Un frutto esotico in orti, giardini e... al supermercato: il Diospyros kaki L.

di Annalisa Nesi

L’articolo di Annalisa Nesi che pubblichiamo nasce dalle numerosissime domande arrivate alla nostra redazione di Consulenza linguistica sulla denominazione del diospero (o caco, o kaki, o...), un frutto esotico ormai diffuso e conosciuto, ma il cui nome presenta moltissime varianti e oscillazioni grafiche distribuite su tutto il territorio italiano. Proprio questa straordinaria ricchezza di termini e l’ampia documentazione a disposizione, così ben ripercorse da Annalisa Nesi, hanno trasformato quella che poteva essere una risposta di consulenza in questo articolo decisamente “polposo” proprio come il frutto di cui si parla.

[immagine tratta dallo studio di E. Giordani, E. Bellini, IL KAKI (D. kaki L.f.), pubblicato sul sito del DISPAA dell'Università di Firenze]

Come si chiama quel frutto rosso-arancio, grande più o meno come una mela che vediamo in tardo autunno sull'albero ormai privo di tutte le foglie? Che si coglie non ancora maturo e si mette a finire la maturazione vicino alle mele? Spesso i giovani non sanno rispondere forse perché gli alberi di Diospyros kaki sono rari negli orti e nei giardini di città, mentre i frutti si vedono sempre di più lontani dall'albero nelle vaschette dei supermercati. Non molti anni fa i frutti erano una nota di colore nei giardini spogli, spiccavano alle porte dell'inverno come un ultimo cenno di stagioni più ricche di frutta. Ma si sa, se i frutti non si colgono per tempo cadono schiacciandosi in terra e sporcano con la loro polpa gelatinosa. E poi oggi si commerciano, cosa che non avveniva almeno una ventina d'anni fa, a parte nelle aree dove la coltura era ed è ancora oggi diffusa. Forse è anche l'entrata nel circuito della grande distribuzione che rinnova l'interesse per questo frutto – oggi valorizzato per la ricchezza di minerali, di vitamina C e per le sue proprietà diuretiche, lassative, depurative – e dunque anche per il suo nome in lingua o per le denominazioni dialettali.

 

I quesiti inviati alla Consulenza Linguistica dell'Accademia riguardano perlopiù la legittimità della forma caco («caco o cachi? Vorrei conoscere la forma corretta [...]» scrive ad esempio Paola e con lo stesso dubbio si fanno avanti altri) oppure la correttezza della grafia kaki o cachi («come si scrive cachi o kaki» ci chiede Stefano da Gravina in Puglia).

Il Diospyros kaki (L.) è una pianta esotica della famiglia delle Ebenacee importata dall'Asia verso la metà dell'Ottocento, originaria delle regioni calde della Cina «più di un millennio fa è passato in Giappone trovandovi la più ampia diffusione colturale»[1]; ai primi del Novecento in Romagna, soprattutto nel forlivese, e in Campania, soprattutto nel napoletano e nel sarnese, si hanno  coltivazioni significative e ancora oggi molta della produzione viene da quelle aree, oltre che dalla Sicilia. Ci sono diverse varietà di colore rosso-arancio o giallo-arancio, con polpa gelatinosa o consistente.

 

Il nome scientifico è composto dal greco diòspyros 'frutto degli Dei'(letteralmente 'frumento di Giove')[2] e dal giapponese kaki, per tramite del francese[3]. Nell'uso dei botanici si ha in modo stabile kaki, come corrispondente volgare del nome scientifico linneano, ma in italiano si scrive comunemente cachi. La denominazione vale per l'albero e per il frutto. La voce nella forma cachi è attestata la prima volta nel 1836[4] e caki nel 1892[5]. In precedenza si ha kaki nel 1826 in un trattato del botanico Gaetano Savi[6] e nel 1827 nella traduzione dal tedesco di un manuale di storia naturale[7]. Già Panzini all'inizio del Novecento – in quel momento doveva esserci un'oscillazione nella rappresentazione grafica, oltre alla spinta all'adattamento di parole straniere alla grafia italiana – inserisce cachi nel suo Dizionario moderno come forma da preferirsi; poi rinvia a kaki, voce straniera[8]. Del resto anche più tardi vediamo alternarsi le due forme, seppure a distanza di tempo, anche presso lo stesso autore; ad esempio il noto agronomo Alessandro Morettini intitola un suo breve articolo Coltura di diospiri o cachi (1939), e poi un suo volume Il kaki o diospiro (1949)[9]. Diversi dizionari moderni segnalano anche la formagrafica kaki, ma rara. La stessa alternanza grafica si ha per “colore tra il fulvo e il sabbia, tipico degli abiti coloniali’[10], che ha tutt’altra origine (persiana e non giapponese) e che è entrato tramite l’inglese e non il francese.

    

[immagine tratta dallo studio di E. Giordani, E. Bellini, IL KAKI (D. kaki L.f.), pubblicato sul sito del DISPAA dell'Università di Firenze]

La domanda che in genere si pongono i parlanti è se sia corretto usare caco al singolare e cachi al plurale. Il sostantivo è invariante, ma come riportano diversi dizionari esiste anche la forma caco, plurale cachi, data come semplice variante[11] o come voce popolare[12]. Si tratta di una sorta di “normalizzazione” davanti a un caso eccezionale: di regola la terminazione -i si usa per i plurali maschili, dunque si interpreta il sostantivo come plurale e si ricostruisce il singolare in -o, secondo le regole della nostra lingua[13]. Nella lingua parlata corrente è assai diffusa la forma caco come mostrano i dati raccolti con la domanda 132 della “Lingua delle città”[14] che si interessa alle denominazioni di questo frutto: intervistando 372 parlanti in 31 città italiane, variamente distribuite sul territorio, si è ottenuta la risposta caco 160 volte. Numericamente identiche le risposte cachi, ma con la certezza dell'uso al singolare solo in 32 casi dichiarati, fra i quali spiccano le città di Nuoro e Oristano col maggior numero di presenze. La domanda, per quanto posta in modo da ottenere il massimo delle informazioni, ha incontrato una certa “resistenza” da parte degli informatori, fatto che potrebbe attribuirsi proprio alla difficoltà di avere un'idea sicura della forma di lingua.

La parola, del resto, è di introduzione relativamente recente e la sua diffusione è in certo modo correlata a quella della pianta. L'assenza nei dizionari anche tardo ottocenteschi mostra chiaramente che non era entrata stabilmente nel repertorio della lingua, benché fosse in via di acclimatazione come termine tecnico della botanica. Nella lessicografia la forma popolare caco è registrata nel 1965 dal Dizionario Garzanti[15], per primo secondo il DELI, ma non tutti i dizionari la segnalano[16].

Una rapida scorsa agli archivi delle maggiori testate giornalistiche evidenzia – per quanto la parola non ricorra spesso - una forte adesione a cachi invariante, con rare variazioni a favore di kaki spesso legate ad articoli tecnici, sporadicamente si ha caco.

Nel nostro variegato panorama linguistico e pur nel generale accordo su una parola che è ormai “etichetta” stabile per la vendita del frutto nella grande distribuzione, non potevano certo mancare denominazioni dialettali che entrano poi nel nostro parlare quotidiano in lingua e si attestano come regionalismi. Anche su questi usi linguistici si interrogano i parlanti e le loro domande diventano preziosa testimonianza di come resista una trasmissione familiare anche oltre il radicamento territoriale e oltre il repertorio di lingua, per quanto abbastanza assodato. Il caso di Umberto che scrive da Siracusa, è esemplare: «Vorrei sapere quale sia il termine più corretto per indicare il frutto del cachi. A casa mia, per tradizione da mia madre fiorentina di origine senese, si è sempre detto “pomocaco” o “pomocacco”. Tuttavia sia in Alta Italia che in Meridione tutti rimangono strabiliati dal termine e nessuno capisce cosa voglia dire». Posso aggiungere che “in terra di diòsperi”, a Firenze, un'autoctona con madre di altra città toscana usa spontaneamente “pomo”. E ancora, Gisella ci chiede se cachi sia sinonimo di lodo. Abbiamo messo insieme pochi dati, ma sufficienti per sollecitare un approfondimento.

 

Prima di tutto ci chiediamo in quanti altri modi si chiama il cachi fuori dalla Toscana e nella stessa Toscana. I dizionari in questo caso non ci danno sinonimi regionali, ma dalle indagini per la “Lingua delle città” emergono interessanti dichiarazioni d'uso che non si allineano con la parola di lingua o la affiancano. A Catania lòdo/lòto è la risposta di 6 informatori con netta prevalenza di donne (5/6) e con la precisazione di uno solo: «in siciliano lòti»; a Lecce lòdo è di 4 informatori (2 donne e 2 uomini, anziani e di bassa istruzione); lòto compare anche a L'Aquila, a Roma, a Rieti seppure con un solo informatore per città[17].Evidentemente si tratta di forme da ricondurre a loto, recuperato dal linguaggio scientifico e passato alla lingua comune[18]. La lessicografia lo registra raramente come loto del Giappone, senza segnalazione di appartenenza dialettale[19]. Del resto proprio in questa forma sintagmatica è in sinonimia con cachi in diversi scritti di ambito tecnico tardo ottocenteschi e novecenteschi[20].

Non mancano le variazioni sulla base caco: cachino ben rappresentato a Viterbo, cachì a Lucca, a Roma (dove è più diffuso di quanto mostrano i dati LinCi[21]), a Latina e a L'Aquila (raro). Un'indagine più approfondita a livello di dialetto farebbe emergere anche altre denominazioni come, ad esempio, lignosanto, dato dai dizionari napoletani[22], per il Diospyrus lotus (Albero di Sant'Andrea)[23], pianta già nota per il suo legno[24], il cui nome passa poi al Diospyros kaki di introduzione successiva.

La Toscana, grazie alla documentazione raccolta per l'Atlante Lessicale Toscano (ALT)[25], mostra una discreta frammentazione come già osservava Gabriella Giacomelli:

 

[...] a parte loto/lotro di area pistoiese, cachi [...] è marginale in tutta la regione, pomo, da classificare presumibilmente come un evidente reimpiego di parola inusitata perché sovrabbondante, piuttosto della zona centrale, ma il capoluogo e la parte settentrionale e orientale della sua provincia hanno diospero, che si può dire usato con sicurezza da tutti i fiorentini.[26]

 

All'elenco possiamo aggiungere pomocaco diffuso prevalentemente in Lunigiana, testimoniato anche dalla LinCi per le città di Massa e a Grosseto. Pomo resta comunque il secondo tipo più diffuso in Toscana, secondo i dati ALT[27], e i parlanti di città (a Prato, Siena, Grosseto) dichiarano una notevole fedeltà alla parola tradizionale anche quando si collocano a livello di italiano comune, corrente.

 

Quanto a diospero (a Firenze è attestato anche ghìospero)[28] è registrato nei dizionari di lingua come variante toscana di diospiro[29], che già abbiamo incontrato come parola tecnica della botanica in alternanza con kaki. Pare che il binomio linneano sia stato scisso nelle due componenti per designare il nuovo frutto così che a livello tecnico, dopo un periodo di convivenza, ci si è orientati su cachi; del resto diospiro era già comunque presente per designare piante appartenenti alla famiglia delle Ebenacee, ma anche il litospermo. La parola fiorentina non acquista terreno in italiano e, se in poesia la troviamo in Montale[30], in prosa è usata da Pratolini in Via de' magazzini (1949); «[...] a volte mangiavamo anche pane e soprassata, e pane e frutta fresca come mele arance diosperi, e anche pane e noci [...]»; nello Scialo (1960) a proposito di zia Ninì: «Ella aveva i capelli tutti lisci, del colore dei diosperi [...] ».  Anche in Toscana è avvertita appunto come appartenente a Firenze (ne hanno competenza passiva alcuni informatori delle altre città toscane). Possiamo affermare dunque che è a tutto titolo dialettale per quanto il suo successo non sia scalfito nell'italiano di Firenze. Considerato che il primo albero di Diospyros kaki sembra sia stato piantato nel giardino di Boboli «la circostanza potrebbe farci pensare a una priorità di diospiro/-ero rispetto cachi, come termine del parlato»[31].

Mi ero già interrogata sul nome di questo frutto molto tempo fa e ne era scaturita questa riflessione:

 

Della scuola mi è rimasta una curiosità che si può riassumere in una domanda: che parola aveva usato la mia compagna di classe in quel famoso tema bellissimo (la descrizione di un albero) che la maestra le aveva fatto leggere a voce alta a mo' d'esempio? E la maestra, se le aveva corretto il nome dell'albero e dei suoi frutti autunnali, come se l'era cavata visto che ancora non c'erano i supermercati e i pomi non li vendeva l'ortolano, ma te li regalavano quelli che avevano la pianta in giardino e li mettevi a maturare nel cesto delle mele? Pomo, diospero, loto, caco, cachi, cacchì o che altro?»[32].

 

Dopo tanti anni, un'amica che parla un italiano molto corretto, quando non cede consapevolmente alla dialettalità che ci accomuna, mi offre un po' di frutti dell'albero del suo giardino: “Li vuoi un po' di pomi? Ne ha fatti tanti quest'anno”. Erano davvero buoni, il sapore mi ha riportato all'infanzia, eppure compro i cachi al supermercato quando è stagione. Sospetto però che sia tutta colpa della parola che uso con disinvoltura consapevole anche quando parlo italiano, un po' per vezzo e un po' per amore. Insomma molti di noi mangiano ancora il pomo, il pomocaco, il loto, il lodo, il legnosanto, ildiospero, ma certo non si capiscono fra loro e allora si deve ricorre a cachi parola di dizionario, “parola scritta” corretta, o a caco “parola parlata”. Sì, perché alla fine il giusto e lo sbagliato dipendono dal contesto e siamo noi a scegliere la forma “adeguata”.

 

Annalisa Nesi



[1] E. Giordani, E. Bellini, Il kaki (D. kaki L.f.) SPECIE: Diospyros kaki L.f. (= D. kakiThunb.) - FAMIGLIA: EBENACEAE, Dipartimento di Scienze delle Produzioni Agroalimentari e dell'Ambiente, Università di Firenze [http://www.dispaa.unifi.it/cmpro-v-p-115.html].

[2] Si tratta di voce dotta dal greco Diós (genitivo di Zeus) epyrós 'chicco di grano' (DEI= C. Battisti, G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze, Barbera, 1950-57).

[3] Inizialmente, in francese, si ha una forma adattata caque (figue caque, 1820) e kake (1830), poi soppiantata da kaki (1822) in adesione alla forma del latino scientifico (A. Rey, Dictionnaire historique de la langue française, Paris, Le Robert-Sejer 25, Nouvelle édition, 2010).

[4] Cfr. DELI = M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna Zanichelli 1979-1988 che riporta come fonte A. Bazzarini, Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Venezia, 1830-35, Supplimento 1836-37.

[5] Cfr. DELI che riporta come fonte  G. Garollo (diretta da), Piccola enciclopedia Hoepli, Milano 1892-95.

[6] Cfr.G. Savi, Appendice al Trattato degli alberi della Toscana, Pisa, Nistri 1826, p. 22: «Sì vulgo kaki».

[7] Cfr. Manuale della storia naturale di Gio. Fed. Blumenbach recato in italiano da Malacarne, Vol. 1, Milano Fontana, 1827, p. 404 nota.

[8] A. Panzini, Dizionario moderno, supplemento ai dizionari italiani, Milano, Hoepli 1905.

[9] A. Morettini, Coltura di diospiri o cachi; «Rivista della Società Toscana di Orticultura», Vol. 24, 3/4 marzo/aprile 1939, pp. 57-62; A. Morettini, Il kaki o diospiro, notizie storiche ed economiche, botanica e varietá agricole, coltivazione, causa nemiche, commercio, Roma, Ramo ed. degli Agricoltori, (Biblioteca per l'insegnamento agrario e professionale), 1949.

[10] A. Panzini, cit., anche per il colore suggerisce la grafia cachi; successivamente  in alcuni dizionari è presente l'alternanza cachi/kaki (cfr. ad esempio, Vocabolario Treccani on line, DISC).

[11] Ad esempio, GRADIT = Grande dizionario italiano dell'uso, Torino, UTET ideato e diretto da Tullio De Mauro, con la collaborazione di Giulio Lepschy e Edoardo Sanguineti, Torino, utet, 1999.

[12] Ad esempio, Dizionario Garzanti della lingua italiana, Milano, Garzanti 1965 e edizioni successive; DISC Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti, 1997; http://www.treccani.it/vocabolario/cachi2/.

[13] Cfr. P. D’Achille, Le retroformazioni in italiano, in Lessico e formazione delle parole. Studi offerti a Maurizio Dardano per il suo 70° compleanno, a cura di Claudio Giovanardi, Firenze, Franco Cesati, 2005, pp. 75-102,  p. 85.

[14] A. Nesi, T. Poggi Salani, La lingua delle città LinCi. La banca dati, Firenze, Accademia della Crusca, 2013. Al frutto è strettamente legata un'altra domanda del questionario relativa alla sensazione che resta in bocca quando si “assaggia” un cachi acerbo: allegare (i denti). […]. Si riporta, a questo proposito, l'uso metaforico di Calvino in Campo di mine (1946):«[...] aveva chiesto l'uomo, con un sorriso che gli aveva legato i denti come un cachi acerbo».

[15] Così in DELI, al lemma cachi2.

[16] Non è presente, ad esempio, in E. De Felice, A. Duro, Vocabolario italiano, Palermo Palumbo, 1993.

[17] Cfr. P. D'Achille, A. Viviani (a cura di), La lingua delle città: i dati di Roma, Latina, L’Aquila e Catania, Roma, Aracne, copyr. 2003 [ma 2007].

[18] La storia della parola lòto richiederebbe un discorso lungo e complesso che non è il caso di affrontare. Basti dire che è voce antica e letteraria di origine greca e designa piante legnose appartenenti a diverse famiglie (ebenacee, meliacee, rosacee ecc.), piante erbacce ed acquatiche (DEI, E. De Felice, A. Duro, cit. e GDLI = S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, Utet, 1961-2002.)

[19] La prima attestazione è nel DEI chiosato come termine delle botanica; è presente, ad esempio, nel GRADIT.

[20] In un catalogo di vendita di piante e semi troviamo Loto del Giappone (Dyospiros kaki) (Stabilimento d'orticultura di Nicola Gribaldo, Catalogo e prezzo corrente per l'autunno 1872 -Primavera ed Estate 1874, Padova); perlopiù in sinonimia con kaki e legnosanto, è presente in diversi studi di botanica ma pare che l'uso sia sempre più raro dopo gli anni '50 dello scorso secolo.

[21] P. D'Achille, I dati LinCi nelle città del Lazio tra italiano standard, italiano deRoma e affioramenti dialettali, in A. Nesi (a cura), La lingua delle città. Raccolta di studi, Firenze, Cesati, 2013, pp. 209-246, p. 216.

[22] Per esempio, R. D’Ambra, Vocabolario napoletano toscano domestico di arti e mestieri, Napoli, a spese dell'autore, 1873, s.v.

[23] Il tipo lessicalelegnosanto per il Diospyros lotus non è solo napoletano, ma lo troviamo anche in Veneto, Emilia, Marche, Umbria, Calabria e Sicilia, come leggiamo nell'erbario forestale curato dal Ministero dell'agricoltura all'indomani dell'Unità d'Italia (Annali del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Nomi volgari adoperati in Italia a designare le principali piante di bosco, Firenze, Barbèra, 1873, p. 53).

[24] Poi il Diospyros lotus, per la sua resistenza al freddo, viene scelto come portainnesto del Diospyros kaki (E. Giordani, E. Bellini, cit.).

[25] G. Giacomelli e Altri, ALTweb Parole di Toscana [http://serverdbt.ilc.cnr.it/altweb/].

[26] G. Giacomelli, Atlante Lessicale Toscano: risultati geolinguistici e prospettive storiche, in Atlanti regionali: aspetti metodologici, linguistici e etnografici,Pisa, Pacini, pp.163-189, p. 171.

[27] T. Poggi Salani,“La Lingua delle Città”. Prima ricognizione su un progetto di ricerca nazionale,in Città Plurilingui. Lingue e culture a confronto in situazioni urbane/Multilingual Cities. Perspectives and insight on languages and cultures in urban area, Udine, Forum, 2004, pp. 437-448, p. 447.

[28] Vocabolario fiorentinohttp://www.vocabolariofiorentino.it.

[29] Ad esempio, in E. De Felice, A. Duro, Dizionario della lingua e della civiltà italiana contemporanea, Palermo, Palumbo 1975; F. Palazzi, G.F. Folena, Dizionario della lingua italiana, Torino, Loescher 1992;N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli XII 1994; GRADIT.

[30] In Montale figura il plurale diosperi, ma cfr. Mengaldo (rec. alle Concordanze montaliane di G. Savoca apparsa su L'Indice 1988, n. 4): «l'utente di questa "Concordanza" può credere che ne "L'elegia di Pico Farnese" sia stato scritto sempre, v. 38, il corretto fiorentino "diosperi" 'cachi', che invece è correzione dell'ultim'ora, resa possibile a Montale dalla scoperta di uno studioso (Rebay) e discutibilmente accolta nell'edizione critica, in luogo dell'originario, e certo equivoco, "diaspori", che sarà stata magari forma del lessico familiare dell'autore e di Drusilla Tanzi detta Mosca e che dunque nella "Concordanza" non figura». Possibile invece che l’uso di diaspori si spieghi con la non conoscenza della parola, riaccostata a diaspora.

[31] G. Giacomelli, cit., p. 187 n. 44.

[32] A. Nesi, “So assai!” Pensieri in libertà sui dati LinCi a Prato, in A. Nesi (a cura), La lingua delle città. Raccolta di studi, Firenze, Cesati, 2013, pp. 145-152, p. 152.

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