Luca Serianni ha così ricordato Giovanni Nencioni sulle pagine dell’Osservatore Romano del 6 maggio 2008.
Un ricordo di Giovanni Nencioni, per 28 anni presidente dell’Accademia della Crusca.
di Luca Serianni (Università di Roma La Sapienza)
Ricordando nel 1976 Bruno Migliorini, un altro grande linguista del Novecento, Giovanni Nencioni immaginava che il commemorato fosse lì, a fargli «insistente cenno col dito alle labbra,come a dire: “ Non parlate troppo di me, né a voce troppo alta. Rispettate il mio stile”» E aggiungeva: «C’è chi, uscendo di scena, solleva dietro di sé un polverone do parole; c’è chi se ne va in punta di piedi, cercando di non turbare gli amici, di non disturbare i compagni di lavoro». Sono parole che si addicono pienamente anche a chi le ha scritte e ne riflettono la misura, il senso dello studio come ricerca comune, il signorile riserbo. Nencioni morto sabato 3 maggio a Firenze, era nato nel capoluogo toscano nel 1911: il prossimo 11 settembre avrebbe dunque compiuto novantasette anni. I funerali si sono svolti il 5 maggio nella chiesa fiorentina di S. Frediano in Cestello. Come molti altri umanisti della sua generazione – per esempio Giorgio Petrocchi – aveva esordito con studi giuridici: si era laureato nel 1932 in diritto processuale con Pietro Calamandrei – un maestro sempre ricordato per la grande lezione di etica civile – e aveva lavorato diversi anni come funzionario nel Ministero dell’educazione italiano. «La vita ministeriale – avrebbe scritto nel 2000 – deprimente per le intelligenze orgogliose, fu per me un corso di educazione civile in tempi calamitosi e alienanti (…). In quella esperienza diventai anch’io un cittadino prima che uno studioso».
La sua carriera accademica si svolse tutta nel dopoguerra: prima a Bari, dove insegnò glottologia (1950 – 1952), poi come storico della lingua italiana a Firenze (1952 – 1974) e infine alla Suola normale di Pisa, dal 1974 fino al pensionamento. Fu per quasi un trentennio (1972 – 2000) presidente dell’Accademia della Crusca, ed è questa la veste con cui diventò noto al grande pubblico, specie da quando (1990) fondò il foglio periodico, «La Crusca per voi» espressamente «dedicato alle scuole e agli amanti della lingua» e distribuito per diversi anni gratuitamente a chiunque ne facesse richiesta: era un modo concreto per onorare la sovvenzione promossa da Indro Montanelli, che – suscitando un’ampia e partecipe adesione dei lettori del suo «Giornale» – permise all’Accademia di far fronte alle ristrettezze economiche in cui quella secolare istituzione si dibatteva.
Nel foglio Nencioni interveniva abitualmente, rispondendo – con dottrina e inesauribile pazienza – ai quesiti dei lettori, anche a quelli più bizzarri. Tra gli ultimi suoi scritti pubblici sono proprio due interventi nella «Crusca per voi»: il saluto ai lettori, «Sulla soglia», nel momento di lasciare la presidenza dell’Accademia a Francesco Sabatini (2000 ); e la risposta a un lettore (2002) sulla reggenza del verbo «colorare», a proposito del dantesco «che fece l’Arbia colorata in rosso», (perché non «di rosso» si chiedeva il lettore; forse per ragioni metriche?) Se è vero che i grandi studiosi restano tali anche nei loro interventi marginali – de minimis curat philologus, verrebbe la voglia di dire – non sembrerà indiscreto partire proprio da qui per cogliere due temi di portata generale nel pensiero e nell’attività saggistica di Nencioni. Il primo è l’impegno in favore della lingua italiana, per il quale ribadiva un suo antico auspicio: che nella scuola di ogni ordine e grado si istituisse «un insegnamento della lingua nazionale non limitato all’uso letterario, ma rivolto alle specializzazioni culturali e professionali». Nencioni fu sempre distante dal purismo, specie nella dimensione corriva del catastrofismo (il congiuntivo è morto; l’italiano è diventato un gergo barbaro e così via): sensibile al naturale processo di evoluzione della lingua, nella dinamica tra norma grammaticale e innovazione individuale, seppe cogliere e descrivere magistralmente le tendenze in atto. Ma, nutrito di storia quale era, sapeva bene quanto la lingua come deposito della tradizione fosse decisiva per la stessa, sofferta, identità nazionale del nostro paese. Il tema della lingua – scrisse nel 2000 – «ha percorso, in modo diverso secondo le diverse situazioni, la storia plurisecolare dell’Italia, da stazione a stazione in una mobilissima via crucis. Di qui l’auspicio che la sede istituzionale deputata allo studio della lingua nazionale – appunto “la scuola di ogni ordine e grado» – riservasse allo scopo uno spazio specifico e puntuale.
Anche la questione di «colorare in / colorare di» si presta a riflessioni più ampie. I poeti attingono alla realtà linguistica circostante (le licenze poetiche sono molto più rare di quel che abitualmente si crede) e, nella fattispecie, è ben più verosimile che il costrutto «colorare in», attestato in Dante e nel suo contemporaneo Lapo Gianni rifletta un uso tecnico, artigianale proprio delle cerchie di pittori attive nella Firenze della fine del Duecento.
Di Nencioni resteranno a lungo – di là dall’intenso rimpianto per quanti abbiano avuto la ventura di conoscerlo personalmente – gli studi linguistici, sgranati in un cinquantennio di attività e affidati a una decina di volumi. La sua modestia lo portò a definire nel 1983 la propria produzione saggistica «piuttosto rapsodica (Trompeo direbbe vagabonda)». In realtà, una formazione tanto più solida quanto più stratificatasi nel tempo e acquisita attraverso un percorso maturo e personale, insieme con un’inesauribile curiosità intellettuale lo spinsero verso aree e temi assai diversi: dalla linguistica teorica alla lingua di artisti e storiografi – Michelangelo e Vasari – dalla sociolinguistica alla critica stilistica. Forse tra i saggi che più si raccomandano alla lettura, sono i profili di autori e la lettura di singolo e opere: Dante, Manzoni, Leopardi, Carducci, Pascoli, Pirandello, solo per fare alcuni nomi; saggi in cui lo specifico della lingua letteraria, percepito con antenne sensibilissime, si accompagna alla capacità di elaborare paradigmi interpretativi generali. È il caso del rapporto scritto – parlato – un tema decisivo per la letteratura teatrale – sviluppato in un saggio del 1976, presto diventato classico: Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato.
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