo che possa immaginarsi” scriveva Contini nel ‘43)1. Certamente fu il tramite per un Nencioni catturato da un “fabbro della parola”, da un “demiurgo della lingua” come Pizzuto2. Devoto e Nencioni: due studiosi dalla scrittura limpida e chiara attratti entrambi dai loro contrari (ma l’attrazione per il proprio contrario non è una novità: a Primo Levi, il miglior fabbro della scrittura limpida, piacevano molto gli scrittori diversi da lui, anche gli apparentemente oscuri, come Joyce, gli irregolari e gli ibridi, gli estremistici e i contaminati, da Rabelais, per “la virtù dell’eccesso”, a Belli, a Porta, a D’Arrigo, e le Macaroneae, o Moby Dick, e chi scriveva al modo di Queneau, “che è esattamente opposto al mio […] mi piacerebbe scrivere come lui se ne fossi capace»).
Tra gli scrittori, il più vicino comunque alla sensibilità linguistica di Nencioni restava quel Pirandello che aveva fatto affiorare dal testo l’eccezionale intuito linguistico del drammaturgo capace di sfruttare le risorse di ogni minima parte del discorso. Nencioni era interessato a questo parlato-scritto, alla lingua teatrale di un Pirandello che muove sì da parametri naturali, ma li supera in un modello di arte, con suggerimenti di recitazione non naturalistica. Il dialogo teatrale di Pirandello è sì un parlato, ma non un vero parlato. Il linguista Nencioni era attratto da un drammaturgo che aveva avuto come nessun altro acuta intuizione dei processi linguistici propri del parlato (il parlato-recitato, un naturale ma non di natura: un naturale di arte; le compatte architetture frasali, ma modulate, interrotte da una scansione melodica, da una segmentazione sintattica, lacerate quasi da fuochi enfatici e contrastivi, da strutture sintattiche magari ampie, ma sempre regolari, anche se così piene di scansioni, di variazioni tonali, con tutti quegli incisi, interiezioni, vocativi, gli elementi fatici che consentono l’impatto vivo, discorsivo, con gli ascoltatori, e che frantumano, ma solo apparentemente, il filo perfetto del discorso, cioè un pensiero che si snoda con forza e consequenziarietà, mentre al di sotto corre una partitura ritmica che lo frange con elementi del parlato.
Ogni lettura di Nencioni ancora oggi, alla distanza, ci lascia ammirati per finezza, eleganza, dottrina, attualità. Pagine freschissime, come se fossero di giornata. Così com’è fresco, indimenticabile, ancora, il suo ricordo.
Note:
1. L’analisi linguistica di Giacomo Devoto, in “Lettere d’oggi”, V, marzo-aprile 1943, pp. 77-91, poi in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 661-71.
2. Rimando alle lettere di Nencioni a Gualberto Alvino, raccolte nel volumetto di G. Alvino-L. Serianni. S. C. Sgroi- P. Trifone, Per Giovanni Nencioni, Milano, Fermenti editrice, 2017.
Christian Ferrari
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