Presentazione:
Alla vigilia dell’anno in cui ricorre il centocinquantenario della morte di Manzoni si è tenuto a Parma (in data 7 dicembre 2022), nell’ambito delle attività della scuola di Dottorato di ricerca in Scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche e artistiche, una giornata di studio dal titolo La lingua dei «Promessi sposi»: lavori in corso. Era l’occasione per mettere a confronto ricerche linguistiche condotte su fronti diversi, e con differenti metodologie, da giovani impegnati nella tesi di dottorato, o da poco dottori, nella convinzione che il confronto potesse rappresentare, specie negli anni fecondi della formazione, un lievito prezioso di riflessioni. I saggi qui raccolti sono excerpta di lavori in corso di più ampio respiro: li offriamo ad Angelo Stella, che aveva incoraggiato l’iniziativa e attendeva di valutarne i risultati, in memoria di riconoscenza e di affetto, con l’auspicio che l’anniversario manzoniano, giunto ormai al termine, possa promuovere una nuova leva di valenti studiosi.
Abstract:
Tre minuti restauri linguistici offrono l’occasione per verificare, da un lato, la rinuncia progressiva di Manzoni a ogni possibile ‘color locale’ lombardo, dall’altro, l’affinarsi di una ricerca documentaria che, permeando sempre più sottilmente il dettato del romanzo, porta al convincimento ultimo di un divorzio ineluttabile tra storia e invenzione. Sullo sfondo stanno i libri di un Seicento remoto e oscuro, se non addirittura ‘maledetto’ e da dimenticare.
Le ricerche documentarie, lo scrupolo di verità che guidano le ricerche storiche manzoniane hanno lasciato traccia profonda nella lingua del romanzo: sedimenti che non si scorgono a prima vista, e portano con sé il colore del tempo, il peso della storia.
L’inchiesta su messere[1], di cui diamo conto, nasce a margine di una più ampia ricognizione sulle allocuzioni dei Promessi sposi intrapresa in occasione di un convegno ASLI a questo tema in generale (Martinelli 2020). Ricorre tre volte nella Quarantana (capp. I 37; XXV 34; XXIX 8-9), due sole nella Ventisettana (dove manca la prima occorrenza). La seconda occorrenza (la sola presente negli Sposi promessi) è la meno esplicita: si tratta di mera supposizione del cappellano crocifero timoroso che qualche fedele potesse rivolgersi al Cardinale con il titolo di “messere”:
Era per il pover’uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che regnava intorno al cardinale, su quel particolare: “tutto,” diceva con gli altri della famiglia, “per la troppa bontà di quel benedett’uomo; per quella gran famigliarità.” E raccontava d’aver perfino sentito più d’una volta co’ suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no. (XXV 34)
Manzoni, a questa altezza, nel bel mezzo del suo lavoro, doveva aver messo a fuoco la valenza ‘bassa’ dell’allocuzione, riservata evidentemente solo alle gerarchie inferiori della chiesa: l’apostrofe che la povera gente era solita rivolgere al proprio parroco. Importante la prima attestazione (nel primo capitolo), che interviene solo in Quarantana. Ma l’esemplare postillato della Ventisettana, conservato a Brera, nel Fondo manzoniano (quello inviato poi in tipografia al momento di comporre il testo dell’edizione definitiva),[2] reca un’importante annotazione, direi indispensabile per comprendere il peso specifico dell’allocutivo (e dirò subito che la testimonianza non è sfuggita a Teresa Poggi Salani, curatrice dell’ultimo grande commento). Si tratta di una prima ipotesi di correzione (che va a sostituire: «“Signor curato”, disse uno di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia»). Ecco l’intervento e il commento metalinguistico che lo accompagna:
Un di coloro, piantandogli gli occhi in viso, lo abbordò con un “messere!”: titolo che ancor s’usava in contado dove tanti vocaboli vanno a passare i loro ultimi giorni; ed era proprio spezialmente de’ parochi.
Manzoni torna poi alla lezione base: “Signor curato […]”, ma recupera messere in clausola (e lo inserisce appunto nell’esemplare postillato, dopo aver espunto l’aggiunta che si è vista: le varianti sono evidentemente implicate): “Benissimo, e buona notte, messere” (così leggiamo nella Quarantana). L’allocuzione più perentoria e più formale (signor curato) resta nell’esordio (si noti che è priva di quelle formule di riguardo o deferenza che si devono a uomo di chiesa, come ad esempio reverendo), mentre la nota di ‘color locale’ va alla fine, quando il mandato intimidatorio è espletato.
Di sicuro la postilla sopravviene dopo che il foglio è stato tirato, e la correzione non poteva essere introdotta (dunque terminus post quem è l’agosto 1824, quando prende avvio la stampa)[3]: era invece possibile inserirla nella revisione del cap. XXIX dove l’allocuzione poteva giocare la sua funzione di ‘riguardo’ nella sommessa risposta dei poveri fuggiaschi ai lamenti di Don Abbondio (“Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? oh che gente! oh che gente!”). Carichi di masserizie, oppressi dalla preoccupazione, dall’incertezza del futuro, così rispondono al loro parroco: “eh messere! faccia anche lei come può; fortunato lei che non ha da pensare alla famiglia; s’aiuti, s’ingegni” (XXIX 8-9).
Forse proprio il cenno, contenuto nel cap. XXV, alla paura del cappellano nei confronti dei paesani, che avrebbero potuto rispondere al Vescovo con un “messer sì, e messer no”, poteva innescare una riflessione su quell’allocuzione rustica, e richiamare alla memoria l’incontro di don Abbondio con i bravi: di qui la postilla, depositata nella Ventisettana di lavoro.
Sorprende comunque l’acutezza dell’individuazione linguistica manzoniana. Quel cenno poi: “ancor s’usava”, sembra potersi riferire ad attestazione non remota; forse addirittura legata all’esperienza diretta di chi poteva avere udito quel titolo con le proprie orecchie, e conservarne memoria. L’allocuzione messere non sembra possedere peraltro una marca diatopica: non abbiamo evidenza, nel romanzo, di qualche attenzione per tratti laterali, diciamo comasco-lecchesi (quantunque Manzoni mostri di essere acuto osservatore anche di questi aspetti: troviamo interessanti osservazioni in proposito nelle postille coeve, segnatamente in Plauto)[4].
Resta poi il fatto che di messere, in questo specifico impiego, non abbiamo quasi riscontri. Nessun elemento utile poteva derivare a Manzoni dalla compulsazione della Crusca veronese: abbiamo attestazioni antiche di messere in riferimento ai giudici e, in genere, a personaggi d’alto lignaggio (cavalieri, notai; nelle Novelle antiche si accoppia all’imperiale dignità di Federigo); si applica anche a Dio (così nel GDLI), ai santi (uso, questo, segnalato come più spiccatamente arcaico nel Tommaseo-Bellini). Ma per prete troviamo una sola occorrenza nel GDLI, nelle Novelle del Sacchetti: testo presente ovviamente nella biblioteca di Brusuglio nella fondamentale collana dei Classici italiani, ampiamente letta e postillata[5]. Probabile che, compulsando il testo trecentesco, Manzoni fosse colpito da quella singolare tangenza con un uso locale depositato forse nella memoria, o incontrato nelle tante letture storiche che accompagnano pressoché ininterrottamente la composizione del romanzo. Il lettore dei Promessi sposi avrebbe certamente colto il carattere desueto dell’allocuzione: e qualcuno, legato a quelle terre, vi avrebbe potuto riconoscere la traccia delle antiche consuetudini delle genti del lago. Per un momento Manzoni pensa di dichiararne la cifra distintiva con una glossa metalinguistica estesa (come talora accade anche altrove, sia pure raramente, e mai a carico di aree laterali, per le quali Manzoni mostra peraltro di nutrire, come s’è detto, una speciale attenzione): si era accertato del fatto che, ai suoi tempi, la consuetudine era dismessa (si noti l’imperfetto: “titolo che ancor s’usava in contado”); ma poi rinuncia. L’asse diatopico del romanzo punta decisamente, già nella revisione di Seconda minuta, in direzione toscana (il toscano letterario della Crusca veronese, con opportuna “foderatura” di tutti i lombardismi, e messa in rilievo, mediante corsivo, dei pochi tratti conservati, e talora commentati in chiave storico-culturale: vedi Antonelli 2008). In quella nota a margine della prima edizione, relativa appunto a messere, non sentiamo l’incanto che ispirano simili accertamenti in un Tommaseo, poniamo, ammirato raccoglitore di canti e di voci antiche[6]: solo la tristezza dell’ineluttabile declino ed estinzione (“titolo che ancor s’usava in contado dove tanti vocaboli vanno a passare i loro ultimi giorni”).
Singolare, e linguisticamente molto marcata, l’allocuzione misteriosa di cui è oggetto Gertrude dopo l’istanza di ingresso in convento è stata accolta. Sposina è il titolo che le si tributa, con allusione alla sua prossima condizione di sponsa Christi:
La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti (X 14)
Da notare la ripetizione (“La sposina… la sposina…”), che sembra restituire l’eco del saluto unanime. L’allocuzione si nasconde tra le pieghe del racconto: ma il Manzoni ce la vuol proprio fare sentire (“fu da tutti salutata con quel nome”), lasciando intuire la dolorosa risonanza che poteva avere sull’animo della giovane.
Sono d’accordo con l’individuazione in qualche misura sconcertante di Teresa Poggi Salani [7]. La studiosa, che ci ha dato l’ultimo e maggiore commento del romanzo, ed anche il più attento al suo spessore linguistico, prende atto del fatto che non si hanno riscontri dell’epiteto all’infuori dell’impiego manzoniano (la segnalazione presente nel vocabolario del Petrocchi non sarebbe altro che una annotazione ‘riflessa’ assai fuorviante, poiché accredita un uso inesistente):
del senso che qui di séguito viene spiegato, e che compare già in FL, non si conoscono attestazioni al di fuori di quelle delle diverse redazioni manzoniane del romanzo (e probabilmente proprio all’uso di M. si deve la registrazione di PETROCCHI, Diz. “Titolo di giovane monacanda”).
L’ipotesi, certamente affascinante, non convince. Quanto si è detto circa la strategia manzoniana al riguardo, sempre fondata su una accurata indagine storica, induce a credere che non sia così. Quel coro festoso deve avere riscontro in notizie, in fonti, in documenti quali che siano. Occorrerà indagare in quella ideale biblioteca secentesca cui Manzoni attinge continuamente notizie utili a fondare su solide basi storiche il suo romanzo. Non certo quella di don Ferrante, ma magari in quella di Federigo, esplorata, com’è noto, per esteso:
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest’uomo abbia lasciato qualche monumento. Se n’ha lasciati! Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana, di letteratura, d’arti e d’altro. (XXII 45)
A una prima ispezione balza subito all’occhio la vita di suor Caterina Vannini, cui Federigo aveva dedicato una biografia:
Vita della Ven. Serva di Dio Suor Caterina Vannini sanese Monaca convertita compilata dal Cardinale Federico Borromeo Del Tit. di S. Maria degli Angeli, & Arciuescouo di Milano, E dal suo Originale fedelmente ricauata, e dedicata all’Altezza Reale di Cosimo Terzo Gran Duca di Toscana Dalle Monache Conuertite di Siena. In Roma, Per gli Eredi dei Corbelletti 1699. Con licenza de’ superiori.
L’attenta ricognizione dell’opera non ha dato i frutti sperati: ma una ricerca allargata ad altri scritti agiografici secenteschi ha portato a un riscontro utile. Si tratta della biografia di suor Veronica Giuliani (considerata una delle più importanti contemplative del mondo occidentale)[8], di cui Manzoni poteva avere facile notizia per la fama ininterrotta della religiosa durata sino ai giorni suoi. Il testo più significativo è il seguente:
Virtù e grazie della ven. serva di Dio Suor Veronica Giuliani da Mercatello Cappuccina in Città di Castello esposte già alla piissima donna Maria Clementina sposa di Giacomo Stuardo ed ora all’immortal memoria della medesima consecrate dall’obbligatissimo cliente suo cav. Canonico Antonio Francesco Giovagnoli. In Firenze, MDCCLXXVII. Nella Stamperia di Francesco Moücke Con Licenza de’ Superiori. Si vende da Antonio Buonaiuti al prezzo di Paoli 5.
La biografia in questione rientra nella trattatistica di genere, e segue, fin dalla prima infanzia, i segni di una vocazione sempre più manifesta e di una precoce santità: ma è la cronaca dell’ingresso in monastero a riservare i riscontri desiderati. Ecco quanto vi si legge:
Cadde questa accettazione nel dì consacrato agli onori del gran Romano S. Alessio 17. di Luglio 1677., e nel tempo che dalle Monache in Capitolo concludevasi questa accettazione, stavano nella vicina lor Chiesa orando ambedue le pretendenti, ma orava l’una da fervente, da estatica l’altra; poiché in estasi da Gesù fu allor rapita Orsola, e l’estasi scuoprissi così. Terminato concordemente il Capitolo, fecer segno le Monache di aspettare a quell’aperto sportellino di Chiesa le nuove Sposine: mossesi a quel segno la paesana, e appressatasi ad Orsola, Chiamolla; ma vedendo che ella non dava retta, si appose di aver di lei trasentito, e riposesi in orazione. A meglio chiamarle spedirono le taciturne monache una delle converse estranee, ma per quanto questa, e la paesana si aiutassero a scuoter Orsola, essa ed insensata parea, e restavasi immota. Riscossesi finalmente, e con brava dissimulazione complimentò le Monache, prese dalle lor mani il cordone di Sposa Cappuccina, e stabilissi, che la vestizione si eseguisse nel prossimo Ottobre.
Se Manzoni, per descrivere nei dettagli le vicende della Signora, volle al solito documentarsi minutamente, un testo come questo poteva facilmente offrirsi alla sua attenzione, trattando, per di più, vicende non troppo remote rispetto agli eventi narrati nei Promessi sposi (di una cinquantina d’anni antecedenti). Significativo poi il fatto ch’egli si sia accertato del cessato impiego del diminutivo (“così si chiamavan le giovani monacande”), e ne abbia questa volta (a differenza di quanto accaduto per messere) evidenziato l’uso antico. Non è certamente escluso che in altre fonti potesse trovare testimonianza di questo impiego del diminutivo attribuito alle giovani converse nel lasso di tempo che intercorreva tra l’accettazione dell’istanza e la vestizione. Di quell’appellativo, speciale quanto effimero, Manzoni sa cogliere tutta la suggestione, e ne ricava una tessera capace di contrassegnare la vicenda di Gertrude nel momento in cui affronta la prova più dura, l’ingresso in convento: con quel marchio addosso, che le ricorda a ogni tratto un destino negato.
Una terza voce su cui ci soffermiamo ci porta dentro le mura domestiche di don Ferrante. L’opuscolo che la documenta era di certo tra quelli destinati giustamente, per Manzoni, a sparire per sempre nel buio della dimenticanza. Morto il suo proprietario, che di quei volumi era non solo il possessore, ma il fruitore ideale, la raccolta andò tutta “dispersa sui muriccioli”, si premura di avvertirci l’autore. Don Ferrante fa, in buona sostanza, quasi tutt’uno con la sua biblioteca; non sorprende che, estinto l’uno, anche l’altra abbia i giorni contati. Non poteva di certo reggere il confronto con la ben diversa biblioteca che aveva eretto, nella sua stessa città, il grande Federigo: su di essa sarebbe stata fondata la cultura del futuro. Ma è anche la biblioteca nella quale Manzoni, storico del Seicento, dovette addentrarsi per comprendere, diremo con Gadda, “il disegno segreto di quel secolo”, e riconoscervi le sue “tragiche e livide luci” (Gadda 1991, p. 679).
I libri di Don Ferrante sono gli stessi che l’autore aveva letto e studiato per scrivere il suo romanzo: opere per lo più minori, e sconosciute. Basterà ricordare i Discorsi cavallereschi del Birago, da cui viene fedelmente tratta la questione dell’ambasciatore sgradito cui era legittimo, se non doveroso, assestare una buona dose di bastonate[9]. In quella biblioteca non sarebbe di certo potuto mancare Francesco Pona, nobile esemplare dell’eclettica, così spesso, cultura secentesca: autore di tante opere in prosa e in versi, e di una cronaca della peste (Il gran contagio di Verona, 1631) che molto verosimilmente Manzoni conobbe. È lui l’autore di un opuscolo, La remora, che ben poteva convenire alla cultura pseudoscientifica di don Ferrante. Ecco il frontespizio:
La remora | ouero | de’ mezi naturali, | Per curare, e fermare la Pestilenza. | Breve trattato. | Di Francesco Pona | Filosofo, Medico. | All’Illustr.mo et Eccell.mo Sig. | Alloise Vallaresso | Cau. Prou. Per la Sereniss. Rep. Veneta, | Sopra la Sanità in Terra Ferma | di qua dal Menzo. | In Verona, | Appresso Bartolomeo Merlo. 1630 | Con licenza de’ Superiori. [10]
L’operetta fu ristampata a Verona, presso gli stessi Fratelli Merli, nel 1727, il che rende più probabile che Manzoni non solo possa averne avuta notizia, ma anche possa averla consultata. Non figura tuttavia tra i suoi libri, e non se ne rintracciano esemplari nelle biblioteche Braidense (allora Gabinetto Numismatico) e Ambrosiana: ma è noto che anche ad altre riserve l’infaticabile ricercatore poteva attingere (collezioni e biblioteche private). Si tratta di un libricino in sedicesimo, di poche pagine (110 pp. più Tavola finale), che affronta con pretese scientifiche, nella forma di breve risposte ai più ovvii quesiti, il tema del contagio[11].
La remora (non il libro, ma il singolare esemplare ittiologico) fa bella mostra di sé tra le meraviglie dello scaffale riservato alle scienze naturali:
Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno, a qualche altr’opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il camaleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura. (XXVII 49)
La pretesa scientificità del trattatello cozza con il pregiudizio di cui la specie in questione si fa interprete. Il titolo stesso finisce per essere emblematico di un’impresa impossibile: come favoloso è quel pesciolino dal nome parlante, ‘che indugia’ (remoratus), anzi, riesce a fare indugiare, a fermare, le navi. Una specie che, fin dal nome, sembra appartenere al mondo non della fauna vivente sulla madre terra, ma di quella che abita nelle umane fantasie: fantasie che lavorano intorno alle parole, e cui le parole sembrano dare apparenza di vita.
Tra le sirene, la fenice, la salamandra che precedono, e il camaleonte che segue, la remora si distingue per essere di certo il campione più bizzarro: non appartenente a specie note, e neppure alle favole antiche, ma alle deliranti fantasie umane. L’ironia sembra concentrarsi tutta sul dimostrativo (“quel pesciolino”): uso enfatico, a dire ‘quel famoso’, ‘quel celebre’.
Le alchimie della rete concedono una seconda vita a creature cui Manzoni aveva officiato esequie perpetue, e predetto l’enfer dei “muriccioli”, certo che anche solo la sua rarità ne avrebbe comportato la sparizione, e una più che meritata damnatio memoriae. I riti esoterici delle biblioteche virtuali le hanno richiamate in vita per quanti amano rintracciare i solidi fondamenti dell’erudizione manzoniana fin nelle pieghe riposte della pubblicistica più effimera di un secolo, diciamo pure delle sue più cupe zone d’ombra.
Nota bibliografica
Note:
[1] “Uno de’ titoli di maggioranza che oggi si dà ai dottori di legge, e segnatam. Ai notai. Dicesi anche altrui per atto di riverenza (Fanf)”: così in TB (e così analogamente Petrocchi, Novo dizionario, e GDLI).
[2] L’esemplare, segnato Manz. XII. 102-104, è ora consultabile nel portale Manzoni Online (https://www.alessandromanzoni.org).
[3] Rinvio alla Cronologia dell’edizione critica da me curata.
[4] Vedi Postille a Plauto pubblicate da Bassi 1932, ora consultabili in Manzoni Online: https://www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/10427.
[5] Il volume è conservato nella biblioteca di Villa Manzoni a Brusuglio; rinvio al sito di Manzoni online: https://www.alessandromanzoni.org/biblioteca/esemplari/10532.
[6] Esemplari da questo punto di vista le annotazioni ai Canti popolari toscani (primo tomo della grande raccolta pubblicata a Venezia, Tasso, 1841-1842); e più ancora le traduzioni dei Canti greci, dove si fa spesso ricorso a voci arcaiche ancora attestate in aree toscane periferiche (si veda ora Tommaseo 2017).
[7] Vedi il commento ad locum, p. 295.
[8] La fortuna della santa è stata notevole e ininterrotta, dalla morte sino al Novecento (dove ha avuto eco significativa la pubblicazione dei suoi Diari) e ancora oggi in ambito religioso. Ricordiamo una biografia di Francesco Strozzi [1763], una di Giovanni Giacomo Romano [1776], una di Filippo Maria Salvadori in forma di Compendio [1804], oltre a quella di Giovagnoli, di cui ci occupiamo qui in particolare.
[9] Il volume è custodito a Casa Manzoni (rinviamo al sito Manzoni Online); si veda il commento di Poggi Salani ad locum (p. 144).
[10] L’opera, che non risulta reperibile in biblioteche milanesi, è posseduta dalla Bibliotheca regia monacensis, ed è visibile in Google Libri.
[11] Eccone alcuni, a titolo esemplificativo: “Che cosa sia la Peste, e come passi da un corpo all’altro” (quesito I); “Che cosa sia il vapore pestilente” (quesito II); “Se il presente contagio sia vera Peste” (quesito III); “Quai segni in spetie accompagnino il presente Contagio” (quesito IV); “De’ segni più particolari, e più desiderabili della peste” (quesito V); “Con quai mezzi principalmente si debba curare la Peste, e fermare i progressi di essa” (quesito VI), ecc.
Christian Ferrari
Maurizio Landini
Dario Missaglia
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).