Molte parole nascono ma poche crescono: chi lo decide?

di Rita Librandi

La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.


Sui neologismi l’Accademia della Crusca è tornata in più occasioni, ma i fraintendimenti che continuano ad affiorare nelle pagine dei giornali, nelle discussioni in rete o nelle trasmissioni televisive ci inducono a riprendere ancora una volta l’argomento.

Cerchiamo, questa, volta, di ricostruire un po’ di storia, che forse ci aiuterà a chiarire meglio non solo che cosa siano i neologismi ma anche perché suscitino da sempre tante reazioni contrastanti. Cominciamo con il dire che il termine neologismo è un composto che si attesta in italiano nel XVIII secolo ed è formato da due componenti greche, il sostantivo lógos (‘parola’) preceduto dall’aggettivo néos (‘nuovo’). Che faccia la sua apparizione nel Settecento non è probabilmente un caso, sia perché molte furono le necessità in quel secolo di formare parole nuove per colmare vuoti in ambito filosofico e scientifico, sia perché tanti dei nuovi termini furono attinti dal francese; il che suscitò numerose reazioni negative. In realtà, ogni lingua si caratterizza per la necessità intrinseca di rinnovare costantemente il proprio lessico, formando parole per designare oggetti fino a quel momento ignoti, per denominare elementi di particolari scoperte scientifiche, per indicare concetti elaborati da una speculazione filosofica in continuo divenire, e così via; non mancano, d’altro canto, formazioni dovute all’estro di scrittori, cantanti, giornalisti, che talvolta riescono ad attecchire e che godono, ai nostri giorni, della complicità delle comunicazioni di massa. Nonostante si tratti, dunque, di un procedimento che è parte integrante della vita di ogni lingua, i neologismi sono spesso guardati con sospetto e con il timore che la lingua stia subendo un’aggressione e una contaminazione che la snaturerà. Si tratta di una diffidenza antica, di cui si trova traccia fin dagli autori dall’età classica, ma che probabilmente è andata crescendo, negli ultimi tempi, a causa della rapidità con cui alcune parole ed espressioni ripetute solo per moda (spesso in maniera impropria e in modo irriflesso) invadono l’italiano, contribuendo all’incremento della cosiddetta “lingua di plastica” (Ornella Castellani Pollidori, La lingua di plastica. Vezzi e malvezzi dell’italiano, Napoli, Morano 1995). In buona parte dei casi, tuttavia, il timore è alimentato soprattutto dalle parole nuove che entrano attraverso altre lingue, come confermano le critiche già ricordate contro il gran numero di francesismi regolarmente penetrati nella nostra lingua almeno fino ai primi del Novecento. La comune origine di italiano e francese, d’altro canto, ha reso possibile il pieno amalgama di tanti prestiti giunti dalla Francia, che da tempo non sono più percepiti come elementi estranei; lo stesso, però, non può accadere con gli anglismi, che suscitano, anche per questo motivo, le reazioni più accese. Si dovrebbe in realtà distinguere tra le mode che si diffondono supinamente tra i parlanti e che spesso non hanno vita duratura, e le situazioni che, al contrario, possono realmente mettere a rischio alcuni settori della lingua, soprattutto quelli tecnico-scientifici. Non è su questi aspetti, tuttavia, che vogliamo, per il momento, soffermarci, bensì su ciò che decide della nascita e della permanenza dei neologismi.

Non sono poche le parole nuove che, pur godendo di un rapido e improvviso successo, dopo poco scompaiono nel nulla; quand’è, dunque, che possiamo dirle a tutti gli effetti parole del nostro lessico? Molti ritengono che proprio l’Accademia della Crusca abbia l’autorità di scegliere quali parole possano essere accolte nei dizionari, ma, come ogni linguista sa, è solo l’uso che la comunità linguistica mostrerà di farne per un significativo lasso di tempo che sancisce l’immissione di una parola o di un’espressione nella lingua. Che cosa invece può fare l’Accademia della Crusca? Può sicuramente esprimere il proprio parere sulla correttezza o meno di una neoformazione, sulla sua rispondenza, cioè, alle regole che governano la formazione delle parole in italiano e che qui non è possibile riassumere brevemente. Diciamo solo, per fare un rapido esempio, che nella gran parte dei casi le parole nuove si ottengono in italiano modificando parole già esistenti, soprattutto con l’aggiunta di prefissi o suffissi (in-capiente, sovran-ismo o, con l’aggiunta simultanea di prefisso e desinenza, im-piatt-are ecc.). Alcuni suffissi, in particolare, si specializzano nella formazione di sostantivi (berluscon-ismo, ecolog-ista ecc.) e aggettivi (veltroni-ano, argill-oso ecc.) o anche nella derivazione da un solo tipo di base: il suffisso -oso, per esempio, può formare aggettivi solo partendo da un nome e mai da un verbo o da un altro aggettivo (sono impossibili, quindi, formazioni come *dormoso o *faciloso). È ciò che è avvenuto qualche anno fa con petaloso; quando il servizio di consulenza dell’Accademia,  interpellato sulla possibilità di adottare questa parola, rispose che l’aggettivo era ben costruito, in quanto rispondeva alle regole di formazione delle parole dell’italiano, ma che ciò non bastava a farla ammettere nel nostro vocabolario. Nonostante ciò, i giornali, sintetizzando in modo un po’ sommario la risposta e inserendo titoli ambigui, finalizzati a catturare l’attenzione, hanno avvalorato convinzioni inesatte, che, come ha sottolineato l’accademico Marco Biffi in un articolo del 2021, sono alimentati ciclicamente dai titoli ad effetto. Ancora qualche settimana fa (il 23 agosto 2024) è andata in onda, su Canale 5, la replica di un gioco a quiz (già trasmesso tra il 2018 e il 2019), durante la quale si sosteneva che l’aggettivo cioccolatoso non era stato ammesso dalla Crusca e ci si interrogava sul motivo di questa esclusione, visto che petaloso era stato invece autorizzato. Nonostante le tante spiegazioni fornite dall’Accademia su permanenza o meno dei neologismi, nessuno ha pensato di correggere la svista della vecchia trasmissione né di verificare la correttezza delle informazioni fornite al concorrente. È molto probabile, infatti, che il presunto rifiuto di cioccolatoso sia stato dedotto dalla sua assenza nella sezione del sito della Crusca destinata ai neologismi, assenza più che legittima, dato che cioccolatoso è registrato da tempo nei dizionari Zingarelli e Devoto-Oli, che danno come data di prima attestazione il 1923. Quanto a petaloso, l’unico dizionario che lo ha voluto registrare è il Sabatini-Coletti nell’ultima edizione (2024), proprio perché di quest’aggettivo (datato 1991, prima dunque della sua “esplosione mediatica”) si continua tuttora a parlare. 

L’equivoco permane a causa di un vuoto di conoscenza sul funzionamento delle lingue che la Crusca cerca stabilmente di colmare. Ciò che l’Accademia deve fare, infatti, è studiare i neologismi, la loro provenienza, le variazioni nei meccanismi di formazione, la loro capacità di acclimatarsi o le cause della loro vita effimera. Un modo diverso di studiare le neoformazioni è nato soprattutto agli inizi del Novecento con il Dizionario moderno redatto dallo scrittore, critico e giornalista Alfredo Panzini, il cui lavoro ebbe a partire dal 1905 sette edizioni, oltre a un’ottava che, curata da Bruno Migliorini e Alfredo Schiaffini, fu pubblicata nel 1942 dopo la sua morte. Da allora gli studiosi di linguistica italiana hanno fatto molti passi avanti nella ricerca sui neologismi, come testimoniano, in particolare, gli importanti lavori di Valeria Della Valle e del compianto Giovanni Adamo, che nel 1998 hanno anche costituito l’ONLI (Osservatorio neologico della lingua italiana).  L’Accademia della Crusca offre, nella sezione “Parole nuove” del suo sito, lo studio e la descrizione di parole selezionate sulla base di un esame dei mezzi di comunicazione, con l’obiettivo di "fornire uno strumento di informazione completa e corretta" su parole che si possono ascoltare o leggere ma che non sempre hanno trovato (e forse non troveranno) una trattazione adeguata negli strumenti lessicografici.

Studiare in modo rigoroso e scientifico l’avvicendarsi delle parole può darci informazioni preziose sui cambiamenti storici e sociali di un paese o sui motivi culturali che determinano accoglienze ed esclusioni. La divulgazione sensazionalistica, al contrario, rischia sempre di diffondere errori o alimentare luoghi comuni, bloccando ogni possibile crescita della conoscenza.

Redazione
11 novembre 2024 - 00:00

Commento di chiusura di Rita Librandi

Ringrazio, come sempre, tutti coloro che sono intervenuti, anche chi, come Luca Fiocchi Nicolai, sebbene spesso critico verso alcune delle nostre affermazioni, ci dedica un’attenzione di tale costanza da confermare un interesse altissimo o, potremmo dire, un’affezione per il dibattito animato dall’Accademia. Ringrazio in modo particolare Francesco Fabbrini per le parole gentili e incoraggianti e Licia Corbolante per aver fornito interessanti suggerimenti bibliografici e averci dato indicazioni opportune, di cui terremo conto, circa il modo di presentare le risposte ai quesiti linguistici. Licia Corbolante, peraltro, ha già in gran parte risposto alle osservazioni di Luigino Goffi sul confronto tra fonetica inglese e italiana: ribadisco, infatti, con lei che ogni confronto estetico tra lingue diverse può essere solo frutto di una percezione personale e non di verità oggettive. Per quando riguarda, d’altro canto, l’aspetto fonetico della nostra lingua, non c’è dubbio che nel passaggio dal latino all’italiano ci sia stata una semplificazione di molti nessi consonantici, anche se ciò non ha riguardato tutti i volgari della penisola; basterà pensare, per esempio, alle aree settentrionali, dove la caduta di vocali atone ha prodotto incontri consonantici sconosciuti alla fonetica dell’italiano. Non si è trattato, però, come sembrano sottintendere le parole di Goffi (“l’italiano ha scelto di essere...”), di una scelta consapevole compiuta in un determinato momento storico dalla comunità linguistica italiana, ma di un cammino lungo, lento e complesso. Certo l’aspetto fonetico può contribuire all’accoglienza o meno di parole nuove, ma non è la sola causa né sicuramente la più rilevante; è importante, al contrario, la permanenza duratura di un neologismo, che solo così potrà essere usato e avvertito come parola stabile della nostra lingua.

Nonostante abbia detto con chiarezza nel tema sui neologismi che non intendevo soffermarmi sulle parole nuove frutto di prestiti linguistici, la maggioranza degli interventi ha riguardato proprio questo aspetto, confermando che è proprio la penetrazione dei forestierismi a suscitare le reazioni più accese. Cercherò di rispondere all’insieme delle osservazioni, senza entrare nel merito dei singoli esempi addotti dai nostri lettori. Certamente non si può negare che nella lingua dei media, nelle parole dei politici e nella comunicazione di amministratori e responsabili di servizi pubblici si ascoltino molti anglismi superflui, poco trasparenti e spesso usati maldestramente; non si può neppure dire, tuttavia, che l’Accademia della Crusca non abbia espresso e non continui a esprimere il suo dissenso nei confronti di alcuni comportamenti. Mi limiterò a ricordare quanto è stato fatto (peraltro con successo) contro l’uso esclusivo dell’inglese nei corsi di laurea o quanto costantemente si fa con  il gruppo “Incipit”, che cerca di intercettare i forestierismi e di suggerire efficaci equivalenti italiani (https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/gruppo-incipit/251), come è stato sottolineato tempo fa anche dal presidente onorario Claudio Marazzini in un tema del mese intitolato Perché è utile tradurre gli anglismi (https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/perch--utile-tradurre-gli-anglismi/12305). Nonostante ciò, si imputa alla Crusca una sorta di lassismo accondiscendente e le si chiede di essere prescrittiva. Bisognerebbe, però, capire che cosa si intenda per prescrittivo, perché è evidente che il linguista guarda (e non può non guardare) in modo diverso, “scientifico”, al funzionamento delle lingue; mette in discussione, per esempio, la tradizionale differenziazione tra prestiti di necessità e prestiti di lusso, mentre distingue tra termini che si dissolvono velocemente e altri che occupano con più forza il lessico della lingua d’arrivo, tra usi che si dimostrano indispensabili e altri che mettono effettivamente a rischio la terminologia di alcuni settori o che rendono assai poco trasparenti i testi destinati a un ampio pubblico. Tutte le volte in cui la Crusca ritiene necessario intervenire su usi ritenuti a rischio lo fa senza esitazioni, ma non può farlo senza un’adeguata e preventiva valutazione. Se poi per prescrivere si intende imporre qualcosa per via di legge e attraverso sanzioni, non si può non ricordare (al di là di un potere giuridico che la Crusca non possiede) che nessuna legge, neppure in epoche passate, è mai riuscita a imporsi sul potere della comunità linguistica o, se vogliamo scomodare un grande autore, sull’uso che Manzoni definiva “somma dei consensi” di una società.

Andrebbe anche vista in modo più corretto e realistico l’azione svolta dall’Académie française e dalla Real Academia de España, di cui si parla spesso solo per sentito dire. Le situazioni analoghe in cui si trovano gli accademici francesi e spagnoli, con cui peraltro intratteniamo ottimi rapporti, sono veramente tante e anche qui mi limito per brevità, a ricordare soltanto che, nonostante le attenzioni poste alla penetrazione degli anglismi, in Francia si ricorre spesso al termine come franglais (adoperato inizialmente per indicare le interferenze linguistiche di alcune aree) per segnalare sempre più frequentemente l’eccesso di anglismi nel francese. Molti equivoci si creano anche intorno alla cosiddetta legge Toubon, che si ritiene abbia vietato in Francia l’uso di parole straniere. La legge proposta da Jacques Toubon, ministro della Cultura durante gli anni del governo di Édouard Balladur, mirava a proibire l’uso di forestierismi anche nella pubblicità e nei programmi televisivi, ma il Consiglio Costituzionale ritenne che ciò fosse contrario ai principi della Costituzione francese. Alcuni articoli, pertanto, furono cancellati e la legge, adottata nell’agosto del 1994, non proibisce l’uso di parole straniere, ma garantisce il giusto diritto dei cittadini a usare il francese sul lavoro, nell’istruzione e nella comunicazione pubblica. Su queste tematiche e, ingenerale, sulla questione della norma linguistica l’Accademia della Crusca organizzerà, nei primi mesi del 2025, una tavola rotonda con la presenza di studiosi francesi e spagnoli, a riprova del fatto che si tratta di problemi comuni, da affrontare insieme e con adeguata ponderazione.

Mi permetto di aggiungere, però, un aspetto che viene sempre assai poco considerato e che meriterebbe invece la massima attenzione. Se c’è un motivo per cui l’Italia dovrebbe imitare l’esempio di Francia, Spagna e Germania è il grande sostegno dato dai governi di questi paesi alla diffusione delle loro lingue all’estero. L’italiano continua a essere amato e studiato oltre i confini della penisola, ma non sono poche le contrazioni delle cattedre di italiano nelle università e nelle scuole straniere che, nonostante gli appelli lanciati dall’Accademia e da altre Istituzioni, non trovano risposta negli interventi dei nostri governi. Ci sono certo iniziative importanti come la Settimana della lingua italiana nel mondo, nata da un’idea dell’allora presidente della Crusca Francesco Sabatini e gestita dal Ministero degli Esteri, ma non si vede alcun progetto politico in grado di agire con efficacia. L’espansione dello studio dell’italiano all’estero avrebbe anche positive ricadute economiche per il nostro paese, come ben sanno, in particolare, Francia e Germania. La questione richiederebbe di essere trattata più ampiamente e dunque non mi dilungo oltre, sperando tuttavia di aver suscitato una prima riflessione su ciò che sarebbe veramente giusto imitare.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
01 novembre 2024 - 00:00
P. S. Chissà per quali strani percorsi il termine "shopper" qui da noi ha assunto il significato di busta, o sacchetto con manici. Oggi leggo per la prima volta la parola "vending" in un sito di una Società del settore alimentare. Immagino che nei testi di presentazione di un'attività imprenditoriale l'inglesismo sia preferito alla sua definizione "settore commerciale della distribuzione automatica". Inoltre suona come più moderno. La sintesi è importante, ne convengo. Ma sia shopper sia vending restano parole confinate in un discorso ristretto, finiscono nel dizionario per il loro costante uso nel mondo commerciale, come termini tecnici usati internazionalmente ( shopper crea confusione) ma, alla fin fine, non vengono mai pronunciate da nessuno nella vita normale di tutti i giorni. E questo non è un dettaglio di poco momento.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
01 novembre 2024 - 00:00
P. P. S. Fortunatamente l'Accademica Librandi, ne sono certo, è comprensiva con chi, come me, abusa forze dello spazio concesso, ma cerca di dire qualcosa di originale senza specialismi. Dunque, un'idea tira l'altra e la mia è sempre la stessa ed è la seguente. Ai grandi scrittori si attribuisce universalmente la capacità di portare alla massima espressione possibile il genio della lingua di una nazione. Bene, un tempo i loro testi, testi di lingua, erano presi a insostituibile modello. Lo si può fare anche oggi senza intenti prescrittori. Vale a dire, di fronte a una new entry (gia!) lessicale, chiediamoci semplicemente: il tale o il tal altro scrittore sommo (valli a trovare!) oserebbe mai fregiare una sua opera di "vending" o "shopper" o "problem solving"? se sì, ma ne dubito, per me ciò sarebbe sanzione sufficiente, perché se il Dante o il Manzoni dei nostri giorni (sì, me ne rendo conto) fa dire a un suo personaggio simile roba, allora è roba preziosa per definizione. Non ridete, si deve tornare ad interrogare la grande letteratura contemporanea. Questa può divinare il futuro di un neologismo meglio di un TG.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
31 ottobre 2024 - 00:00
Leggo sullo scontrino della spesa al supermercato che lo "shopper" costa 15 centesimi. Ma io alla graziosa cassiera ho chiesto una "busta" e lei me l'ha data. Non mi ha mica risposto con un :"Che?". Certamente diciamo tutti "Call center" per indicare quel luogo di lavoro dove gruppi di operatori parlano al telefono cogli utenti o clienti. Molti usano la parola "killer", pochi, io tra questi, "assassino" (le cui quattro s sono assai più espressive!), parola che deriva dall'arabo, come "algoritmo". Qualcosa mi dice che gli italiani di dire "Tyne house" o "sentiment" se ne freghino altamente, non così di "job's act" pronunciato senza la s. In una Compagnia assicurativa, ove lavorai pochi mesi, riuscii da asociale quale sono ad evitare il pranzo di Natale, che per la Società era sempre e solo il "Christmas Party". Ebbene, il giorno dopo chiesi separatamente a due colleghi che vi avevano partecipato le loro impressioni: giuro che entrambi, senza sapere l'uno dell'altro, emisero lo stesso suono :"Easy!". Cosa voglio dire con questo? certe parole straniere circolano più o meno diffusamente in certi ambienti e tra gruppi a volte ampi, più sovente ristretti, alcune sono adottate preferibilmente dai mezzi di informazione ("killer"), molte, appropriate esclusivamente in contesti lavorativi rigidi e formali, risultano ridicole se ripetute in una conversazione fuori dell'orario di lavoro, e suonano arabo a chi è estraneo a quegli ambienti professionali. Una buona parte di queste parole vive quasi solo nella lingua scritta, come "shopper" o "Customer Care" (mentre "shopping" dilaga perché evoca il consumismo, percepito come importato dagli Usa). E se alla fin fine, a sancire il destino di un neologismo, fosse una mera questione di gusto???

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Licia Corbolante
29 ottobre 2024 - 00:00
Purtroppo i fraintendimenti e i luoghi comuni sui meccanismi di funzionamento delle lingue sono molto diffusi ed è sconsolante che ciclicamente l’Accademia della Crusca si trovi a dover giustificare il proprio operato: lo penso ogni volta che nelle schede sulle nuove parole leggo la premessa “Questa scheda non promuove né ufficializza l'uso della parola trattata, ma intende fornire strumenti di comprensione e approfondimento”. Ne approfitto quindi per ringraziarvi per il vostro lavoro di divulgazione, utilissimo per aumentare la consapevolezza linguistica di chi vi segue, e per un suggerimento: si potrebbe aggiungere anche alle consulenze linguistiche (“Risposte ai quesiti”) uno schema riassuntivo iniziale simile a quello usato nelle schede sulle parole nuove. Credo aumenterebbe la fruizione delle risposte più articolate e potrebbe invogliare alla lettura anche chi è abituato a consumare informazioni molto velocemente. La sintesi potrebbe anche includere, se rilevante, l’indicazione del tipo di inesattezza, equivoco di interpretazione o altro che viene rettificato dalla risposta (non solo specifici meccanismi linguistici ma anche percezioni distorte e convinzioni errate, ad es. su funzione dei dizionari e ruolo dei linguisti, catastrofismi sul futuro della lingua, sensazionalismi e timori infondati che vengono amplificati da media e social ecc.). . Un esempio di malinteso linguistico ricorrente, che appare spesso anche nei commenti al Tema del mese, è la falsa equazione lessico dei media = lingua italiana, una percezione che riduce l’italiano a un’unica varietà linguistica e assegna un’importanza eccessiva agli anglicismi (effettivamente nei media proliferano ma in gran parte hanno anche vita molto breve, come dimostrano molti studi). Per i più preoccupati penso possa essere rassicurante applicare il metodo del linguista americano Allan Metcalf per valutare i neologismi e predire se entreranno nel lessico o rimarranno occasionalismi. I criteri di analisi sono cinque e per ciascuno viene assegnato un punteggio da 0 a 2; maggiore è il punteggio totale, maggiori sono le possibilità che il neologismo si affermi: 1. Frequenza d’uso 2. Trasparenza (le parole che “non si fanno notare” e che possono essere assimilate spontaneamente, senza spiegazioni, hanno maggiore probabilità di successo) 3. Varietà d’uso, in particolare in relazione ad aspetti diastratici e diamesici 4. Produttività (si affermano più facilmente nuove parole che consentono di farne derivare altre, ad ed. con l’aggiunta di prefissi e suffissi); 5. Rappresentatività (hanno maggiore tenuta le parole che rappresentano nuovi oggetti durevoli, sia concreti che astratti) . Se applichiamo il metodo agli innumerevoli anglicismi usati nei media, come “tiny house” citato qui sotto, è palese che, per quanto appariscenti, sono ben pochi gli anglicismi destinati a entrare stabilmente nel repertorio linguistico attivo della maggior parte dei parlanti. Esempio tipico: quanti italiani a casa propria chiamano la stanza con il divano “living”, come nei media e nella pubblicità dove è in uso ininterrotto da decenni?

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Antonio Zoppetti
04 novembre 2024 - 00:00
In risposta ai "consigli di lettura" di Licia Corbolante, vorrei precisare che iIn tutto il mondo si registra un dibattito serio sull'anglicizzazione delle lingue locali, e continuare a citare solo i testi a proprio favore ignorando le altre posizioni non è affatto scientifico (parola troppo spesso abusata soprattutto in certe questioni linguistiche), è invece manipolatorio e oscurantista. Conosco molto bene il dibattito e le posizioni in campo, che hanno a che fare con i giudizi e le interpretazione dei fatti, non con direttamente con i fatti come qualcuno vorrebbe far credere. È appena uscito un libro dell'Académie française che ripropone i risultati -- e soprattutto le interpretazioni -- di un rapporto del 2022 che può essere utile a chi indossa solo i paraocchi di una parte del dibattito facendo credere che sia il solo punto di vista possibile. Si intitola "N’ayons pas peur de parler français, Académie française : le rapport qui alerte, Plon edizioni, settembre 2024" Il rapporto dell'Académie non si limita a raccogliere e descrivere le parole inglesi come qualcuno vuole fare in Italia, ma ne valuta l'impatto e le stigmatizza. Non si limita a un descrittivismo becero, ma denuncia il proliferare delle parole ibride, definite vere e proprie “chimere lessicali” che non sono più strutturalmente né francesi né inglesi. Inoltre, analizza il fenomeno non solo dal punto di vista lessicale, ma anche nelle conseguenze sulla morfologia, visto che certe scelte stereotipate e certi “tic linguistici” finiscono con il produrre una vastità di terminazioni in -ing (es. coworking) dove la suffissazione all'inglese ha la meglio su quella francese (tracking, invece di traçage, upcycling invece di surcyclage). E non solo, davanti alle collocazioni delle parole invertite, denuncia gli effetti del franglese anche “sulla struttura stessa della frase: la sintassi è sconvolta, il che costituisce un vero e proprio attacco alla lingua, in quanto è colpita la logica stessa del pensiero, e la struttura analitica della frase francese è soppiantata dalla struttura sintetica dell’inglese.” E ancora, affronta il problema della trasparenza del linguaggio anglicizzato, che finisce per creare enormi problemi di comprensione da parte dei cittadini e di innalzare barriere sociali e produrre fratture generazionali che minano la comprensione da parte delle masse. Da noi la situazione è ben più pesante che in Francia, dunque, invece di negare e di far finta che esista solo la propria visione (anglomane) bisognerebbe avere l'onestà di riconoscere che le interpretazioni in campo sono molteplici, e varrebbe la pena di raccontare anche cosa ne pensano in Spagna, in Islanda, in Svizzera e in tanti altri Paesi dove i linguisti non hanno affatto lo stesso approccio di quelli italiani (per fortuna non tutti). Le valutazioni sul fenomeno dell'anglicizzazione sono dunque molto varie e controverse, e hanno a che fare con scelte politiche e interpretazioni critiche, non con una presunta "scientificità" attibuita solo a chi plaude all'inglese. Tutto il resto è mistificazione e propaganda.
Risposta
Antonio Zoppetti
31 ottobre 2024 - 00:00
A proposito di malintesi e di incapacità di comprendere, quando i giornalisti sostituiscono parole storiche come carrarmato con tank, presidente del consiglio con premier o spacciatore con pusher, queste scelte sistematiche hanno delle conseguenze nel fare la lingua, come dimostrano diversi studi e soprattutto la nostra storia: possiedono un forte valore “pedagogico” che educano all'inglese e all'itanglese, e finisce che la gente è indotta a ripetere per forza di cose ciò che legge e ascolta senza alternative. I mezzi di informazione, che un tempo hanno contribuito in modo significativo all'affermazione dell'italiano unitario, oggi sono tra i principali centri di irradiazione degli anglicismi, che vengono impiegati soprattutto nei titoli, con un grande impatto, e con fierezza. E i neologismi vengono a coincidere con gli anglicismi, che rappresentano il 50% delle nuove entrate nei dizionari del nuovo millennio ("infondato" è caso mai negarlo o vaticinare che tanto scompariranno). Questo è il nuovo “italiano” vissuto come moderno, nei ceti dominanti, e questo diviene un modello linguistico e stilistico. La banalizzazione e la superficialità con cui si guarda alla lingua mediatica come qualcosa di avulso da come gli italiani parlerebbero (su cui non ci sono dati quantitativi significativi) è sconcertante, come se fosse questa l'unica varietà linguistica che conta. Al contrario, bisognerebbe ricordare che fino a metà del Novecento l'italiano era una lingua letteraria più che parlata, e dopo le riflessioni di intellettuali come Gramsci o Pasolini, è un po' ridicolo ignorare il ruolo degli attuali centri di irradiazione della lingua del nuovo italiano unitario. Nella “diglossia lessicale” che vede negli anglicismi il vertice della gerarchia linguistica, si anglicizzano i nomi delle manifestazioni, i ruoli e le funzioni delle aziende, le denominazioni dei prodotti e i nomi delle trasmissioni televisive, il panorama linguistico della comunicazione cittadina, le insegne dei negozi divenuti store e shop, le tariffe dei treni economy, business e premium dei nuovi biglietti ticketless, i nuovi servizi di delivery delle Poste italiane che sostituiscono gli antichi pacchi celeri e ordinari, tra bike sharing, tutor autostradali, assistenza clienti ribattezzata customer care, rimborsi statali divenuti cashback e via dicendo. Fuori dal modello caricaturale degli italiani che si vuole costruire, questo linguaggio anglicizzato è accettato e usato non solo nei contesti mediatici, ma anche in quelli istituzionali, universitari, produttivi e culturali, oltre che nei linguaggi di settore di cui l'informatica rappresenta quello più compromesso. A fare l'italiano del futuro saranno le scelte e i modelli dell'egemonia culturale e politica che si affermerà, non la retorica per cui “tanto gli italiani non dicono living” o i discutibili algoritmi sull'affermazione dei neologismi nati in un contesto socioculturale ben diverso dal nostro.
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Licia Corbolante
31 ottobre 2024 - 00:00
Suggerimento di lettura per approfondire il tema anglicismi da un punto di vista scientifico: “The Influence of English on Italian” della linguista Virginia Pulcini (De Gruyter Mouton, 2023). Il capitolo 5, “Dictionaries, newspaper archives and corpora” analizza l’uso di dizionari e archivi di quotidiani per quantificare il numero di anglicismi effettivamente usati in italiano. Pulcini evidenzia anche i problemi metodologici dei “conteggi” ristretti a dizionari e giornali che poi troviamo in proposte di legge e articoli sensazionalistici ma superficiali dei media. Mi auguro che analisi sistematiche come quella di Pulcini possano contribuire ad informare correttamente anche chi affronta la questione anglicismi da un punto di vista ideologico anziché linguistico.
LUCA FIOCCHI NICOLAI
28 ottobre 2024 - 00:00
Caro Antonio Zoppetti, potrei sbagliarmi ma ho la sensazione che gli esempi da lei adCarodotti confermino quanto vado dicendo, dato che si può pensare in questo caso, come in altri, ad un utilizzo di una fonte se non primaria (l'agenzia Ansa) autorevole e ufficiale, che dispensa quindi dalla fatica di costruire un testo originale da parte di altri organi di stampa i quali, con qualche variante, prendono di peso parole se non intere frasi o incisi. Infatti nel dare il 24 ottobre la notizia della scoperta l'agenzia suddetta riporta le parole del direttore del Parco archeologico Zuchtriegel, il quale cita "l'e-journal"e la piattaforma "open.pompeiisites. org" su cui vengono pubblicati on line i dati aggiornati sull'attività di scavo. Non credo che si tratti di consapevole strategia comunicativa antiitaliana ma, da una parte, di uso di canali informativi rivolti a un pubblico internazionale, dall'altra di banale scopiazzamento reciproco per far prima. Quello che c'è si piglia. E siccome l'inglese in effetti è la lingua eletta sempre più anche a livello istituzionale italiano ed europeo per arrivare rapidamente a un pubblico il più vasto possibile, la stampa ne fa abbondante uso e abuso. Alle elite italiane interessa non l'inglese in sé e per sé ma evitare l'emarginazione geopolitica, culturale e commerciale. Il tema riguardava i fattori decisivi per la nascita e la permanenza o la scomparsa dei neologismi. E colla stessa velocità con cui oggi viaggia l'informazione irrompono nuove parole da ogni parte del mondo al seguito dell'attualita': quanto più tempo resta all'ordine del giorno un tema o una situazione politica tante più probabilità hanno di affermarsi i neologismi con cui la si descrive. Il giornalismo frenetico è il cavallo di troia dei prestiti integrali.

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Luigino Goffi
25 ottobre 2024 - 00:00
Non è l'uso da parte degli italofoni che decide se una parola è italiana - altrimenti, visto l'andazzo, dovremmo concludere che l'italiano è l'itanglese -, ma l'avere, la parola, tutte le caratteristiche richieste dalla lingua italiana. Per capire quali siano queste caratteristiche bisogna individuare le caratteristiche che distinguono l'italiano dalle altre lingue. L'italiano ha scelto di essere una lingua eufonica, evitando le accozzaglie di consonanti. Naturalmente, anche le altre lingue cercano di evitare le cacofonie: basti pensare all'inglese /knife/ che ha una pronuncia priva della °k° proprio per evitare la cacofonia. E' vero che un problema simile lo abbiamo anche noi con /tecnica/, che le persone linguisticamente sensibili - potrei citare il più rigoroso dei filosofi italiani - pronunciano giustamente °tènnica°. L'italiano, però, a differenza delle altre lingue, ha dato un taglio enorme alle cacofonie. scegliendo di far terminare le parole semanticamente piene solamente con vocale. Le parole semanticamente non piene (come gli articoli e le preposizioni) possono terminare anche per "l" (elle), "n" o "r" perché queste sono le uniche consonanti che - salvo pochissime eccezioni cu cui la lingua interviene con aggiustamenti (ad esempio non diciamo "il sconto" ma "lo sconto") - non formano cacofonie se seguite da altre consonanti. Questa è la lingua italiana: l'unica lingua al mondo in cui le parole semanticamente piene terminano per vocale, e le parole semanticamente non piene possono terminare anche per quelle tre consonanti viste. La parola che ha queste caratteristiche è italiana: questo è quello che lo decide. Che poi duri o non duri nel tempo che importanza ha?

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Licia Corbolante
29 ottobre 2024 - 00:00
Nell'inglese contemporaneo però la sequenza “kn” a inizio parola è un digramma, una convenzione grafica che non rappresenta in alcun modo una “scelta” consapevole di evitare cacofonia. Sono molto colpita da queste sue affermazioni su presunte cacofonie ed eufonie e sarei curiosa di conoscere la fonte. Ritengo in ogni caso che un confronto estetico tra italiano e inglese sia improponibile non solo per mancanza di criteri oggettivi di bellezza o bruttezza dei suoni e delle loro combinazioni, ma anche perché ogni lingua ha proprie caratteristiche che ne determinano la prosodia e che influenzano la *percezione* di lingue diverse dalla propria (ad esempio, l’italiano è una lingua isosillabica mentre l’inglese è una lingua isoaccentuale, e ci sono differenza anche nella struttura delle sillabe).
LUCA FIOCCHI NICOLAI
17 ottobre 2024 - 00:00
Proprio l'esame dei mezzi di comunicazione potrebbe far emergere il fenomeno della comparsa di nuovi termini, inglesi in fran parte ma non solo, il cui uso è per così dire contingente e obbligato, legato com'è all'attualita' politica, mutata la quale essi termini cadono spesso in oblio, buttati via. Oltre a "Par condicio" ricordo che l'allora Ministro della Difesa La Russa, nel riportare l'esito di riunioni coi paesi Nato, era solito usare la parola "asset" : evidentemente aveva assorbito il frasario dei vertici. Sul Televideo Rai compare oggi una notizia riferita dal contingente Unifil in Libano; in essa si dice che i "peacekeeper" in una postazione vicino a Kfar Kela hanno osservato ecc. ecc.. L'estensore del testo racchiude tra le virgolette la parola inglese, mostrando che ne avverte l'estraneita' ma non la traduce. Il perché a me pare evidente: non ha tempo di occuparsene. Ecco, la rapidità imposta dagli eventi alla comunicazione impedisce di filtrare i testi provenienti da fonti straniere o riconducibili a contesti di comunicazione internazionali. Capita così che giornalisti e politici facciano proprie parole ed espressioni legate strettamente all'urgenza e attualità di una certa situazione politica, finita la quale la gran parte di esse si dimentica. Alcune invece, circolanti costantemente nei media perché adoperate in rapporto a temi sempre vivi (i femminicidi), finiscono sui dizionari. Manca il tempo, la voglia e la capacità forse a chi svolge un lavoro frenetico, sul pezzo, di elaborare una riflessione sulla lingua usata; essa viene semplicemente presa in prestito.

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Antonio Zoppetti
25 ottobre 2024 - 00:00
Gentile Luca Fiocchi Nicolai, mi pare che la frenesia di dare l'informazione in “tempo reale”, senza tradurre, dalle fonti anglofone (più che internazionali) sia solo un'aggravante e un alibi di un atteggiamento ben più profondo. Le segnalo l'anglicismo del giorno (25 ottobre) diffuso dal consueto picco di stereotipia giornalistico per una notizia tutta interna: – CORRIERE DELLA SERA: Pompei, l’affresco «hard» che ha sorpreso gli archeologi: una tiny house con satiro e ninfetta sulla parete. – ANSA: A Pompei la grande arte entrava anche nelle piccole case... Gli inglesi le chiamerebbero ‘Tiny House’: piccole case autonome, dalle dimensioni ridotte ma in questo caso, dalle decorazioni… – LA REPUBBLICA: Pompei: dall’insula dei Casti amanti emerge una piccola casa… Gli inglesi le chiamerebbero ‘Tiny House’: piccole case autonome, dalle dimensioni ridotte ma in questo caso, dalle decorazioni estremamente raffinate. – CRONACHE DELLA CAMPANIA: Pompei, la Casa di Fedra è una straordinaria “Tiny House”, trovata lungo Via dell’Abbondanza, priva del tradizionale atrio, ma comunque riccamente adornata. – AGRO24.IT Pompei: scoperta una ‘Tiny House’ dall’alto valore artistico... A Pompei è stata scoperta una piccola casa, che nel mondo anglosassone sarebbe chiamata “Tiny House”. Si tratta di un’abitazione autonoma dalle dimensioni … – AGENZIACULT: Pompei, nuovo esempio di casa senza atrio con decorazioni… Gli inglesi le chiamerebbero “Tiny House”: piccole case autonome, dalle dimensioni ridotte ma in questo caso, dalle decorazioni estremamente raffinate. – STILE ARTE: Pompei, gli archeologi scoprono un prezioso “mini-appartamento … Pompei – spicca quella di un miniappartamento romano, o come lo definirebbero gli inglesi, una “Tiny House”. Un appartamento-bomboniera, situato in una zona… ad libitum sfumando. Questo modo di porre la notizia che ricorre all'inglese – o a come direbbero gli inglesi – è ricercato e voluto, e pare l'espressione di un cultura coloniale, dove si riscrive la storia attraverso l'abbandono dell'italiano (addio a “casetta” e sinonimi, persino chi traduce con mini-appartamento affianca l'espressione inglese, come fosse un termine settoriale architettonico). Naturalmente “tiny huose” potrebbe anche non attecchire e scomparire da domani, ma il punto non è la singola scelta lessicale, bensì la mania compulsiva di ricorrere all'inglese – e praticamente solo a quello – invece di usare l'italiano o alla peggio di coniare neologismi (adattare è ormai una strategia abbandonata, ci vergogniamo di italianizzare l'inglese, lingua sacra e inviolabile). Se la comunità linguistica che decide le sorti dei neologismi è quella dei giornalisti e degli intellettuali anglomani, meglio stare a guardare – e limitarci a descrivere – questo stillicidio quotidiano che sta portando alla regressione dell'italiano e a una nuova “diglossia lessicale”, o contrapporre altri modelli come avviene in Francia, Spagna e altrove? Possibile che la prescrizione da noi valga solo per le parole offensive, discriminanti o sessiste ma non tocchi la questione dell'inglese? Anglicismi del genere non sono molto “inclusivi”, e più che descritti o archiviati come scelte passeggere dettate dalla fretta, andrebbero duramente stigmatizzati.
Antonio Zoppetti
09 ottobre 2024 - 00:00
La resistenza ai neologismi non è solo un sentimento popolare più o meno diffuso, ha caratterizzato un ben preciso modello di italiano che per secoli ha dominato le prescrizioni di puristi, e anche dei cruscanti, in dibattiti accesissimi. Oggi la Crusca ha rinunciato a questo ruolo prescrittivo che invece mantengono le accademie di Francia e dei Paesi ispanici. Gli equivoci degli articoli di giornale sul ruolo della Crusca dipendono anche da questi fattori, credo, e mi pare che nella percezione (spesso distorta) sul suo ruolo pesi l'incapacità di comprenderne il senso: per descrivere la lingua italiana ci sono già le università, dunque a cosa serve un'accademia non prescrittiva? La mia, più che una critica, è la constatazione di una visione piuttosto diffusa. Se a decretare ciò che è italiano non c'è alcun ente non resta che appellarsi all'uso che fa la lingua, un uso che però rischia di trasformarsi in un anarchismo metodologico dove parole come chat o governance sono proclamate “italiane” (anche nelle consulenze della Crusca) sulla base della loro frequenza e non sul fatto che seguano le regole dell'ortografia e della fonologia italiana. Quando Castellani definiva gli anglicismi “corpi estranei” lo faceva sulla base di questo principio, che mi pare che molti linguisti moderni abbiano nascosto sotto al tappeto, e non su una soggettiva percezione di “estraneità” dovuta all'abitudine, come nell'esempio citato di certi francesismi. E allora, nel nuovo contesto, chi decreta i neologismi, ma anche il nuovo modello di “italiano” che in certi ambiti definirei invece “itanglese”? L'accettazione da parte di una vaga “comunità linguistica” mi pare un concetto un po' fumoso: questa comunità a cui si fa riferimento non corrisponde certo alle masse che vengono educate da una piccola comunità egemone. Invece delle istituzioni come la Crusca, insomma, è oggi la comunità dei giornalisti (e i dizionari pescano soprattutto da lì) o degli addetti ai lavori dei vari settori a determinare le sorti della lingua, come avevano ben compreso intellettuali come Gramsci che individuava nella classe dirigente i modelli linguistici che le masse poi prendono a modello; o Pasolini che aveva capito come i nuovi centri di irradiazione della lingua negli anni Sessanta fossero i centri industriali del nord, che però nel frattempo diffondono l'inglese. Da questi centri di irradiazione arrivano le prescrizioni e i nuovi neologismi: politicamente corretto, inclusione, nuovi femminili, nuove parole di solito mutuate dall'inglese (resilienza) perlopiù senza adattamenti (lockdwon, fake news). La gente poi non può fare altro che ripetere ciò che passa il convento, più che parlare così in modo spontaneo. “Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero” – denunciava Natalia Ginzburg a proposito del politicamente corretto – ma sono state fabbricate artificialmente (...). Cosi accade che la gente abbia un linguaggio suo (…) e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro.” Oggi queste riflessioni valgono anche per molte parole inglesi: dalle marche dei dizionari, il 50% dei neologismi del nuovo millennio è in inglese e sono per la stragrande maggioranza calati dall'alto. Nell'entrare nell'uso creano enormi problemi di trasparenza e generano fratture sociali e barriere generazionali, come ha denunciato l'Académie française. Davanti all'idea che sulla lingua non si debba intervenire in modo prescrittivo – un'idea tipicamente italiana – mi domando se sia preferibile che il nostro patrimonio linguistico sia lasciato in balia di un'oligarchia di comunicatori anglomani che introducono anglicismi anche istituzionali o venga regolamentato da politiche linguistiche (come in Francia, Spagna, Islanda, Svizzera... dove si creano e diffondono neologismi coniati nel rispetto delle risorse linguistiche locali). Quello che mi sorprende è che il descrittivismo invocato da certi linguisti italiani sembra che serva per legittimare i neologismi in inglese proclamati come scelte di una “comunità linguistica” che include però le fasce alte, mentre davanti ai “neologismi” che arrivano dal basso – penso per esempio all'uso del “piuttosto che” alla milanese, al posto di “oppure” – i linguisti non hanno alcuna remora a stigmatizzare queste espressioni come “errore” e a respingerle. La “comunità linguistica” che decide di accettare pseudoanglicismi come caregiver o smart working o di bandire la parola “razza” proclamata improvvisamente come discriminante ha poco a che fare con la “comunità linguistica” intesa come gli italiani nella loro maggioranza.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
10 ottobre 2024 - 00:00
L'intervento di Antonio Zoppetti mi ha spinto finalmente a leggere lo Statuto della Crusca. Il suo compito è di sostenere la lingua italiana nel suo valore storico di fondamento dell'identità nazionale, ma considerandola nel contesto del multilinguismo europeo. L'attività principale è rivolta alla ricerca scientifica. Lo Statuto è stato approvato con decreto del Ministro dei Beni Culturali. Che vigila. Ora, l'Accademia fornisce consulenza ad enti pubblici e privati cittadini. Si può leggere in questi giorni su questo sito un intervento molto lungo sull'opposizione tra le parole inglesi Safety e Security, per rispondere a coloro che "non si rassegnano" a usarle al posto di corrispondenti parole italiane che ne siano la precisa traduzione. Molto bello e istruttivo lo scritto del Vallauri (discendente dell'inveterato latinista?) che mostra la ricchezza della nostra lingua capace di sfornare molte parole atte, a seconda del contesto, a tradurre i due suddetti termini inglesi. Ma, se poi il Ministero dell'Istruzione emana "Linee guida per la gestione operativa dei DATA BREACH" e istituisce il gruppo di lavoro denominato "COMPUTER SECURITY INCIDENT RESPONSE TEAM", forse bisogna ammettere che i primi a non ascoltare la veneranda Istituzione sono proprio coloro che dovrebbero per primi avere a cuore le sorti della nostra lingua. L'Accademia, devo rassegnarmi, non può prescrivere un bel niente. Ma i suggerimenti e i pareri dei suoi specialisti chi li legge? non i politici, non i giornalisti, pare. Ma l'Accademia è nel giusto nel ricordare che nessun intervento dall'alto ha di per sé garanzia di successo, e "sicurta'", a proposito di una delle proposte di traduzione di cui sopra, ben difficilmente potrebbe venire accolta dai parlanti. Forse lo Statuto costringe la Crusca entro limiti di sicurezza, e solo una polemica contro gli inglesismi alla moda portata avanti da un personaggio della cultura noto a tutti, uno di quelli che appare in TV, e libero dai ceppi del decreto, puo meglio servire a svegliare la pigrizia italica in fatto di difesa della nostra lingua. Penso a un comico. O a uno scrittore da ospitate. Certo, sono finiti i tempi de "Il Caffè" e di Alessandro Verri e della sua rinuncia davanti al notaio alle prescrizioni del Vocabolario della Crusca. Che tempi epici quelli!
inglesata quotidiana
09 ottobre 2024 - 00:00
il problema di fondo è che alle lingue non è possibile applicare il metodo scientifico, per cui quando una disciplina sfugge al metodo scientifico diventa potenzialmente valida qualsiasi cosa

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Ishiba Shigeru
09 ottobre 2024 - 00:00
Ci sono delle occasioni in cui la diffusione di neologismi italiani da parte di enti preposti, come accade in realtà linguistiche molto vicine a noi, potrebbe essere utile, se non indispensabile, specie quando si tratta di comunicazioni istituzionali. Gli unici neologismi che trovano successo sono gli anglicisimi, e l'unica considerazione in merito che ho da fare è che meno si traducono gli anglicismi e più si consolida l'idea che l'italiano sia una lingua inadatta a parlare del moderno o di temi complessi, cosa che spetta solo all'inglese, e si finisce per reputarlo inutile, come sta avvenendo in vari dominî del sapere. Un ente con tali prerogative serve come l'aria a un subacqueo immerso se si vuole rilanciare una lingua avulsa dal nuovo e dalla modernità.

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Francesco Fabbrini
08 ottobre 2024 - 00:00
Ringrazio per tale chiarimento e... Per la vostra opera, poiché le parole ricollocate al giusto posto non mentono. Ma richiedono autenticità, non sensazionalismo. Non è certo motivo di elevatura o genialità scrivere in una civetta di giornale: Bambino affondato in una piscina. Grato

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