La relazione qui pubblicata è stata presentata da Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte Costituzionale, in occasione del convegno "Lingua, cultura e democrazia. I nuovi analfabetismi nella società della conoscenza", promosso dalla Regione Toscana per presentare i risultati di una ricerca realizzata dall'IRPET (Istituto Regionale per la Programmazione Economica della Toscana) con la collaborazione dell'Accademia della Crusca.
La riproponiamo qui per i nostri lettori.
Lo spirito del dialogo e le sue parole. La democrazia è discussione, ragionare insieme; è, per ricorrere a un'espressione antica secondo l'uso socratico, filologia non misologia [1]. Chi odia i discorsi, alla persuasione preferisce l'imposizione. Juan Donoso Cortés, nel suo Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo (1850) parla spregiativamente dei parlamenti come luoghi in cui la borghesia mostra la sua intima e corrotta natura di clasa discutidora e propugna non il governo del popolo ma la teocrazia, il governo di Dio e dei suoi rappresentanti con i quali c'è poco da discutere. Invece, maestro insuperabile dell'arte del dialogo, cioè della filologia che conviene alla democrazia, è certo Socrate, a cui si deve la denuncia di due opposti pericoli. Vi sono - dice - 'persone affatto incolte', che 'amano spuntarla a ogni costo', anche a costo di persistere nell'errore e di trascinare altri nell'errore. Vi sono poi però anche coloro che 'passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c'è nulla di sano o di saldo, ma tutto [...] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante'. Dobbiamo guardarci dall'uno e dall'altro pericolo e non lasciarci penetrare nell'animo né dalla tentazione della nostra verità acquisita una volta per tutte, né 'dal sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro'. Affinché sia preservata l'integrità del ragionare, deve essere prima di tutto rispettata la verità dei fatti, che è la base di ogni azione orientata a intendersi onestamente. Sono dittature ideologiche i regimi che manipolano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc, attraverso Ministeri della verità come descritti da George Orwell in 1984. La manipolazione, il travisamento e la ri-creazione dei fatti avviene con le parole. Così può accadere che la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza. Sono regimi corruttori delle coscienze "fino al midollo" quelli che trattano i fatti come opinioni traducibili in parole che vanno su e giù e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, in cui verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell'ingiusto, il bene su quello del male; in cui la "realtà non è più la somma totale di fatti duri e inevitabili, bensì un agglomerato di eventi e parole in costante mutamento [su e giù, per l'appunto], nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso" secondo l'interesse al momento prevalente. [2] Ond'è che la menzogna intenzionale - oggi forse più che mai strumento ordinario della vita pubblica - dovrebbe trattarsi come crimine maggiore contro la democrazia. Né intestardirsi, dunque, né lasciar correre, secondo l'insegnamento socratico. Il quale ci indica anche la virtù massima di chi ama il dialogo; rallegrarsi di essere scoperto in errore. Chi, al termine di un dialogo, è ancora sulle sue stesse iniziali posizioni, infatti, ne esce esattamente com'era prima; ma chi è stato indotto a correggersi ne esce migliorato, alleggerito dell'errore. Se di solito, invece, riteniamo il contrario e consideriamo una sconfitta, addirittura un'umiliazione, l'essere colti in errore, se questa virtù non è affatto in onore, è perché siamo lontani dal giusto spirito del dialogo e ci lasciamo sopraffare da orgoglio, vanità, protervia, partito preso, tutte cose che non hanno a che fare né con lo spirito del dialogo né, quindi, con la democrazia. E' perchè chi la pensa diversamente da noi è, nella migliore delle ipotesi, soltanto uno che deve essere sopportato, nella peggiore, umiliato, e non, come dovrebbe, uno da apprezzare e onorare come un benefattore. Il che porta alla violenza delle parole e dei discorsi, il contrario della democrazia.
La cura delle parole. Essendo la democrazia una convivenza basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo, cioè le parole, deve essere oggetto di una cura particolare, come non si riscontra in nessuna altra forma di governo. Cura duplice: in quanto numero e in quanto qualità.
(a) Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità; più parole, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio politico si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo alla condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l'esigenza di impadronirsi della lingua [3] ? Comanda chi conosce più parole. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà all'argomento, al logos migliore, ma alla persona più abile con le parole, come al tempo dei sofisti. Ecco perché la democrazia esige una certa uguaglianza - per così dire -nella distribuzione delle parole. "E' solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno" [4]. Ecco perché una scuola ugualitaria è condizione di democrazia.
Conoscere molte parole non vuol dire usare molte parole. «Se non ti è possibile la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: non sciuparla [...] con troppe parole e in un viavai frenetico. /Non sciuparla portandola in giro [...] nel gioco balordo dei convegni / e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea» [5]. Non si fa qui infatti affatto l'elogio dei lunghi discorsi dai quali la nostra esistenza è tormentata, della prolixitas, del multiloquium che è vaniloquium e garrulitas, secondo le classificazioni dei grammatici medievali. Anzi, chi conosce molte parole può usarne poche perché sa scegliere quelle giuste e solo quelle. Così contribuisce alla chiarezza, perché vale per il linguaggio la massima: tante più parole, tante più possibilità di equivoco, se non di imbroglio. E così obbedisce anche ai precetti biblici. Nei Proverbi, ad esempio, leggiamo: "Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena la lingua è prudente" (10, 19); "Chi sorveglia la sua bocca conserva la vita, chi apre troppo le labbra incontra la rovina" (13,3). Il Siracide ammonisce: "Chi abbonda nel parlare si renderà abominevole; chi vuole assolutamente imporsi sarà odiato" (20, 8); "la parola del prudente è ricercata nell'assemblea; si rifletterà seriamente sui suoi discorsi; scienza dell'insensato, i discorsi confusi. Lo stolto alza la voce mentre ride; ma l'uomo saggio sorride appena in silenzio. Le labbra degli stolti ripetono sciocchezze, le parole dei prudenti sono pesate sulla bilancia" (21, 17-18-20-25). L'apostolo Giacomo, poi, è addirittura ossessionato dai pericoli della parola sovrabbondante: "se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo"; "la lingua è un fuoco, è il mondo dell'iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita"; "la lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno" (Gc 3, 2-6-8). Ma chi pronuncia la condanna più dura è Gesù di Nazareth: Rivolgendosi ai farisei, "io vi dico che ogni parola inutile (rêma argòn) che gli uomini diranno, ne renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato" (Mt 12, 36-37).
(b) Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il dialogo sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con parole. Un esempio? Primo Levi. Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Ancora impariamo da Socrate: "Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito"; "il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi" [6]. Invece, il mondo della comunicazione pubblica e della politica è quello in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare per l'appunto proprio dalla parola "politica". Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. E' l'arte, la scienza o l'attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. "Questa è un'epoca politica - si è detto [7] -. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare". La "strapazzatissima citazione" di Clausewitz [8] "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi" - che colloca, sì, la guerra in un contesto politico, ma la qualifica espressamente come mezzo diverso da quelli politici - è diventata un lasciapassare per un radicale tradimento del concetto: la celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse [9]. Qui avremmo la definizione essenziale non del "politico" ma, propriamente, del "bellico".
Ancora: la libertà, nei tempi antichi significante la condizione di chi, come liberto, si affrancava dal padrone, significato, nei tempi moderni, proseguito con quello di protezione degli inermi contro gli abusi del potere politico-religioso (si pensi alla libertà di coscienza nell'Europa cristiana) è diventata lo scudo sacro dietro il quale i potenti della terra nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi, finendo per dar ragione alla reversibilità o alla simmetricità di libertà e schiavitù, secondo il concetto di Leopardi (Zibaldone, p. 912): "La libertà vera e perfetta di un popolo non si può mantenere anzi non può sussistere senza l'uso della schiavitù interna [...] Il principio della necessità della schiavitù ne' popoli precisamente liberi, è verissimo. Ecco in ristretto il fondamento e la sostanza di questa proposizione".
Ancora: la giustizia, un'invocazione che è sulle labbra di coloro che levano le mani al cielo, di coloro che, di essa, "hanno fame e sete" e, a causa di essa, "sono perseguitati" (Mt 5, 6 e 10) è diventata l'autorizzazione per ogni politica di potenza, tanto più spietata nei confronti degli inermi quanto più elevato, universale e incondizionato è il suo contenuto.
Onde potrebbe porsi, anzi deve porsi la domanda se il lessico della politica e, oggi della politica nella sua forma democratica, non sia intrinsecamente ambiguo e se il suo significato non dipenda sempre, costituzionalmente, e non muti, radicalmente, a seconda di chi lo usa. Perciò, a chi parla di politica, libertà, giustizia - ma l'elenco potrebbe allungarsi - dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai ? Degli inermi o dei potenti?
Christian Ferrari
Maurizio Landini
Dario Missaglia
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