In concomitanza con la pubblicazione di Parole di Firenze un saggio dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo, abbiamo scelto di pubblicare un articolo di Gabriella Giacomelli, fondamentale per gli studi sul toscano. L’articolo è apparso sulla rivista «Archivio Glottologico Italiano» nel 1975: a più di trenta anni di distanza però, almeno per i non addetti ai lavori, la sua “pacata” affermazione della legittimità di una Dialettologia toscana può non apparire del tutto scontata. L’Autrice, che stava allora cominciando a mettere in opera l’impresa Atlante Lessicale Toscano, che l’avrebbe impegnata per decenni insieme a un nutrito gruppo di colleghi, ricercatori e allievi (tra i quali anche molti dei collaboratori del Vocabolario del fiorentino), aveva già delineato il quadro della complessa dialettalità toscana. La visione generale del panorama toscano si spiega, articolata nei livelli fonetico, morfologico e lessicale, e, nonostante l’uso di qualche tecnicismo, pianamente e puntualmente si rende evidente.
DIALETTOLOGIA TOSCANA
1. ˗ Il titolo è un’affermazione pacata, che implica una valutazione del lavoro fatto e un fiducioso programma per l’avvenire: il copioso materiale lessicale raccolto, la progettazione dell’«Atlante Lessicale Toscano», gli schemi che stiamo preparando per un’indagine sociolinguistica sono solo alcuni degli aspetti in cui la formulazione viene a concretizzarsi. Eppure la domanda ci può essere fatta, da un universitario o da un operaio: che ragioni ha di esistere una dialettologia toscana? La formula può venir ammessa se la interpretiamo come un concetto che si sviluppa per la suddivisione di un concetto più vasto (dialettologia italiana) o per analogia con concetti affini (dialettologia piemontese, veneta ecc): allora la Toscana entra di diritto tra le regioni studiate sotto l’aspetto dialettale nel libro che ho avuto l’onore di firmare insieme a Giacomo Devoto[1]e tra i profili dei dialetti italiani editi a cura del CSDI[2]. Meno ammissibile può risultare invece unadialettologia toscana che si giustifichi in base all’esistenza di un dialetto della regione. L’esistenza del «dialetto toscano» non viene ad essere completamente accettata né dal professore, né dall’artigiano sanfredianino, né dal montanino pistoiese abituato da più di un secolo alle lodi per il suo modo di esprimersi. Si parlerà male, ma i ddialetto e un si parla protesta l’artigiano fiorentino: e la spinosa questione pare riassumersi tutta nella sua frase[3].
In parte l’idea che in Toscana manchino i dialetti[4] ha il suo fondamento nella teoria illuministica, così dura a morire anche nell’inconscio di molte persone colte, la teoria dell’albero genealogico: i dialetti sono sentiti come derivazione e quindi corruzione della lingua, che in Toscana e soprattutto a Firenze apparirebbe molto meno «corrotta». In realtà se con dialetto si intende[5] un sistema linguistico geograficamente limitato, trádito attraverso i secoli, dominato dal sistema che è stato accettato come sopraregionale, in Toscana si parlano dialetti come altrove[6]: la parlata del contadino casentinese o dell’operaio della zona pisana è eredità viva come quella del contadino siciliano o dell’operaio lombardo, può essere quindi definita ugualmente dialetto. Ora è vero che il «sistema che è stato accettato come sopraregionale» è, alla base, il toscano stesso; ma il momento dell’accettazione è anche il momento della regolamentazione: in quanto sistema cristallizzato in norme ben precise e sopraregionale, cioè lingua, l’italiano viene a contrapporsi al toscano, dialetto, anche se tipologicamente possono essere molto vicini e, in certi casi, identici. Così vi sono frasi che suonano in bocca al contadino più incolto con una purezza e una proprietà che giungono a fare invidia a un letterato. Sono le «delizie del parlar toscano» delle nostalgie ottocentesche. È lingua o dialetto? Tipologicamente è lingua; in prospettiva storica è dialetto. Dialetto e lingua in Toscana possono incontrarsi e identificarsi, ciò che non accade, se non in misura notevolmente minore, nelle altre regioni[7].
Le coincidenze sono per altro occasionali. Subito dopo la frase che può essere classificata e come toscana e come italiana, la persona incolta pronuncerà quella che si caratterizzerà immediatamente come dialettale. Per la persona colta questa divergenza si attuerà in modo molto meno vistoso[8]: ma allora[9] egli non adopererà un fiorentino ˗ o un pistoiese o un senese ˗ illustre, ma quella lingua che fa parte appunto della sua cultura, che anch’egli ha imparato ˗ sia pure con molta minore fatica rispetto agli altri italiani.
Se assumiamo come realtà contrapposte lingua e dialetto, ci tocca il compito di verificare lo svolgimento dei due processi tradizionalmente enucleati, la italianizzazione del dialetto e la dialettizzazione della lingua, astrattamente antitetici, praticamente complementari se non, in certi casi, identificabili[10]. Essi evidentemente trovano in Toscana condizioni particolari per la loro attuazione. II dialetto, con un’opera di sostituzione più che di adattamento ˗ si tratta di due sistemi tipologicamente affini ˗ sfocia immediatamente nella lingua[11]; per la stessa ragione la lingua si dialettizza in modo non vistoso. A parole colte o tecniche si applica la distribuzione fonematica che è propria del dialetto; talvolta esse sono alterate in rifacimenti o paretimologie popolari (lucciola per ulcera, pecorite per pleurite, trevisione per televisione). Ma talvolta si ha anche il caso di una parola toscana assurta a termine di lingua, che, scendendo dall’alto con la rivoluzione della civiltà moderna, soppianta la parola indigena in una determinata località (o le si affianca rimanendo semanticamente distinta), però attraverso un modulo parallelo, toscano o toscanizzato (esistente o inventato[12]).
Siamo venuti così a sfiorare un aspetto del problema che avevo finora volontariamente tenuto fuori dalla discussione, retta d’altra parte sulla astrazione della bipolarità lingua-dialetto con esclusione dei momenti intermedi[13]: nel senso di modo di esprimersi «naturale», più che un toscano esistono i varî toscani. È interessante rilevare a questo proposito come per nessuna parlata toscana la caratterizzazione fonetica, morfosintattica, lessicale coincida perfettamente con quella italiana: per esempio il sistema fiorentino, che è il piu vicino lessicalmente, dagli altri punti di vista si stacca dall’italiano più che il senese e il pistoiese: che però per certi fenomeni ˗ come l’affricazione delle sibilanti postconsonantiche ˗ si oppongono allo stesso modo al fiorentino e all’italiano, che in questo tratto vengono a coincidere. La questione riveste uno straordinario interesse dal punto di vista storico[14] ed ha un posto notevole nel nostro programma di studi sulla dialettologia toscana[15]: è necessario però mettere in rilievo nel nostro discorso l’attualità di queste autonomie di lunga tradizione, anche se non mancano elementi per affermare l’esistenza di un dialetto regionale[16] e, forse più evidente, di un italiano regionale[17].
2. ˗ Per l’innegabile affinità tipologica e per il pregiudizio dell’identificazione il problema del rapporto lingua/dialetto, almeno sul piano fonetico e su quello morfosintattico, si configura in Toscana come un rapporto di «giusto»/«errato», di tradizione scolastica. Naturalmente, per quanto riguarda la fonetica, la stessa tradizione scolastica porta alla scontata distinzione tra l’ortografia che viene molto curata e l’ortoepia che si trascura: forse con l’eccezione di fatti macroscopici, che hanno del resto una loro precisa censura sociale, come il dileguo di /k/ intervocalico, in zona occidentale, o 1’uso dell’allofono [h] anche per la dentale sorda intervocalica, in posizione postonica, in zona fiorentina. Le abitudini articolatorie toscane ˗ cioè, prima di tutto, la «gorgia», la spirantizzazione delle palatali intervocaliche (e anche iniziali in zona aretina), la neutralizzazione (non fiorentina) di /s/ e /z/ postconsonantiche ˗ restano, piu o meno accentuate, anche nell’italiano morfologicamente e lessicalmente perfetto delle persone colte[18]. Per esempio, a Pistoia la scuola ci insegna che è errore grave scrivere inzieme, ma ci lascia pronunciare [inzịęme]. L’influenza della scuola ˗ e in questo caso della società, che classifica il fenomeno come particolarmente volgare ˗ porta alla correzione dello scempiamento di terra carro ecc., che in zona fiorentina è solo del dialetto rustico più basso: ma vediamo che la sollecitazione della parola giustamente scritta è in questo caso, come in altri, importante, perché non opera nel caso del raddoppiamento sintattico come nella pronuncia [a roma] di uno studente originario della Val di Sieve.
Ne consegue che questa serie di fenomeni viene a far parte ˗ con differenze localizzabili arealmente ˗ dell’italiano regionale[19]. Altri fenomeni restano legati al dialetto ˗ o ai dialetti ˗ distinti non solo in una differenziazione areale, che resta indubbiamente la più significativa, ma anche in una stratificazione (che possiamo definire in senso lato sociolinguistica) che classifichi i parlanti per età, per livello sociale, per livello culturale[20].
Se il vocalismo tonico toscano, pur con le sue numerose oscillazioni (/maęstro/˗/maẹstro/), può dirsi alla base del vocalismo italiano, si oppone ad esso, oggi come cento anni fa[21], per la vistosa mancanza del dittongo /uǫ/; notevoli sono poi le discordanze del vocalismo atono, specie in zona aretina. Per il consonantismo il discorso si fa ancora più complesso: accenniamo a tutto il problema della spirantizzazione delle sorde e sonore intervocaliche, visto nella sua graduazione, nella sua forza espansiva, nella sua opposizione, virtuale ed effettiva, alla «lenizione appenninica»[22]; alla perdita dell’elemento labiale nella labiovelare sorda fiorentina[23]; alla articolazione rustica fiorentina e aretina, [g̋g̋], di fronte a quella fiorentino-urbana e italiana [l΄l΄][24]; alla rotacizzazione, soprattutto fiorentina e pisana, della laterale, notevole anch’oggi, particolarmente nelle campagne e nei piccoli centri[25].
È un inventario breve, volutamente limitato, dei fenomeni dialettali più notevoli nel campo della fonetica ˗ e si potrebbe registrare anche in chiave fonematica ˗ a cui si aggiunge quello dei fatti morfosintattici peculiari della nostra regione. In genere essi costituiscono gli errori che la scuola riprova severamente: questo soprattutto per quanto riguarda i paradigmi verbali, dove si attuano i livellamenti analogici di seconda singolare e seconda plurale in alcuni tempi e modi, di prima singolare e seconda singolare nel passato remoto dei verbi forti (del fiorentino non di Firenze), di interferenza di singole forme su altre strutturalmente o funzionalmente sentite come affini (tipico /andesse, andiede/ e, d’altra parte, /dasse/!). Altri tipi verbali dialettali che in genere sono considerati puri e semplici errori sono le desinenze della terza plurale: cosi /-ano, -eno, -ino/ per il presente indicativo della seconda e terza coniugazione[26], /-ino/ per il presente congiuntivo delle stesse, /-ano, -eno, -ino/ (ital. /-ero/) per il passato remoto forte, il congiuntivo imperfetto, il condizionale, /-onno, -enno, -inno/ (e cfr. /funno/ «furono») nel passato remoto debole. La censura avviene a livelli diversi: /-onno/ è caratteristica decisamente volgare, le forme che si contrappongono all’ital. /-ero/ sono considerate in genere antiquate[27], mentre qualche «sbaglio» di presente indicativo e congiuntivo si può cogliere anche, più o meno occasionalmente, nell’italiano di persone di una certa cultura. L’italiano regionale però normalmente li rifiuta per accettare invece un tipico idiotismo toscano, la prima persona plurale data dal riflessivo /si/ più la forma di terza singolare[28]. Le ragioni di questa accettazione stanno forse nella vicinanza ˗ evidente in italiano non meno che in toscano ˗ tra la funzione di impersonale e quella di prima persona plurale, che si contrappone veramente alla prima solo quando indichi un «noi» ben determinato[29].
Nella morfologia nominale le opposizioni con l’italiano sono date da metaplasmi e plurali «anomali», presenti però quasi soltanto a livello rustico: mentre nella morfosintassi pronominale l’uso frequente di pronomi atoni o addirittura la rideterminazione di pronomi tonici con pronomi atoni marca specificamente il fiorentino (più limitatamente gli altri dialetti toscani centrali e settentrionali) nei confronti della lingua. Si tratta, almeno a Firenze, di un uso esteso a tutti i livelli: al tentativo di correzione, per sanzione scolastica o, meno frequentemente, sociale, passa inosservata la mancanza di raddoppiamento sintattico quando il pronome atono /e/ è dileguato[30]: notiamo che in questo caso al fiorentino dialettale [ikke ć ę] si oppone un «italiano subregionale» [ke ć ę]e un italiano standard (che coincide in questo caso con il pistoiese e lucchese) [ke čč ę]. Altro dialettalismo fiorentino, che tende a conservarsi anche in classi relativamente elevate pur se non entra nell’italiano locale, è l’articolo singolare maschile /i+/[31]. Si ricordi che in lucchese /i+/ segna invece l’articolo maschile plurale. Sono esempi della complicata casistica degli articoli toscani (/li/ maschile plurale di fronte a /z/, /ʒ/, /š/ e /s/ preconsonantica in zona senese e occidentale; /ll/, indifferenziato per genere e numero, davanti a vocale, in zona senese, pisana, lucchese ˗ ma qui, nel dialetto rustico anche /ill/), che meriterebbe uno studio comparativo ampio e approfondito e che appare interessante ai nostri fini, perché, data la scarsa importanza e insieme la notevole frequenza di queste particelle, in relazione ad esse l’auto-controllo è scarso: d’altra parte la correzione, salvato il fatto ortografico, è di quelle che sfuggono all’impegno della scuola. Vistoso è invece sintatticamente l’articolo, che viene a caratterizzare anche l’italianoregionale[32], nel suo uso davanti ai nomi propri femminili e davanti al sintagma «aggettivo possessivo + nome di parentela»[33].
La questione più complessa relativa al rapporto toscano-italiano riguarda il lessico. Con una semplificazione piuttosto drastica, specie per il fattore semantico, potremmo prospettare quattro serie di casi:
a) si ha coincidenza perfetta di termine italiano e termine dialettale. È un caso così frequente e così ovvio che passa naturalmente inosservato. Può balzare alla nostra attenzione solo in casi di differenziazione geografica[34], quando per stabilire una contrapposizione dobbiamo fare a meno della conferma da parte dei vocabolari dialettali[35]. Raramente due parole di diversa distribuzione dialettale sono entrate ambedue nella lingua che le usa indifferentemente: è il caso di bambino-bimbo.
b) il termine ˗ pantoscano o di area più limitata, quasi sempre fiorentina ˗ non coincide con il termine ‘standard’, ma può vantare una tradizione letteraria, che si continua magari anche oggi in scrittori che preferiscono un linguaggio più colloquiale. Sono infatti voci dell’italiano regionale, correnti sulle labbra anche di persone colte, che in genere però le evitano con scelta consapevole ˗ e non sono le sole a farlo! ˗ nel registro più elevato, ufficiale, in cui entra lo ‘standard’[36].La letterarietà e la frequenza dell’impiego danno ragione della loro conoscenza passiva oltre i limiti della regione: ma nell’uso dei Toscani la loro contrapposizione a parole di ambito geografico più vasto porta ugualmente a definirli come «toscanismi»[37]. È il caso di gota, sottana, seggiola, midolla, al tocco di fronte a guancia, gonna, sedia, mollica, all’una.
c) il termine dialettale, di area toscana più o meno vasta, pur avendo una qualche tradizione letteraria, è caduto o sta cadendo fuori uso e viene evitato quasi sempre, anche nel parlar quotidiano, non solo dalla persona colta, ma spesso anche ˗ ed è uno dei risultati più importanti delle nostre ricerche sociolinguistiche! ˗ dal popolo. Non è dunque dell’italiano regionale, ma solo del dialetto. Sono i casi di compagno («uguale»), sortire («uscire»), partire («dividere»), giubba, sporta[38].
d)il termine è regionale, molto più spesso subregionale o locale, e non ha attestazione letteraria[39], non viene compreso fuori dell’ambito toscano, spesso neppure in zona toscana diversa. Possiamo citare a caso il fior. paracore «polmone (di bestia macellata)», l’occident. e casent. rèdola, rèʃola «viottolo», il sen. bézzera «capra», l’aretino peglia «riccio della castagna»: ma pochi esempi non danno l’idea di questo vastissimo patrimonio che caratterizza la nostra regione e che come altrove, più di altrove, si sta perdendo, date le sollecitazioni dello ‘standard’ che insidia, si è visto, termini ben più solidamente ancorati alla tradizione letteraria.
3. ˗ È ovvio che in Toscana dove il bilinguismo si identifica normalmente con la scelta di registri diversi[40] il rapporto lingua-dialetto si prospetta diversamente rispetto alle altre regioni. I risultati di questa contrapposizione, quali si rivelano indirettamente attraverso le inchieste per l’Atlante Lessicale Toscano e direttamente per mezzo di quelle che hanno chiari obiettivi di classificazione sociolinguistica, si dimostrano oltremodo interessanti: parlanti di età, estrazione sociale, cultura, luogo di nascita diversi ci stanno fornendo una serie di dati, che però è prematuro esporre e discutere.
Ma c’è un momento di cui è possibile parlare dal punto di vista metodologico, il momento che vorrei dire dell’«auto-analisi», cioè dell’analisi del proprio comportamento linguistico: utile ad ogni linguista, essa è indispensabile a chi intraprenda indagini di carattere sociolinguistico, per sceverare attraverso le motivazioni delle proprie scelte quei criterî che può applicare all’oggetto delle sue ricerche. Nella «storia linguistica» di ognuno di noi confluiscono fatti di ascendenza familiare, di ambientazione sociale e culturale, fatti molto spesso differenziati geograficamente[41]: ma ha una grande importanza il fattore psicologico delle scelte che si compiono, siano coscienti o inconsce; delle scelte che stanno alla base del proprio idioletto come di quelle operate, di volta in volta, nell’impiego dei registri.
Nel tipo di ricerca intrapreso questa nostra autoanalisi può aiutarci a mettere a fuoco alcuni problemi. Notiamo prima di tutto che nel linguaggio del Toscano colto il dialetto ha una duplice possibilità di occorrenza: è, almeno in certe sue caratteristiche (di solito, ma non sempre, quelle meno appariscenti[42]), una scelta «definitiva» di permissività, legata a motivazioni diverse[43]; o è l’impiego, in un registro sufficientemente elevato, di frasi o parole dialettali a fini puramente espressivi. In questo caso il tono è leggermente enfatico: più esattamente, se trasferiamo l’enunciato sul piano della scrittura ˗ per es. in una lettera familiare ˗ la frase o la parola viene ad essere graficamente messa in risalto dalla sottolineatura o dalle virgolette, come una frase in lingua straniera: si ha quel trapasso ad un altro sistema linguistico che ha in sé stesso funzione fortemente connotativa. A questo punto si imporrebbe il confronto con l’uso di dialettismi in scrittori toscani. Il Grassi, verificando questo impiego stilistico in diversi autori[44], rileva che sono «tutti casi che hanno e potrebbero avere riscontro nella letteratura italiana caratterizzata da consistenti apporti dialettali». L’argomento meriterebbe di essere approfondito in un’analisi particolareggiata di questi toscanismi, confrontati, da un punto di vista sociolinguistico, con i risultati delle nostre ricerche sul campo.
La «permissività» come scelta di fondo del Toscano colto per quanto riguarda l’uso del dialetto ˗ o meglio di alcuni moduli dialettali ˗[45]può essere psicologicamente opposta a un compiaciuto impiego dell’italiano regionale; ma la matrice può anche esser identica nei due casi. In ogni modo le motivazioni profonde, pur così importanti, ci interessano meno dei criteri con cui ognuno costruisce il proprio vaglio: la consapevolezza di questi criteri di accettazione e di rifiuto ˗ che solo talvolta e in misura limitata si può pretendere dall’intervistato ˗ è l’elemento base per affrontare il delicato problema di cui ci siamo occupati.
[3] Cfr. L. Giannelli, La recente evoluzione linguistica in Toscana in «Atti IX Conv. Studi Dialett. Ital.», Pisa, 1974, pp. 247-256.
[4] L’affermazione ˗ come tutto il discorso che qui si porta avanti ˗ non vale naturalmente per i dialetti periferici come, a parte il lunigianese, l’alto e il basso garfagnino, l’amiatino e, sotto certi aspetti, l’aretino-chianaiolo: tranne quest’ultimo, gli altri vengono ad essere automaticamente esclusi dalla discussione.
[5]Non ho alcuna intenzione di esaminare il concetto di dialetto, su cui si vedano, per es., le pagine introduttive all’Avviamento allo studio della dialettologia italiana di M. Cortelazzo, Pisa, 1969.
[6] Cfr., per es., C. Grassi nella parte riassuntiva del Proemio in G. I. Ascoli, Scritti sulla questions della lingua, Torino, ed. 1975 (p. 5).
[7]La «questione della lingua» esula completamente dal nostro discorso. Resta comunque da precisare che qui si intende sempre parlare di «lingua comune» o «lingua standard» piuttosto che di «lingua letteraria» (cfr. anche la correzione operata in tal senso da G. B. Pellegrini a p. 176 del suo Dal dialetto alla lingua in «Atti IX Conv.», cit).
Sulla storia del toscano cfr. G. Nencioni, Essenza del Toscano, in «Rivista Bibliogr. Letter. Ital. », 62, 1958, pp. 3-21.
[9] Si prescinde qui dalle abitudini articolatorie nella pronuncia, che in genere il Toscano non corregge: cfr. più avanti, p. 183 sg.
[10] Mi riferisco, per es., alle diciotto unità lessicali di lingua «travestita» da «dialetto superlocale» nel brano dell’Almanacco piemontese 1970, esaminato da G. Berruto (Per una semiologia dei rapporti lingua-dialetto, in «Parole e metodi», 1, 1971, pp. 45-58): la «dialettizzazione» di termini italiani si compie essenzialmente sul piano morfologico e fonetico, ma nello stesso tempo il dialetto si italianizza con l’assunzione di termini italiani. La penetrazione di un singolo elemento alterato in un senso altera in senso opposto l’equilibrio dell’insieme. Una simile osservazione si potrebbe fare anche per l’«italianizzazione del dialetto bolognese» che F. Foresti esamina in «Atti IX Conv.», cit. (pp. 239-245): molti termini citati potrebbero anche valere come esempi di parole italiane formalmento dialettizzate.
[11] Si può anche osservare che, come non esiste un dialetto toscano compiutamente italianizzato perché si identifica nella lingua, così per ragioni storiche non esiste quel dialetto colto, squisito, che in altre regioni può servire come strumento di raffinata espressione poetica. La scarsa produzione «vernacola» toscana è tutta di carattere popolaresco.
[12] A Certaldo il «filaro delle viti» che limita un campo nella coltura tradizionale era ˗ ed è ˗ proda:con l’introduzione della coltivazione estensiva della vite il tecnicismo filare si è sostituito per la cultura in linee parallele, ed accanto ad esso si è imposto anche il filaio, che è di zone finitime (dall’inchiesta per 1’«Atlante Lessicale Toscano » di M. Salinitro).
[13] Cfr., per es., la tripartizione del Berruto (art. cit., p. 45) e la quadripartizione del Pellegrini (art. cit., p. 175 sg.).
[14] Le opposizioni attuali si potrebbero confrontare con quelle antiche: cfr. E. Castellani, Nuovi testi fiorentini del Dugento, Firenze, 1952. Una prospettiva storica di fenomeni fiorentini attuali è offerta da G. Nencioni nel saggio La lingua contenuto in Michelangelo, Novara, 1965 (pp. 569-576).
[15] Una conveniente classificazione dei vari dialetti toscani e data da L. Giannelli nel citato volume in corso di stampa: ad esso si intende far riferimento nell’‘excursus’ grammaticale che seguirà, tralasciando per semplicità quelle notazioni geografiche complete che nell’opera risultano chiarissime.
[16] Cfr. L. Giannelli, La recente evoluzione linguistica, cit. Gli esempi lì riportati a p. 255 posson esser visti come esempi di un «superdialetto» di impronta fiorentina. La fiorentinizzazione è l’altra parto notevole nel lessico (cfr. il mio lavoro Aree lessicali toscane, in «La ricerca dialettale», 1, 1975, pp. 115-152, soprattutto nelle conclusioni): difficile e distinguere però l’apporto di un «superdialetto» e quello di un italiano regionale.
[17] Una dettagliata descrizione della «varietà toscana di italiano» e in T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, 19744, app. 60.
[18] Possono passare anche nella pronuncia non sorvegliata di una lingua straniera o del latino: legate ai Toscani, non al toscano!
[19] Sull’importanza discriminante dei diversi sistemi fonematici nella pronuncia dell’italiano, cfr. Berruto, art. cit., n. 45, e v. anche De Mauro, op. cit., passim.
[20] La differenza fondamentale resta tuttavia di dialetto rustico e dialetto urbano: in base alle nostre ricerche ˗ e con largo margine di approssimazione ˗ possiamo dire che il cittadino anziano si allinea per la parlata al campagnolo di mezza età, se non al campagnolo giovane.
Per il fiorentino resta ancora come punto di partenza l’articolo di P. Fiorelli, Senso e premesse di una fonetica fiorentina, «L. N.», 13, 1952, pp. 57-64.
[21] Come è noto, o per uo è stato uno dei tratti piu vistosi del «manzonismo degli stenterelli»: cfr. la prima parte del Proemio dell’Ascoli (v. n. 6).
[22] Il più recente studio complessivo del problema è dato da L. Giannnelli in K, P e T intervocaliche in Toscana, «Atti Accad. Colombaria», 38, 1973, pp. 337-347.
[23] Cfr. R. Stefanini, Comportamento di / kw / in fiorentino in «Mille. I dibattiti del Circolo Linguistico Fiorentino», Firenze, 1970, pp. 219-222.
[25] Della velarizzazione occidentale della / l / resta il ricordo solo in documenti antichi; la palatalizzazione della zona fiorentina, riscontrabile nelle Commedie dello Zannoni e nei testi montalesi del Nerucci, si ritrova oggi quasi soltanto in località isolate dell’area montana.
[26] Le desinenze tradizionali si oppongono però arealmente: ho volutamente semplificato il discorso e non vi ho compreso le desinenze della prima coniugazione.
[27] A Firenze però si può sentire ancora il condizionale in /-ano/ e il congiuntivo imperfetto in /-ino/, quest’ultimo forse per l’analogia con l’identica desinenza del presente dello stesso modo: cfr. R. Stefanini, Distribuzione delle desinenze ‘ano’ e ‘ino’ in fiorentino, «L. N.», 31, 1970, p. 68.
[28] L’antica innovazione analogica della desinenza /-iamo/ non deve esser mai stata popolare in Toscana, soprattutto nella zona occidentale dove si mantengono a livello rustico gli antichi indicativi del tipo / lavamo, vedemo, sentimo / che in zona florentina fungono invece da imperativi.
[29] La genesi del tipo «noi si fa» ha la sua motivazione nella necessità di semplificare il paradigma, eliminando forme pesanti e faticose; la sua attuazione nell’impiego di un’espressione concettualmente vicina. Notiamo che il toscano coincide con l’italiano nell’uso della particella ci in dipendenza da un impersonale e, in certi casi, nella funzione di impersonale che può assumere la prima persona plurale all’imperativo: cfr. E. Bianchi, Spunti di grammatica fiorentina, «Nuova Antol.», 431, 1944, pp. 59-66 (v. p. 64).
[30] Cfr. R. Stefanini, Funzioni e comportamento di /e/ (e, e’) proclitica nel fiorentino di oggi, «I.D.», 32, 1969, pp. 10-26.
[32] Da questo punto di vista il fenomeno può esser considerate genericamente toscano (cfr. le attestazioni letterarie, numerose), nonostante che, almeno per il primo dei due casi, manchi nel dialetto e quindi nella lingua locale di parecchie zone.
[33] Cfr. T. Franceschi, Postille alla HGI di G. Rohlfs. Tipi e distribuzione del sintagma possessivo in Italia, «A.G.I.», 50, 1965, pp. 154-166.
[35] Mi riferisco a casi come gelso o coperchio che in zona nord-occidentale sono di dialetto, oltre che di lingua, e come dialettali si contrappongono rispettivamente a moro di area orientale, e al fiorent. ˗ pis. testo o all’orient. ˗ merid. copertoio,-a:cfr. Aree lessicali toscane, cit., p. 127 sgg.
[36] Per ognuno di questi termini il grado di accettabilità e di accettazione è naturalmente diverso, come risulta anche dalle nostre inchieste; ma possiamo operare questa generalizzazione.
[37] Sulla questione cfr. anche E. Peruzzi, Una lingua per gli Italiani, Torino (ediz. RAI), 1961, particolarmente al cap. VI.
[38] Sono anche i casi per cui spesso i vocabolari italiani adoperano le definizioni di «arcaico», «popolare», «volgare»: più frequenti naturalmente in dialetti extraurbani e di zona non fiorentina, non sono ignoti neppure nel capoluogo.
[39] Citazioni di autori dei primi secoli o di scrittori moderni toscaneggianti non hanno rilevanza: è il caso di frago «cattivo odore», di cui mi è capitato di occuparmi a fondo recentemente (in «Studi in onore di G. Bonfante»).
[43] Cfr. L. Giannelli, La recente evoluzione linguistica cit., p. 254, dove sono chiamati in causa però solo i «giovani fiorentini di classe subalterna». Considerazioni simili si possono fare in molti altri casi.
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