“Non ti curar di loro, ma guarda e para”. Recitava così l’enorme striscione che nei giorni scorsi i tifosi laziali hanno esposto a sostegno del loro portiere, colpevole, a quanto pare, di un errore decisivo durante l’importante incontro precedente. La notizia, riportata dalle pagine sportive dei principali quotidiani nazionali e da qualche servizio televisivo, offre soltanto una delle innumerevoli testimonianze della vitalità di questa fortunata citazione pseudodantesca veicolate dalla nostra stampa o dalla rete. Al di là della benevola declinazione sportiva del nostro esempio (“ma guarda e para”) – cui si potrebbero peraltro affiancare decine di alternative più e meno scherzose circolanti in rete (“ma guarda e schiaccia”, “ma mangia e ingrassa”, “ma curati tu” ecc.) 1 –, il principale scarto rispetto al verso infernale si rileva, com’è noto, nella prima parte dell’endecasillabo: “Non ti curar di lor” (o “di loro”) anziché “Non ragioniam di lor” (Inf. III, 51).
La straordinaria diffusione di tale “alterazione popolare” – così è definita dal Vocabolario Treccani online – negli ultimi decenni è facilmente constatabile attraverso una ricerca negli archivi storici messi a disposizione da alcune testate giornalistiche, come quelli del "Corriere della Sera" o della "Repubblica"2. Significativo risulta, in particolare, l’impiego dell’espressione nel linguaggio dei politici, che senz’altro riflettono la generale tendenza al citazionismo (d’autorità riconosciuta o presunta) propria dei social attraverso i loro numerosi tweet e i messaggi disseminati dai canali ufficiali. Così, per esempio, la deputata Giorgia Meloni ha recentemente commentato un articolo del "Washington Post" pubblicato all’indomani dell’oro olimpico di Marcell Jacobs: “Dopo la schiacciante vittoria del nostro Jacobs alle Olimpiadi, qualcuno oltreoceano, a cui forse non è andato giù il record, lancia pesantissime insinuazioni per screditare l’atleta italiano più veloce del mondo. Non ti curar di loro, Marcell. L’Italia intera è fiera di te”3. A confermare con decisione l’affermazione della variante pseudodantesca giunge anche il motore di ricerca di Google, in grado di indicizzare e di richiamare in tempi irrisori una quantità pressoché sterminata di documenti: mentre la stringa “Non ragioniam di lor(o)” supera di poco la quota dei 30 mila risultati, infatti, “Non ti curar di lor(o)” sfiora addirittura i 70 mila.
Ciononostante, l’origine della variante appare tutt’altro che recente e, conseguentemente, non imputabile alle derive della burrascosa comunicazione web. Tracce cospicue della pseudocitazione si rilevano facilmente, infatti, anche nei testi a stampa più antichi. “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”, con tanto di riferimento esplicito al terzo canto dell’Inferno, si legge per esempio nel Quinto libro degli Elementi d’Euclide, ovvero Scienza universale delle proporzioni spiegata colla dottrina del Galileo, il trattato pubblicato a Firenze nel 1674 da Vincenzo Viviani, ultimo allievo dello scienziato pisano e, come quest’ultimo, accademico della Crusca. Nel terzo capitolo dell’opera l’autore si abbandona a una lunga digressione relativa all’avvio degli studi d’un giovane discepolo in cui si addensano numerose citazioni galileiane e scritturali, ma anche dantesche. Scrive Viviani:
Tacciansi fra tanto questi falsari della vera bontà, rebelli a Iddio, e nemici infestissimi degli amatori del vero e degli industriosi cultori delle matematiche discipline; e tu, studioso giovane, che intento sei ad erudirtene, Non ti curar di lor, ma guarda, e passa (Dante, Infer., Canto 3). Guardati, volli dirti, dal dar orecchio ad un’altra sorta di guastatori spropositati, e ignoranti, ma non men presuntuosi degli altri [...]4.
Un altro interessante esempio si rileva nei Viaggi di Russia di Francesco Algarotti (Parigi 1763), un racconto autobiografico delle proprie esplorazioni alla volta del Baltico presentato in forma di lettere: “Un mercante inglese [...], vedendomi fermare di tanto in tanto a contemplar questi soldati, mi disse, quasi come Virgilio a Dante: Non ti curar di loro, ma guarda, e passa; che a Petroburgo veduto ben avrei altra soldatesca” (Lettera II, 17 giugno 1739)5. Ci si potrà domandare – inevitabilmente, ma anche inutilmente – in quale lingua e con quali effettive parole il mercante inglese avrà richiamato il verso dantesco.
Fuor di dubbio è che, nei casi appena proposti – così come negli altri che affiorano via via, sempre più numerosi, nei secoli successivi – il valore originario dell’espressione infernale appare già nettamente diverso. Nel primo esempio, essa suggerisce un atteggiamento di distacco nei confronti di tutti i nemici della verità e dello studio, e dunque di superiorità rispetto alla meschinità dei possibili interlocutori di un giovane discepolo. In tal senso, il Non ti curar di Viviani appare senz’altro accostabile all’uso odierno, nel quale l’espressione incarna un sentimento d’indifferenza – di noncuranza, appunto – nei riguardi di una provocazione, di un’offesa o di un giudizio negativo ricevuti da un oppositore non meritevole d’alcuna considerazione. È insomma proprio il caso del povero portiere laziale, affettuosamente incitato dai tifosi a trascurare gli attacchi e a continuare con serenità il proprio lavoro. Diverso è invece l’uso nel racconto del letterato veneziano, nel quale la pseudocitazione non veicola affatto, da parte di chi la formula, un giudizio di severo disprezzo successivo a un attacco denigratorio: i soldati che sfilano davanti agli interlocutori sono semplicemente “insignificanti” rispetto a quelli che il viaggiatore avrebbe presto ammirato nella capitale imperiale.
In ogni caso, seppur con modalità e intensità differenti, non si potrà non ammettere che l’espressione dantesca abbia subìto nel tempo un generale depotenziamento della carica semantica originaria. Tale destino accomuna del resto molte altre locuzioni e persino singoli vocaboli che, divenuti memorabili grazie alla straordinaria popolarità del poema (e della prima cantica in particolare), hanno poi intrapreso percorsi indipendenti, radicandosi in modi nuovi nella storia della nostra lingua6. Basti pensare, per restare nel canto III dell’Inferno, alle formule “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (v. 9) o “sanza ’nfamia e sanza lodo” (v. 36): entrambe sono divenute proverbiali adattandosi ai contesti più diversi – dai più dolorosi fino ai più goliardici –, a inevitabile detrimento del senso primitivo. Proviamo dunque a recuperare quest’ultimo almeno per l’espressione in esame, rileggendo le terzine coinvolte.
Varcata la soglia del mondo infernale, si dischiude davanti agli occhi (e alle orecchie) di Dante tutta la drammatica realtà di questo luogo senza tempo e senza speranza: attorno a sé e alla sua guida non c’è che un abisso di dolore, orrore e grida. Le prime “anime triste” (v. 35) in cui i due s’imbattono, prima ancora di attraversare l’Acheronte, sono quelle “di coloro / che visser sanza ’nfamia e sanza lodo” (vv. 35-36), cioè gli ignavi, i pusillanimi:
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
(Inf. III, vv. 46-51)7
Il disprezzo di Dante per quest’ordine di peccatori, qui affidato alle parole di Virgilio, è evidente: i pusillanimi non presero nella loro vita alcuna posizione, né verso il bene né verso il male, rinunciando così totalmente all’esercizio del libero arbitrio, ossia della ragione – ciò che rende l’uomo tale –, e dunque “mai non fur vivi” (v. 64). Così, del resto, aveva scritto nel Convivio: “Onde, quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte” (ivi, II, VII, 3)8. E chi non pensa, non sceglie e non agisce; in definitiva: “non vive uomo, ma vive bestia” (ibid.). La viltà degli ignavi li rende infatti indegni persino dell’Inferno e, proprio come bestie, costoro corrono tormentati da sciami di vespe e di mosconi dietro a un’insignificante bandiera. Il contrappasso non potrebbe essere più limpido: chi in vita non ha voluto seguire alcun vessillo, nel bene e nel male, è qui costretto ad affannarsi senza sosta dietro a un simbolo vuoto. Dante personaggio non ha per tali anime alcun sentimento di commozione o di solidarietà, che pure dimostra dinanzi a dannati macchiatisi di peccati ben più gravi. Dietro il suo alto disdegno c’è tutta la severa condanna morale di Dante cittadino e uomo politico, il quale aveva messo tutto sé stesso al servizio della comunità fiorentina del tempo, rivestendo al suo interno anche posizioni di grande responsabilità. E ne aveva anche subìto le conseguenze, pesantissime per la sua persona e per la sua famiglia. Mai, tuttavia, aveva per questo rinnegato quegl’ideali per i quali si era orgogliosamente battuto. “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa” è dunque la sentenza finale che chiude, come un pesante macigno, ogni possibilità di dialogo (e di comprensione) su un’intera categoria umana. Bruscamente terminata la breve presentazione di Virgilio, Dante personaggio continua a osservare “questi sciaurati” (v. 64) in silenzio, arrivando a riconoscere tra costoro persino l’anima di “colui / che fece per viltade il gran rifiuto” (vv. 59-60).
Nel verso dantesco, insomma, vibrano contenuti forti, densi di implicazioni morali e, se si vuole, di riferimenti alle proprie vicende personali: un’energia semantica che finisce inevitabilmente col disperdersi nelle sue riproposizioni proverbiali. Restiamo tuttavia ancora sul testo infernale per esaminarne la situazione su un piano ora strettamente filologico. Anzitutto, sarà bene precisare che accolgono coralmente la lezione “Non ragioniam” le edizioni critiche disponibili del poema, a partire da quella di Giorgio Petrocchi9, che offre il testo di riferimento per le principali edizioni scolastiche e divulgative, nonché per i numerosi progetti danteschi digitali accessibili in rete (come il Vocabolario Dantesco, sviluppato dall’Accademia della Crusca e dall’Istituto CNR - Opera del Vocabolario Italiano, e consultabile all’indirizzo www.vocabolariodantesco.it). Al testo Petrocchi si allineano anche quelli messi a punto da Antonio Lanza o da Federico Sanguineti, fino alla recentissima edizione critica di Giorgio Inglese, pubblicata a cura della Società Dantesca Italiana10. Una simile uniformità riflette del resto il quadro della tradizione manoscritta, che non registra, per il verso di nostro interesse, delle varianti testuali significative. Nei codici trecenteschi non c’è traccia del verbo curare; gli apparati critici delle edizioni ricordate segnalano al più la lezione ragionar, recata dai manoscritti siglati Ash, Laur (raionar), Mad, Pa (raggionare), Rb. Quest’ultima, che adegua la persona del primo verbo a quella dei successivi (guarda, passa), appare tuttavia una lectio facilior, ossia una banalizzazione, che appiattisce la variazione “noi” / “tu” della prima soluzione, che resta peraltro prevalente negli altri codici di riferimento. In ogni caso, come nota Giorgio Petrocchi, la lezione ragioniam risulta senza dubbio preferibile, “posto com’è il luogo al termine di un dialogo, e poiché Virgilio vuole per l’appunto evitare che di queste anime Dante debba chiedere ed entrambi debbano ancora discutere”11.
La prima persona plurale è predominante anche fra gli antichi esegeti del poema; così, per esempio, commenta il passo Boccaccio:
Non ragioniam di lor: quasi voglia dire che il ragionar di così fatta spezie di genti è un perder di tempo; ma guarda, se t’agrada di vedere la lor pena, e, guardando, passa, e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede Virgilio non in contentamento dell’autore, ma in dispetto de’ riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da alcuno veduta o conosciuta. (Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, ad locum)12
È altresì vero che, nelle glosse dei commentatori trecenteschi come in quelle dei successivi, appare frequente e naturale il richiamo al verbo curare: non sono infatti soltanto Dante e la sua guida a non doversi occupare di tali miserissimi dannati, ma anche e soprattutto la misericordia e la giustizia divine, che per prime li hanno a disdegno (v. 50). Si legga, a tal proposito, il commento di Francesco da Buti (1385-1394):
Che la misericordia e la giustizia li sdegna; cioè li ànno a vile e non li degnano di sé; cioè che poco si curano di loro, sì come appare nella misericordia che al tutto li lascia sì, come coloro ne’ quali non si trova nessuno bene, e la giustizia poco si cura di loro in quanto li punisce leggiermente; cioè nell’entrata dell’inferno, e non li pone sotto certa regola di giustizia, se non sotto l’universale dannazione in quanto li pone nell’inferno [...]. (Francesco da Buti, Commento all’Inferno, ad locum)13
E, dunque, anche “li uomini misericordiosi non reputano questi così fatti degni di misericordia, né li giusti li sanno condannare, ma passanli come cosa vile da non curarsene [...]” (ibid.).
Attingendo alla terminologia propria dei filologi, potremmo allora forse ammettere che l’impiego del verbo curare sia, in questo passo, una sorta di “errore poligenetico”: un’alternativa lessicale, insomma, verso la quale c’induce lo stesso contesto. A ciò si dovrà poi aggiungere quella spinta, evidente già nella prima tradizione manoscritta, al passaggio dal “noi” al “tu” – Non ragioniam > Non ragionar – che, quando si ricorre a curar, appare rimarcata dal pronome ti (del resto imprescindibile anche per ripristinare la misura dell’endecasillabo). A differenza del “noi”, il “tu” implica inevitabilmente un orientamento diverso dell’intera frase, che riceve così un indirizzo più diretto verso il suo destinatario: la sentenza virgiliana acquista i toni di un ammonimento al discepolo, raggiungendo quella dimensione didattica che ben si sposa con l’uso proverbiale. Il cambio di persona, insomma, genera un nuovo equilibrio all’interno dell’espressione: l’enfasi sul “tu” accentra l’attenzione sul destinatario, sottraendo ulteriore rilievo a “loro” – i pusillanimi, ma anche i provocatori, i calunniatori d’ogni sorta –, che ne risultano ancor di più schiacciati sullo sfondo, pronti a essere dimenticati.
Quel che è certo è che, in questa forma alternativa più diretta e “didattica”, l’espressione dantesca ha avuto una fortuna straordinaria, e più significativa di quella, pur notevole, ottenuta dalla versione originaria. La vicenda di questo verso – condivisa, come già visto, anche da altre locuzioni o da singoli vocaboli che circolano semplificati, adattati nella forma e nel significato – offre indubbiamente una delle prove più perspicue della forza d’urto della poesia dantesca sulla storia della nostra lingua: una forza che si è propagata non soltanto attraverso i canali tradizionali della cultura letteraria, ma anche, e soprattutto, attraverso quelli del sapere popolare, collettivo, condiviso. Una forza che appare ancor oggi, a sette secoli di distanza, d’immutata intensità. La familiarità, talora inconsapevole, che la nostra lingua ha avuto e ha ancora con quella della Commedia ha fatto sì che fra le due si instaurasse silenziosamente uno scambio continuo e del tutto naturale. Così, indebolita o dimenticata l’identità autoriale, le parole dantesche si sono reimmesse nella nostro codice linguistico liberamente, senza però più alcun “blasone di nobiltà”14, riadattandosi plasticamente a contesti sempre nuovi in virtù dell’universalità del loro messaggio. E questo, credo, possa considerarsi il riconoscimento più eloquente della grandezza di un poeta e della potenza della sua poesia.
Note:
1. Cfr. anche Aresti 2021.
2. Cfr. rispettivamente http://archivio.corriere.it e https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio [ultima consultazione: settembre 2021].
3. Giorgia Meloni, pagina ufficiale Facebook, 2 agosto 2021.
4. Viviani 1674, p. 95.
5. Algarotti 1763, p. 33.
6. Cfr. almeno Serianni 2013; Manni 2021, pp. 89-114.
7. Il testo della Commedia si cita secondo l’ed. Petrocchi 1994.
8. Si cita dall’ed. Brambilla Ageno 1995, p. 98.
9. Cfr. Petrocchi 1994.
10. Cfr. rispettivamente Lanza 1996, Sanguineti 2001, Inglese 2021.
11. Petrocchi 1994, vol. I, p. 169.
12. Si cita dall’ed. Branca 1965, p. 148.
13. Si cita dall’ed. Giannini 1858-1862, vol. I, p. 91 (corsivo mio).
14. Serianni 2013, p. 292.
Nota bibliografica:
Christian Ferrari
Maurizio Landini
Dario Missaglia
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