Sull'onda delle molte domande giunte al nostro Centro di consulenza linguistica intorno al genere degli idronimi, Massimo Fanfani, autore anche della scheda pubblicata sull'argomento nella sezione dedicata, affronta il tema in un articolo in cui dapprima analizza le motivazioni remote che possono giustificare il genere delle denominazioni tradizionali e successivamente si concentra su un caso emblematico, quello del fiume Piave, in un percorso che si snoda tra storia della lingua e storia della nazione.
Come l’etimologia dei nomi dei fiumi, che per lo più risalgono alla notte dei tempi, non di rado è incerta, così il loro genere grammaticale, potendo dipendere da vari fattori anch’essi ormai remoti, non è facile da giustificare. Un fiume, infatti, non si fonda su un genere “reale”, come avviene per gli esseri sessuati, ai quali è quasi sempre pacifico attribuire un maschile o un femminile; e nemmeno su elementi che possano esser ricondotti concettualmente all’uno o all’altro sesso. Anche se va detto che in origine, sulla base di credenze miti fantasie popolari, è probabile che ci si orientasse verso un nome femminile quando si vedeva nell’acqua del fiume una fonte di vita e un simbolo di fecondità; al contrario, verso un nome maschile quando si avvertiva come preponderante la potenza e l’impeto del flusso della corrente, flusso che determina da solo il proprio corso dando un’idea di forza e di maestosità. La cosa è evidente per quei fiumi che furono ritenuti sacri e perciò li si volle ricollegare a divinità fluviali maschili o femminili o a qualche personaggio mitico che avrebbe dato loro il suo nome. E per le divinità fluviali si nota spesso, nelle diverse civiltà antiche, ora il prevalere dell’una ora dell’altra tendenza.
Quando invece c’erano elementi concreti (come le caratteristiche del fiume stesso o delle sue acque, il tipo di territorio attraversato, la flora circostante, ecc.) dietro la scelta di un nome, il genere di tale elemento determinava ovviamente quello del fiume: la Lima, affluente del Serchio, se si chiamò così per metafora dall’arnese del fabbro, non poteva che esser femminile. Senza possibilità di equivoci sarà anche il genere di quei nomi dovuti all’unione di un termine generico di corso d’acqua (maschile o femminile) con un aggettivo o un determinante: Flumendosa, Rimaggio, Rionero sono per forza maschili; femminile invece Acquacheta.
Come già in latino, fra i nomi dei fiumi italiani prevalgono i maschili, soprattutto quando si considerino i grandi fiumi e specialmente quelli che sfociano in mare: Tagliamento, Adige, Po, Reno, Metauro, Esino, Chienti, Tronto, Sangro, Biferno, Fortore, Ofanto, Basento, Sele, Volturno, Tevere, Arno, ecc.; ma fra i fiumi sfocianti in mare che un tempo erano femminili e che in certi casi lo sono ancora, vanno pure ricordati almeno Piave, Brenta, Marecchia, Pescara, Cecina, Magra. Oltre a questi sono femminili diversi fiumi minori, in particolare fra gli affluenti. Ad esempio, fra gli affluenti del Po sono femminili: Dora Riparia, Stura, Dora Baltea, Sesia, Olona, Trebbia, Parma, Enza, ecc.; e fra quelli dell’Arno: Sieve, Greve, Pesa, Elsa, Egola, Era, ecc. Come si vede, tutti i fiumi che terminano in –o e in –i (questi piuttosto rari) sono maschili; quasi tutti quelli che terminano in –a e una parte di quelli che terminano in –e sono invece femminili.
Dato che le motivazioni originarie dei nomi di fiumi, come si è detto, sono quasi sempre oscure specie per il comune parlante, talvolta si sono avute delle reinterpretazioni paretimologiche: in Calabria Fiumenicà (dal greco *tà phloumenikà ‘terra percorsa dalla fiumara’) è diventato il Fiume Nicà. Nello stesso modo è successo che si siano manifestate delle spinte al cambio di genere, specie per i nomi dei corsi d’acqua minori e, naturalmente, sempre in direzione del maschile che è il genere prevalente. Abbiamo così diversi fiumi in –e e in –a, che fino a uno o due secoli addietro erano stabilmente femminili, ormai diventati maschili o in via di diventarlo o lasciati in mezzo al guado: tale adeguamento di genere è infatti un fenomeno moderno non ancora assestatosi del tutto e non privo di resistenze.
Le spinte al cambiamento di genere provengono quasi sempre da ambienti esterni o più elevati rispetto a quello locale; ambienti nei quali, evidentemente, conta di più regolarizzare e uniformare la lingua che accertare e rispettare l’uso popolare. E tali spinte non nascono solo per naturali processi di adattamento analogico o dal libero giuoco di usi diversi, ma sono provocate e rinforzate da una norma aporetica accolta da tutti per buona e ripetuta nelle scuole e nelle grammatiche da più di un secolo e mezzo, tanto che è diventata una specie di mantra: per il genere dei nomi geografici, e in particolare per quello dei fiumi che è fra i più incerti, in linea di massima ci si deve regolare sul nome della categoria, ovvero sul nome comune preposto o sottinteso; e quindi, dato che i nomi comuni dei corsi d’acqua sono quasi tutti maschili (fiume, torrente, ruscello, rivo, canale, ecc.), anche i nomi propri dei fiumi (tranne quelli terminanti in –a, per i quali ci può essere uno scarto, enumerate eccezioni che i normatori amano documentare sulla base di celebri impieghi letterari) vanno al maschile: «I nomi geografici seguono di solito nel genere il nome della classe cui appartengono» – scriveva Pier Gabriele Goidànich nella sua Grammarica italiana del 1918 – «[...] Sono maschili, come Fiume, i nomi delle acque correnti che non terminino in –a: es. Il Po, Il Piave, Il Crati; quelli in –a sono ordinariamente femminili: La Secchia, La Lima, La Senna; dei pochissimi maschili basterà ricordare: L’Adda, Il Volga, Il Niagara».
Ora questa semplice regola, che in effetti può servire a toglier d’imbarazzo davanti a un fiume di cui non si conosca il genere, è una di quelle regole fatte a tavolino con la buona intenzione di metter ordine nella matassa dei dati reali, anche se, fra le altre cose, non tien conto del fatto che nell’uso comune per i fiumi non si fa quasi mai riferimento al nome generico: ogni fiume è di solito indicato solo col suo nome proprio. Ciononostante la norma inculcata dalla scuola ha funzionato, tanto che è stata largamente adottata nell’italiano degli scriventi colti, mentre gli usi originari o sono andati scomparendo o si sono conservati nella parlata locale e popolare. E se il cambio di genere è riuscito ad imporsi anche localmente, è proprio perché lo si è ritenuto “più corretto”. Naturalmente ci sono anche casi in cui l’adeguamento al maschile non è avvenuto o che è rimasto in bilico: il Sieve, cheaveva cominciato ad affacciarsi così maschilizzato nella seconda metà del secolo XIX in opere di geografi e naturalisti, non ce l’ha fatta; d’altra parte il fiume Magra oggi risulta trattato generalmente come maschile, anche se molti in Toscana continuano a sentirlo femminile; invece la Pescara si salva solo rammentando Gabriele d’Annunzio, mentre nell’uso comune ha prevalso il maschile.
Vista la situazione e dato che il moderno processo di livellamento dei fiumi sul maschile non si è ancora stabilizzato, ne risultano nell’uso attuale frequenti incertezze e oscillazioni, come si nota perfino dagli strumenti di consultazione, che talvolta riportano dati contraddittori o non dirimenti. Invece gli strumenti di comunicazione (a cominciare dalla radio e dalla televisione) pare che applichino la pratica regola dei grammatici senza alcuna remora ogni volta che un fiume, per una ragione o per l’altra, interessa le cronache: durante le recenti inondazioni, ad esempio, nelle cronache televisive non si è sentito quasi altro che il Bormida e il Polcevera.
Tuttavia non bisogna far di tutta l’erba un fascio, perché ognuno di questi più o meno riusciti mutamenti di genere ha la sua storia particolare che in qualche caso, se fosse meglio conosciuta, potrebbe essere istruttiva. Si prenda ad esempio il nome del fiume Piave (su cui cfr. A. Tennenini, in Studi Raffaelli, pp. 649-659)che giusto un secolo fa, quando era già stato felicemente traghettato dalla sponda femminile a quella maschile dai maestri di lingua (l’abbiamo visto attestato nella grammatica di Goidànich del 1918), per una piega imprevista del suo destino dette loro nuovo filo da torcere.
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Originariamente il Piave, come diversi altri fiumi del Veneto o del Trentino (Brenta, Livenza, Sarca, Sonna, ecc.), era infatti di genere femminile. Così risultava nel dialetto (la Piau nel sec. XVIII a Belluno, la Plaf a Vittorio Veneto) e localmente: ancor oggi ce ne possiamo render conto da almeno un paio di “relitti” toponomastici: la Piave vecchia (antico alveo e località alla foce del fiume), la Piavesella di Nervesa (canale scolmatore). Il femminile era largamente attestato anche nella lingua, in scritti letterari o meno, opera di veneti e di non veneti, dal Medioevo fino ai primi del Novecento. Ad esempio, il nome Piave ricorre come femminile nella Cronica dei Villani, nel Dittamondo, nelle Rime del Sacchetti, in Guicciardini (che usa la variante in –a: «fiume della Piava»), Garzoni, Da Ponte; va detto però che le occorrenze più recenti sono solo letterarie, come quella nella Nave (1908)di Gabriele d’Annunzio: «La Piave e la Livenza coprono tutti i pascoli». Anche Dante usa Piava, ma il genere è indeterminabile e la terminazione in –a forse condizionata dalla rima: «In quella parte de la terra prava | italica che siede tra Rialto | e le fontane di Brenta e di Piava» (Paradiso, IX, 25-27). La forma Piava è comunque attestata anticamente in documenti veneti, fin dalla cronaca trecentesca del doge Andrea Dandolo, dove si tratta delle concessioni di Liutprando al doge Paoluccio: «a Plava maiore usque in Plavam siccam sive Plavixellam».
Dall’inizio del Settecento, tuttavia, non erano mancati degli sporadici impieghi maschili (prevalentemente di scriventi non veneti), impieghi che si erano infittiti assai, fino a diventare pressoché esclusivi, nella seconda metà dell’Ottocento, e questa volta nello stesso Veneto, specialmente negli scritti di studiosi, geografi, ingegneri che si occupavano del fiume; ma anche, e diffusamente, nella lingua comune: ricordo che nel 1867 un settimanale di Belluno si intitolava Il Piave; e che la Gazzetta di Conegliano (1868-1880) riportava nel sottotitolo: Organo del Comizio agrario e degli interessi della sponda sinistra del Piave. Non stupisce, quindi, che compaia il maschile nell’ode Cadore che Giosuè Carducci scrisse «In piazza di Pieve del Cadore | e sul Lago di Misurina | sett. 1892» e che fu raccolta in Rime e ritmi: «Pieve che allegra siede tra’ colli arridenti e del Piave / ode basso lo strepito, / Auronzo bella al piano stendentesi lunga tra l’acque / sotto la fósca Ajàrnola».
Il diffondersi generalizzato del maschile non era altro, come abbiamo visto, che una conseguenza della modernità: la scolarizzazione che tendeva a promuovere la norma dei grammatici e il progresso tecnico-scientifico e commerciale che esigeva uniformità terminologica e precisione nelle denominazioni: anche i nomi geografici andavano normalizzati, e dunque per le persone acculturate i fiumi eran tutti maschili, tanto che la sorte toccata al Piave fu riservata, per restare nella regione, anche a Brenta, Livenza e Sarca, nomiche non furono protetti nemmeno dalla loro terminazione in –a. Così gli stessi veneti, che magari in dialetto continuavano a usare il femminile parlando di tali fiumi, quando prendevano la penna e si accostavano all’italiano, passavano al maschile.
Per il Piave, tuttavia, il definitivo mutamento di genere, avvenuto in modo lento e inavvertito nel corso dell’Ottocento, certo attraverso una fase in cui i due diversi usi convivavano – l’uno abbarbicato sempre più debolmente nel dialetto, l’altro sempre più propagginato nella lingua – , fu turbato da un improvviso dietrofront, quando, durante la Grande Guerra, fra il 1917 e il 1918, il nome del fiume balzò per un anno intero nei titoli dei giornali, trasfigurandosi subito in qualcosa di simbolico e di leggendario.
Già avanti la guerra il Piave era un fiume di confine, almeno per la parte più prossima alle sorgenti, ma adesso, con la disfatta di Caporetto del 24 ottobre 1917 e la precipitosa ritirata dell’esercito e della popolazione («Profughi ovunque dai lontani monti, / venivano a gremir tutti i suoi ponti», recita la Canzone del Piave), era diventato la nuova trincea difensiva della nazione. Una naturale trincea d’acqua che consentì la riorganizzazione delle forze militari italiane, passate drammaticamente sulla riva destra prima che il 9 novembre fossero fatti saltare tutti i collegamenti. Attestatosi saldamente su quella linea, l’esercito poté resistere perfino alla massiccia offensiva che mossero gli austro-ungarici nella cosiddetta “Battaglia del solstizio” del giugno 1918, che costò loro più di centomila caduti. In quell’occasione lo sfondamento del fronte italiano fu impedito anche grazie a un’improvvisa piena del fiume («Si vide il Piave rigonfiar le sponde, / e come i fanti combattevan l’onde. / Rosso del sangue del nemico altero, / il Piave comandò: “Indietro va’, o straniero!”»). Per una sorta di contrappasso l’attacco che il generale Armando Diaz volle sferrare il 24 ottobre 1918, e che fu risolutivo per la vittoria finale, venne ostacolato proprio da una piena del fiume, tanto che fino al 28 fu quasi impossibile stabilir delle teste di ponte sulla riva sinistra e l’opera dei pontieri risultò assai difficile e rischiosa.
La compostezza nel subire l’onta dell’invasione del territorio nazionale, i sentimenti di rivincita dell’esercito umiliato, la lunga e strenua attesa di un intero popolo davanti a quella viva e vasta linea d’acqua, le azioni e le battaglie memorabili che si svolsero sulle sue sponde, fecero del Piave un “fiume santo” e lo posero subito al centro di una sorta di epopea popolare. Si può così ben comprendere come già allora il Piave si trasformasse di fatto in un potente mito identitario e nazionalistico, circonfuso dall’alone luminoso che quell’epopea gli conferiva. Grazie ai bollettini di guerra firmati dal generale Diaz, ai racconti dei soldati, alle cronache dei giornali, alla Leggenda del Piave composta in occasione della battaglia del “Solstizio” e immediatamente fatta propria dalla truppa e dall’intera popolazione, il suo nome divenne subito emblema di eroica resistenza e di riscatto nazionale, stampandosi profondamente nell’animo degli italiani e predisponendosi così a trasformarsi in un nome comune, come poi avvenne.
Ora, proprio in quest’ultimo anno di guerra, mentre il nome del fiume correva sulla bocca di tutti, esplose anche la questione squisitamente linguistica relativa al suo genere grammaticale: si doveva dire il Piave o la Piave? Una questione analoga a quella sull’opportunità di dire “puristicamente” la fronte invece che il fronte (dell’esercito) che all’inizio della guerra, nel 1915, aveva riempito le pagine dei giornali a cominciare dal «Corriere della sera»: un segno di come i grammatici militanti, per un riflesso di quella mania nomotetica che si annida anche nelle menti più elette, non rinuncino mai alle loro prerogative, nemmeno nei momenti più drammatici. Qui tuttavia è interessante capire come sia potuta sorgere tale questione linguistica, nonostante fosse priva d’una vera ragion d’essere, in quanto, e lo si è visto, il maschile Piave era ormai da tempo nettamente prevalente nella lingua dei libri e dei giornali, nell’uso comune e perfino nelle prescrizioni degli stessi grammatici.
Come sempre avviene in queste cose, tutto nacque dal brusco impatto con la realtà. Con l’arretramento del fronte sulla linea del Piave, quando fra i comandi militari e il circo mediatico al seguito ci si rese conto che il nome del fiume, che fino a quel momento era stato ritenuto e usato come maschile, era invece femminile per la popolazione locale, la questione divenne lampante e ci fu chi volle vederci chiaro e stabilire quale fosse la forma più corretta, se quella popolare o quella delle carte geografiche e dei comunicati ufficiali. Fu anche facile scoprire che il femminile, oltre che in uso fra i contadini, era proprio della tradizione letteraria; mentre il maschile aveva cominciato a imporsi solo di recente, nel periodo in cui il Veneto era sottoposto all’Austria. Già alla vigilia della guerra quell’innovazione morfologica era stata addirittura attribuita ai dominatori stranieri dall’avvocato filoirredentista Carlo Cassan. Ma adesso, con le truppe ripiegate in posizione difensiva sulla destra del fiume, la questione, in sé piuttosto irrilevante, trascese rapidamente e si trasformò in una tumultuosa polemica intorbidata dall’odio ideologico e dalla passione nazionalistica: lo snaturamento del nome del Piave era colpa del barbaro nemico che aveva voluto corrompere scientemente il “legittimo” uso linguistico quando aveva dominato il Lombardo-Veneto!
Bastò poco perché, da un giornale all’altro, si scatenasse una rabbiosa campagna contro la “mascolinizzazione” del Piave, sentita come un retaggio della dominazione austriaca: un retaggio che andava assolutamente cancellato, ripristinando l’originario e “legittimo” uso femminile. Quasi tutti coloro che intervennero furono presi da una sorta di furore grammaticale e il problema venne analizzato da ogni punto di vista e in ogni minimo dettaglio: si frugarono gli archivi alla ricerca di attestazioni antiche e recenti della parola; si presentarono dati e testimonianze di esperti e di popolani, di veneti e di non veneti; si promossero inchieste e si scrissero lettere ai giornali, in una sorta di crociata puristico-nazionalista che s’ingrossava strada facendo.
Di fronte all’andazzo generale, furono ben pochi coloro che ebbero coraggio di esprimere un parere diverso o chesolo mostrarono di non apprezzare quella campagna di stampa. Fra questi va ricordato Gabriele d’Annunzio, che pure aveva impiegato il letterario la Piave nella tragedia La Nave. Ora invece egli userà solo il maschile: lo aveva fatto come tutti dall’inizio della guerra, ma vi insisterà con particolare enfasi dopo il ripiegamento sulla linea del Piave. A cominciare dal vibrante discorso pronunciato davanti ai soldati e agli italiani sulla destra del fiume nel novembre 1917, un discorso dove per la prima volta affiora l’immagine della “Vittoria mutilata” («Sta su questa riva della morte come la nostra prigioniera immortale; e inflessibilmente ci guarda con quei suoi vergini occhi che hanno il colore di queste acque sante»), e dove il Vate parla di un Piave “maschio” – maschio per la stessa tradizione veneta – come fondamento della sua trasfigurazione simbolica in fiume nazionale e della sua consacrazione in vista del riscatto:
Vi sono forse oggi altre acque in tutta la patria nostra? Ditemelo. V’è oggi una sete d’anima italiana che si possa estinguere altrove? Ditemelo. Vi sono in Italia altri fiumi viventi? Non voglio ricordarmene, né voi volete. Nomi d’altre correnti? Non voglio conoscerli, né voi volete.
Soldati del contado, soldati della città, agricoltori, artieri, d’ogni sorta uomini, d’ogni provincia italiani, dimenticate ogni altra cosa per ora e ricordatevi che sola quest’acqua è per noi l’acqua della vita, rigeneratrice come quella del battesimo.
Se in prossimità del vostro casolare passa un torrente, è di quest’acqua. Se un ruscello limita il vostro campo, è di quest’acqua. Se una fontana è nella vostra piazza, è di quest’acqua. [...] E soltanto di quest’acqua voi potete dissetare le vostre donne, i vostri figli, i vostri vecchi. Altrimenti periranno, dovranno nella desolazione finire.
Avete inteso? Questo fiume – che è maschio nella tradizione dei Veneti, maschio nella venerazione di tutti gli Italiani oggi: il Piave – questo fiume è la vena maestra della nostra vita, la vena profonda nel cuore della patria.
In un’intervista dell’anno successivo a Marcel Boulengier, quando la campagna giornalistica a favore del femminile aveva raggiunto l’acme e la guerra era da poco terminata, il poeta-soldato così si sarebbe espresso in proposito: «On dit généralement le Piave [...]. Cependant la Piave se dit aussi: ce fleuve a les deux genres. Quant à moi, je l’ai nommé le Piave tant qu’il nous arrêta: c’était alors un mâle. Mais depuis que nous l’avons passé, c’est seulement une femelle, et je ne l’appelle plus que la Piave».
Assai nutrito, invece, il fronte di coloro che si erano subito schierati per il femminile. Fra questi vanno ricordati due personaggi che, d’intesa fra loro, avevano partecipato attivamente a quella crociata e che, quando la guerra stava terminando, vollero ribadire la loro posizione, riepilogando in due ampi contributi il senso di quelle discussioni linguistiche, in certo modo anche a nome delle prestigiose istituzioni che essi rappresentavano: il senatore Isidoro Del Lungo, presidente dell’Accademia della Crusca; il conte Donato Sanminiatelli, attivo vicepresidente della Dante Alighieri.
Il primo, in un documentatissimo saggio per la «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1918, attingendo alle sue ricerche e agli articoli giornalistici di quei mesi, radunava numerose testimonianze a prova dell’antichità e del perdurare attraverso i secoli della forma femminile, mostrando che l’uso popolare veneto era ancora saldamente legato a la Piave, mentre il maschile si era diffuso nelle classi più elevate come conseguenza del dominio austriaco. Fra l’altro dichiarava «brutto e infausto l’immascolinamento della Piave voluto e ottenuto dall’Austria per il suo Lombardoveneto: mentre se c’è idioma nostro da essere rispettato come linguaggio che fu di popolo insieme e di Stato, di piazza e di Palagio, è, alla pari del toscano, quello della cara Venezia nostra». E riportando brani di suoi precedenti interventi, indicava quelle che avrebbero dovuto essere le linee strategiche per ripristinare l’uso tradizionale: «So che la Dante Alighieri la vede pure così; e giustamente, se questione avesse da essere, la fa questione anche sua; e altrettanto potrebbe farla quella benemerita e gagliarda Istituzione [il Touring Club], che c’insegna a girare per monti e per valli del nostro paese, senza che, in quanti siamo, ci sia bastato l’animo di trovarle una denominazione italiana. [...] Per conchiudere, mentre bisognerà per ora tollerare (levius fit patientia quidquid corrigere est nefas) nei giornali, o anche nei pubblici atti, lo strascico di quella malnata adulterazione del nome oggi glorioso, è bensì da augurarci che nelle geografie italiane, e nelle insigni pubblicazioni di quella italiana poderosa Istituzione [il Touring Club], sia rivendicata al legittimo sopravvissuto idioma dei Dogi e degli Ambasciatori, detergendola di quella esotica ed esosa patina mascolina, sia secondo ogni buon diritto rivendicata la Piave».
Nel suo saggio Del Lungo stabiliva con estrema precisione anche il momento in cui si sarebbe originata quella “adulterazione”: «Singolare è poi, e di molto rilievo al nostro assunto, che nell’Archivio dello Stato civile napoleonico [di Venezia] tutti i registri ed atti, così a stampa come a penna, di quel Dipartimento sono intestati “Dipartimento della Piave”; intestatura che nel cartellino posteriormente apposto sul dorso dei volumi diventa “Dipartimento del Piave”, seguendo proprio l’alterazione, che si conferma austriaca, del femminile nel maschile. E infatti nei documenti de’ successivi anni dell’Imperiale Real Governo, e dopo il 1850 dell’Imperiale Real Luogotenenza, la maschilità è costante... dopo qualche incertezza nell’inizio dell’era infausta: nel 1816, il Governatore di Milano a quello di Venezia scrive: “i lavori del grande sperone sul Piave”, in febbraio “l’asciugamento dei terreni tra il Sile e la Piave”. Il linguaggio storico e popolare resisteva, anche sotto quelle penne».
Poco dopo, a guerra appena conclusa, sulla «Rassegna italiana» del novembre 1918, apparve anche l’articolo di Donato Sanminiatelli che con nuove testimonianze e accenti ancor più marcati ricalcava gli argomenti del presidente della Crusca: «L’origine dello sconcio linguistico è dunque abbastanza recente [...]. Sarebbe dunque di conio austriaco l’ingiuria recata da un mal uso moderno ai nomi vecchi di quei bei fiumi [...]. A dar man forte a siffatta congettura, valga quanto in questi giorni mi diceva un buon profugo trentino, d’un paesetto in riva alla Sarca: “Noi ghe disem la Sarca, ma quando sem a scola, el maestro el n’ensegna a dir el Sarca”. Perché questa adulterazione curiosa non investe solamente la Piave e la Brenta, ma abbraccia altri rivi o torrenti, come la Pòsina o la Fella». E il vicepresidente della “Dante” non si fermava qui, ma mostrava come quell’“ingiuria” austro-ungarica stesse già diffondendosi, minacciando di sovvertire l’originaria natura di altri fiumi della Penisola: «L’adulterazione, nata e cresciuta sul suolo veneto, è andata pian piano dapprima, oggi più presto, appiccicandosi ai fiumi di altre regioni. Chi sognò mai, nella valle padana, che la Bormida al Tanaro sposa, che la gemina Dora o l’Orba selvosa o altre loro consorelle possano, dal Manzoni in poi, aver cangiato sesso? O in Toscana, che dovrebbe dettar pur sempre un po’ di legge? Resterebbero ancora a bocca aperta i miei corregionali, se udissero mascolinizzare la Sieve, la Pesa, la Lima, la Cecina o la Magra [...]. Eppure, non molto tempo fa, un ingegnere idraulico trevigiano essendo stato dal genio civile preposto a curare l’arginatura della Càscina [...], fece stampare un cartellone con tanto di “proibito il passaggio sul ponte del Càscina”». E Sanminiatelli concludeva il suo scritto riportando il risultato di un’inchiesta da lui promossa fra soci ed estimatori della “Dante” che, quasi all’unanimità, si erano espressi a favore del ristabilimento della dicitura tradizionale: da Paolo Boselli a Isidoro Del Lungo «che insieme con altri suoi colleghi della Crusca ha preso molto a cuore il dibattito», da Francesco D’Ovidio a Francesco Torraca, Guido Mazzoni, Renato Fucini, Ferdinando Martini.
Sorprende che intellettuali di tale levatura, fini conoscitori della lingua e della sua storia, abbiano fatto propri argomenti così deboli e vacui, giustificabili solo come sottoprodotti della propaganda germanofoba propria del clima di esaltazione revanscista degli anni di guerra. Abbagliati dalle passioni ideologiche del momento, si era scambiata una innovazione morfologica dovuta a un complessivo processo di modernizzazione linguistica, per una perfida macchinazione del nemico. Sarebbe bastato riflettere con un po’ di distacco sugli stessi dati che con tanta acribia eran stati raccolti, per capire che non poteva esser stata una disposizione di politica linguistica, per quanto la s’immaginasse imposta in modo massiccio e autoritario, a innescare un fenomeno di quel tipo. Del resto perché mai un governo come quello austriaco, ovunque rispettoso dei suoi tanti popoli e delle sue minoranze linguistiche, si sarebbe dovuto accanire di punto in bianco, senza una ragione plausibile e addirittura senza emanare alcun esplicito provvedimento, contro i nomi di alcune entità geografiche, non per cambiarli (come si sarebbe potuto capire), ma solo per invertirne il genere? E come mai per tutto un secolo nessuno si era lamentato di quel cambiamento o aveva anche solo dato segno di accorgersene, a cominciare dagli stessi veneti che erano i primi interessati: né sotto gli austriaci, né da quando, nel 1866, il Veneto e il Piave erano stati inglobati nel Regno d’Italia? E come la si metteva con i casi simili che Sanminiatelli notava nelle altre regioni? Ma questi dubbi non sfioravano nemmen di lontano coloro che si eran gettati a spada tratta nella mischia, tanto che il presidente Del Lungo poteva ripetere da un giornale all’altro il suo scontato ritornello: «è stata l’Austria, proprio l’Austria, quella che volle mascolineggiate coteste povere “fontane di Brenta e di Piava”, quando sulla rovina dell’Italia napoleonica, e dopo che l’obbrobrioso Campoformio le ebbe consegnato il mare di San Marco, essa l’Austria si accinse a contaminare l’Italia d’una vera e propria provincia d’Impero, fatturando il cosiddetto Lombardoveneto [questo composto era nato in effetti con la dominazione austriaca], cioè costringendo e copulando in quell’ibrida denominazione le glorie italiche di Milano e di Venezia».
Ma come si è visto, la realtà era ben diversa: il passaggio al maschile era stato un processo strutturale che si era svolto lentamente e in parallelo ad altri simili conguagli. Ed era cominciato già prima che arrivassero gli austriaci, non si era arrestato quando, nel 1866, essi se n’erano andati. D’altra parte è assai difficile che un fenomeno di natura morfologica come quello possa dipendere da un intervento di politica linguistica o da disposizioni calate dall’alto: se proprio si volevano incolpare gli austriaci di qualcosa, è al loro ottimo sistema scolastico che si sarebbe dovuto guardare, un sistema scolastico nel quale anche la grammatica italiana era insegnata con serietà. E come non era stata la Kakania di Francesco Giuseppe a “mascolinizzare” il Piave, così nemmeno le prestigiose istituzioni italiane preposte alla “difesa” della lingua, una volta che furono scese in lizza nel 1918, riuscirono ad arrestare quel processo e a riportare indietro l’orologio della storia. Per la verità qualche sporadico adeguamento a prese di posizione tanto autorevoli lì per lì lo si ebbe. E Goidànich, divenuto socio della Crusca, nella sua grammatica dopo la parola Il Piave aggiunse: «(arc[aicamente] anche La P.)». Ma passato quel momento, il fiume fu solo maschile.
A dire il vero, in questi ultimi anni, localmente nel Veneto si assiste a una certa ripresa del femminile, più nella lingua che nel dialetto (dove, a quanto mi si dice, oggi è usuale il maschile). E così oggi il femminile si legge in rievocazioni e pubblicazioni che illustrano episodi storici o aspetti della vita nella zona attraversata dal fiume. Non mi pare tuttavia che si tratti di una ripresa spontanea – uno di quei riaffioramenti carsici che possono manifestarsi nella lingua – ma di qualcosa dovuto a una nuova consapevolezza identitaria o alla nostalgia per il passato, oppure, in certi casi, alle rivendicazioni del localismo politico e culturale. Infatti fra le ragioni che talvolta vengono addotte per giustificare il femminile, non manca qualche accento di biasimo nei confronti del centralismo amministrativo italico o dei bollettini militari della Grande Guerra, responsabili di ciò che nel 1918, come si è visto, si attribuiva all’Austria. Insomma, il femminile di “nostalgia” con cui oggi alcuni veneti parlano del Piave, non sembra possa esser indice di una qualche inversione di tendenza: si tratta di un uso circoscritto che si pone su un piano diverso rispetto a quello delle sorti della lingua comune.
Massimo Fanfani
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