Intervento del Presidente Claudio Marazzini nella Tornata solenne del 18 novembre 2015, di fronte al Capo dello Stato Sergio Mattarella, agli ospiti e agli Accademici riuniti in seduta comune.
Novembre 2015
Signor Presidente, colleghi Accademici, Autorità tutte, Signore e Signori,
permettetemi di prendere l’avvio da uno spunto che devo all’Accademico prof. Tullio De Mauro, che proprio nei giorni in cui si celebravano i 150 anni dell’Unità italiana attirò la mia attenzione sul vero significato di una frase celebre attribuita al nemico dell’Unità Italiana, il principe di Metternich. Se si legge l’intero contesto della celebre frase, scegliendo tra le varie formulazioni quella che si caratterizza per la maggiore ampiezza, in una lettera del 1847, si ha la sorpresa di scoprire che anche Metternich si interessava al problema della lingua italiana. Metternich spiega questioni della politica del momento, osserva che l’Impero Austriaco è composto di molte parti: se in esso una nazionalità deve prevalere, è la tedesca, che rappresenta “il vero elemento civilizzatore di questa vasta riunione di popoli”. Poi continua (trad. nostra):
La parola “Italia” è una denominazione geografica, una qualificazione che si riferisce alla lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono a imprimerle, e che è piena di pericoli per l’esistenza stessa degli stati di cui si compone la penisola.
Persino Metternich era dunque cosciente del possibile valore della lingua in quanto segno di identità nazionale italiana. La lingua, la cui unificazione ha preceduto di molto in Italia il costituirsi di una nazione politica, traeva le sue linfe dalla cultura. Era la lingua di Dante, e lo stesso Dante, guardato con minor ammirazione e qualche critica dal Rinascimento fino al Settecento illuminista, sarebbe diventato di lì a poco uno dei grandi padri della Patria.
A Firenze sono già in cantiere le celebrazioni di Dante 2015-2021, e questo ci fa ricordare che le grandi celebrazioni dantesche legate agli anniversari di nascita e morte del Poeta non ebbero inizio se non con l’unità d’Italia, nel 1865 e nel 1921. Era nato e si sarebbe sviluppato quel mito di Dante che sicuramente in parte era una forzatura storica, perché rivestiva di spirito nazionale moderno un uomo del Medioevo, ma allo stesso tempo aveva un grande significato, perché Dante era stato davvero nel cuore e nello zaino di coloro che si erano battuti per l’Italia, leggendo i versi della commedia e la biografia del poeta in esilio con gli occhi di Mazzini. E se Mazzini si era impadronito di Dante, poteva farne a meno Vittorio Emanuele, primo re d’Italia, che gli adulatori cercavano persino di far passare per il Veltro dantesco? A Dante si doveva la lingua d’Italia, perché, secondo la celebre formula resa popolare da Bruno Migliorini, già illustre presidente della nostra Accademia, Dante è appunto il “padre della lingua italiana”.
Certo, nel 1861, come ci ha ben insegnato Tullio De Mauro, quella lingua italiana, che pure esisteva ed era servita per produrre capolavori letterari, difettava di popolarità, e quel difetto era segno di un problema politico-sociale enorme, che a stento è stato superato in 150 anni. Ancora oggi il rapporto PIAAC dell’Ocse, reso pubblico nel 2013, segnala uno scarto tra la capacità di comprendere un testo propria degli italiani e quella della media dei cittadini di altre nazioni d’Europa. Mi riferisco al rapporto PIAAC perché, a differenza di PISA e altri simili, esso non riguarda solo gli studenti, spesso presi in esame in queste comparazioni internazionali, ma l’intera fascia della popolazione tra i 16 e i 65 anni, cioè l’intera popolazione dedita agli studi e alla vita lavorativa. La posizione negativa degli italiani nel rapporto dell’OCSE che ho citato non deve tuttavia essere motivo si sconforto, ma deve valere come sprone a considerare le ragioni storiche di un divario, e quindi intervenire ancora con decisone sulle strutture scolastiche per potenziare la capacità linguistica dei cittadini nelle forme più utili, non solo per la degustazione raffinata dei testi letterari, ma coltivando la lingua in quanto strumento di comunicazione, di ragionamento, di scambio civile e sociale. La lingua italiana è quella che ci fa popolo italiano, e che fa italiani anche i nuovi italiani che arrivano da altre nazioni e continenti.
Quei piemontesi che avevano unificato l’Italia e che nel 1865, l’anno della celebrazione di Dante abitavano la villa Petraia, non lontana dalla nostra Villa medicea di Castello, certo non erano ignari dei problemi che dovevano affrontare e della situazione reale del paese. Per sincerarsene, basta aprire le pagine del primo censimento dell’Italia unita, che porta la data del 31 dicembre 1861, e che intende ‘fotografare’ la situazione alla fine del primo anno del nuovo Stato. I tre volumi contenenti i dati raccolti uscirono tra il 1864 e il 1866. Nel frattempo la capitale veniva trasferita da Torino a Firenze. I volumi del censimento dedicano alla lingua uno spazio forse non così esteso da soddisfare tutte le nostre aspettative, ma non insignificante nell’equilibrio complessivo dell’impresa, e attento alla pluralità linguistica dell’Italia, a quella Italia delle Italie che si caratterizza per la varietà degli idiomi, dei dialetti e delle lingue di minoranza. Un’Italia polifonica, insomma, non monolitica. Il censimento offriva prima di tutto i dati numerici relativi alla consistenza di alcuni gruppi di alloglotti, indicando i comuni da essi abitati: francofoni, occitani, tedeschi del Monte Rosa, del Vicentino e del Veronese, i dalmati di Larino, albanesi e greci di Calabria e Terra d’Otranto, zingari di Molise e Abruzzo. Offriva poi un quadro dei dialetti italiani, classificati in sei gruppi, italo-celti, liguri, tosco-romani, napoletani, siculi, sardi. Stabilite le famiglie dei dialetti, l’estensore della nota statistica prendeva atto che il gruppo più forte per numero di parlanti era quello italo-celtico, caratterizzato da “origini e attinenze straniere”, ma concludeva, non a torto, che il gruppo tosco-romano era tuttavia superiore non solo perché di qui traeva alimento “la vita comune della nazione”, ma perché esso andava meglio d’accordo sia con il gruppo veneto, sia con quello meridionale. Era evocata, insomma, la ‘medietà’ del toscano. A questo punto, l’estensore della nota si avviava alla conclusione, soffermandosi sull’intima comunione tra i dialetti d’Italia, e la conseguente possibilità del passaggio all’italiano, grazie a quanto di comune già c’era nella nazione.
Era un tema allora molto sentito. Potremmo ricordare, a questo proposito, la commozione di tanti uomini della nascente nuova Italia provenienti da regioni periferiche, extratoscane, quando si trovavano di fronte, con sorpresa, a termini toscani che consuonavano con le loro parlate native. Così, per citare un nome illustre, Alessandro Manzoni, quando restava colpito dal fatto che vi erano tante consonanze tra la lingua parlata di Milano e quella della Toscana, consonanze impreviste, che Manzoni raccontava divertito a Tommaso Grossi in una lettera del 1827. Raccontava Manzoni che gli amici fiorentini erano intenti a correggergli il romanzo, e che il Niccolini gli aveva suggerito di eliminare l’annotazione “con un’aria di me ne rido, come dicono i milanesi”, perché la chiosa era inutile, visto che esattamente così dicevano anche i toscani. Manzoni aveva risposto di essere ben contento di eliminarla, anche perché in realtà quel “me ne rido” non gli pareva poi tanto milanese, perché i milanesi avrebbero detto piuttosto “me ne impipo”, al che subito il Niccolini aveva avvisato Manzoni che “me ne impipo” si diceva anche a Firenze, proprio identico. Sono piccole cose, forse, ma che vanno intese nel senso profondo che avevano agli occhi di questi nostri padri: gli intellettuali italiani cominciavano a conoscersi, a parlare da regione a ragione una lingua familiare, non più solo quella ufficiale, cominciavano a misurare le cose che avevano in comune anche nella conservazione quotidiana. L’italiano cessava di essere una lingua riservata alla grandi occasioni, usata dai colti per impieghi nobili ed elevati, spesso letterari, e dai semicolti in forme composite e distanti dalla norma. Infatti, puntualmente, Manzoni corresse il testo della ventisettana in quel punto (cap. XIII), e “me ne rido” divenne “ me n’impipo”, ovviamente senza alcun riferimento al modo di parlare dei milanesi. Manzoni immaginava un uso omogeneo nella nazione intera, in cui la distanza tra scritto e parlato, almeno quanto al lessico, si assottigliasse fino a diventare minima, e in cui fosse facile trovare l’equivalente in lingua di ciò che si sapeva dire in dialetto. Non importa se questo sogno era in larga parte utopia, perché era una nobile utopia, e non importa se gli strumenti che il grande milanese proponeva erano inadeguati, in un momento in cui era ben difficile trovarne altri migliori. La Relazione che nel 1868 Manzoni presentò al ministro dell’istruzione Broglio, in questo senso, resta formidabile documento di un impegno intellettuale posto al servizio del proprio paese, dopo secoli in cui la questione della lingua era stata questione di letterati. Ora si trasformava in una questione sociale, e tale restò fino a Gramsci, a don Milani e De Mauro. Discutere di lingua volle dire cercare di organizzare una scuola migliore, riformare le istituzioni per creare un’Italia più moderna, più europea. I modelli europei a cui guardavano gli intellettuali erano talora diversi: Manzoni guardava alla Francia, Ascoli alla Germania. L’importante era tuttavia guardare fuori dei confini, dopo secoli in cui poco lo si era fatto, e non perché l’erba del vicino sia sempre migliore, ma perché era il modo di partecipare a una società intellettuale più grande. Erano i primi passi verso la casa europea comune.
Emerse allora anche la questione della città capitale della lingua. Doveva essere Firenze, l’Atene d’Italia, o Roma, la città dalla grande tradizione classica, la capitale della cristianità? In questo quadro, la funzione da attribuire a Roma divenne fondamentale. A suo tempo, Gioberti nel Primato morale e civile degli italiani aveva elaborato la teoria dei due fuochi dell’ellisse: il cerchio ha un solo centro, ma l’ellisse ha due fuochi, e l’Italia era come un ellisse, i cui due fuochi erano Roma e Firenze. Due capitali della lingua, là dove la Francia ne aveva una sola, Parigi. È noto che Ascoli contrapponeva speranzoso Roma neocapitale alla Firenze di Manzoni. Ascoli metteva il dito nella piaga, perché in realtà anche Manzoni era dello stesso parere, seppure in maniera sofferta e senza potersi esprimere apertamente, poiché si era reso ben conto che “una capitale ha, per la natura delle cose, una grande influenza sulla lingua della nazione”, come si legge nel famoso poscritto della lettera al Giorgini. Altri entrarono nel dibattito linguistico su Roma capitale per difendere il privilegio storico di Firenze. Altri ancora negarono che la lingua potesse essere monopolio di una sola città, perché una “città non è una Nazione; e per questo non può formare una lingua nazionale” (P. Valussi). Qualcuno osservò che c’era un luogo nuovo in cui si stava creando un italiano unitario, e questo luogo non era una località, ma l’esercito. L’esercito come scuola di lingua. Quest’idea va ricordata, non solo perché risulta originale in quel dibattito, ma soprattutto perché gli studi successivi e anche l’attenzione alle celebrazioni attualmente in corso della Grande guerra confermano che l’esercito ebbe davvero questa funzione. Ma non solo nell’esercito si delineava la nuova lingua nazionale: “Il Parlamento nazionale – scriveva Pacifico Valussi – vi mostra come, senza mutare del tutto le pronuncie e le cadenze, i parlanti si accostano in qualcosa che tutti intendono”. Con notevole acume, menzionava altri centri di elaborazione linguistica: i consigli provinciali e comunali, i tribunali con procedura orale, le società popolari, le scuole, le riunioni politiche, e per di più si diceva convinto che “colla vita politica e col nazionale rinnovamento la lingua verrà a subire nell’uso generale non poche modificazioni”. Un’idea analoga maturò ed espresse polemicamente lo scienziato, politico e alpinista Quintino Sella. La comunanza di lingua non era più condivisione di un ideale di matrice classica e letteraria.
Sappiamo che questa spinta verso la modernità dello stato unitario ebbe anche momenti di deviazione, che già si manifestarono alla fine dell’Ottocento, sviluppatisi in maniera più grave con la svolta autoritaria del fascismo. Mi riferisco in particolare alla politica linguistica nei confronti delle minoranze, al mancato rispetto per i dialetti, alla xenofobia, alla battaglia contro i forestierismi. Tutti gli interventi del regime fascista nel campo della lingua trovano un precedente in altri momenti della storia linguistica italiana, tutti, anche quelli che appaiono più ridicoli, come la campagna contro il “Lei” reputato allocutivo personale servile, non italiano perché spagnolo, e poco romano. È nota la reazione di Benedetto Croce di fronte all’imposizione del “Voi”, è meno noto che la polemica contro il “Lei” era stata inaugurata nelle pagine del “Caffè” dall’illuminista Pietro Verri. Le devianze nella politica linguistica durante gli anni del fascismo ci furono, e gravi, e tuttavia non possiamo negare che nella prima metà del Novecento il processo di modernizzazione che investiva il nesso lingua-società continuò senza arrestarsi. La diminuzione dell’analfabetismo si accompagnava a una crescita dell’uso dell’italiano anche tra le masse popolari, non necessariamente secondo il modello manzoniano, e tuttavia con un’influenza del toscano talora molto forte, anche per effetto di alcune opere scritte, libri che riuscirono a raggiungere un numero enorme di lettori: non solo i Promessi sposi, diventato libro di scuola, ma anche Cuore di De Amicis, Pinocchio di Collodi e L’arte di mangiar bene e la scienza in cucina di Artusi. Come si vede, non erano tutti libri scritti da toscani, anche se tutti diffondevano una lingua italiana di marca profondamente toscana. Perché non sono stati i toscani, mai, a imporre la loro lingua, ma sono sempre stati gli altri italiani a sceglierla: così accadde durante e dopo l’Unità, come era accaduto al tempo di Dante e di Petrarca.
Permettetemi qui di ricordare due grandi presidenti di questa Accademia, Giacomo Devoto e Bruno Migliorini. Giacomo Devoto colse bene e per primo la spinta al mutamento che si era manifestata in Italia con l’ascesa del popolo a protagonista della storia linguistica, una storia a cui prima le masse non avevano mai partecipato in maniera altrettanto attiva. Devoto era certo che l’ascesa delle masse popolari dovesse produrre un indebolimento del sistema linguistico trasmesso dalla tradizione, quindi un allentamento delle norme classiche. Come nel suo stile, Giacomo Devoto coglieva i movimenti profondi della storia linguistica, le linee di forza, il sistema. Quanto a Migliorini, più che la sua magistrale Storia della lingua italiana, vorrei ricordare l’impegno che sempre manifestò verso le necessità degli utenti attraverso la consulenza che riteneva suo dovere offrire agli scienziati e ai tecnici. Le opere sue raggiunsero un grande pubblico. Ancora oggi le redazioni più importanti di radio e giornali tengono a portata di mano il DOP di Migliorini, Tagliavini e Fiorelli (quest’ultimo qui presente), il dizionario di ortografia e pronuncia a cui si è fatto riferimento per quasi cinquant’anni, e che anche oggi ha il massimo valore, essendo stato trasferito in libera consultazione in Internet. Possiamo dire che la cultura dell’Italia repubblicana ha realizzato straordinari strumenti di consultazione, relativamente alla lingua, che prima mancavano: basti ricordare, oltre alle pregevolissime varie opere lessicografiche dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, il gigantesco dizionario Battaglia della Utet di Torino, pazientemente costruito tra il 1961 e il 2002; il Gradit di De Mauro, anche questo stampato della Utet, nel 1999, l’Analogico di Raffaele Simone nel 2010. L’italiano moderno ha dunque gli strumenti di consultazione che ci si aspetta esistano per una lingua europea di una nazione ricca di 60 milioni di parlanti, una lingua che è la quarta studiata nel mondo, e a cui ci si accosta non di rado proprio per poter leggere testi di grande peso culturale, che richiedono appunto la consultazione di strumenti raffinati. A questo proposito, non posso non ricordare anche l’italiano antico: in questo medesimo palazzo si sta realizzando il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini presso l’Opera Nazionale del Vocabolario del CNR; dalla collaborazione tra OVI e Crusca sta traendo forza il progetto del Nuovo vocabolario dantesco in vista delle celebrazioni di Dante del 2021. Inoltre ricordo che più volte la nostra Accademia ha prestato aiuto al LEI, il Lessico etimologico italiano che si realizza in Germania, ma in lingua italiana, un’opera a cui lavorano tanti giovani italiani, alcuni selezionati attraverso corsi che si svolgono proprio qui in Accademia. Una lingua di cultura non si presenta nuda come lingua di popolo, ma va accompagnata dai libri con cui studiosi e ricercatori la fanno crescere, e dai libri che ne illustrano le caratteristiche e ne raccolgono le risorse: il vocabolario, appunto, in cui per quattrocento anni si è distinta la nostra accademia, dopo che fu suo merito l’aver inventato e realizzato nel 1612 il primo grande vocabolario di una lingua europea. Per questo tra i nostri progetti c’è il ritorno, dopo le cinque edizioni della Crusca, alla lessicografia generale, nostra vocazione originaria: non a caso abbiamo messo in cantiere il corpus in vista del nuovo grande vocabolario dell’italiano post-unitario, l’italiano dei 150 anni di cui stiamo appunto discorrendo in questa solenne occasione.
Allora potremmo chiederci come sia questa lingua d’Italia dopo più di 1000 anni, dopo 154 anni di nazione politicamente unita, da cui si ricava, sia detto per inciso, che nella storia della nostra lingua solo il 14% del cammino, e solo nella parte finale, è stato compiuto in una situazione in cui lingua e stato politico formassero un unico binomio. Tullio De Mauro, nella postfazione al Gradit, ha ricordato che con il Trecento e con Dante il 90% del vocabolario fondamentale dell’italiano era già costituito, e che solo il 14% delle parole della Commedia ha avuto in sorte l’obsolescenza. Noi parliamo ancora la lingua di Dante, e Dante ci è in questo senso contemporaneo. Parafrasando De Mauro, posso dire che la lingua italiana risuona oggi nelle fabbriche, nei commerci, nelle industrie, nelle scuole, nei laboratori, nei giornali e periodici, nelle sedi in cui si dibatte di politica e di convivenza civile. Ho saltato la parola “università” che pure ricorreva nella serie di De Mauro, perché qui si potrebbe aprire un discorso diverso sulle limitazioni che rischia l’italiano oggi, nel momento in cui la pur comprensibile ambizione allo scambio internazionale, che anima alcuni nostri colleghi delle scienze dure, li porta a credere che la lingua italiana possa essere estromessa d’autorità e completamente dalla didattica di livello alto, il che produrrebbe conseguenze gravissime nella comunicazione sociale del sapere. Questa materia è ora giunta persino alla Corte costituzionale, che dovrà dare il proprio autorevolissimo parere. Ricordo però che la piazza che sta davanti alla Villa medicea di Castello in cui ora ci troviamo è stata dedicata alle Lingue d’Europa, in omaggio a una pluralità e varietà nella comunicazione tra i popoli. Non è soltanto questione di qualche centinaio di parole straniere che entrano nella lingua sotto la spinta di mode, per imitazione o per conformismo. Certo, anche questo eccesso va frenato con l’esempio autorevole di moderazione, non con l’autoritarismo, e si deve vegliare perché termini forestieri non invadano il linguaggio delle leggi, a danno della comprensibilità e trasparenza, come potrebbe accadere se trionfassero quelle parole che i comunicati stampa del gruppo Incipit, costituito presso questa Accademia, hanno sconsigliato: così hot spot per i centri di identificazione dei migranti o voluntary disclosure per quella che in maniera molto più trasparente possiamo chiamare “collaborazione volontaria”, come già sta facendo, per fortuna, l’Agenzia delle entrate. Le 70.000 firme raccolte dalla pubblicitaria Annamaria Testa e dirette all’Accademia perché le inoltrasse alle autorità italiane stanno a dimostrare che molti utenti della lingua desiderano trasparenza e non amano lo snobismo, e questa loro legittima esigenza noi ora poniamo rispettosamente nelle mani del Capo dello Stato. Credo che questi 70.000 sottoscrittori non potessero immaginare un uso migliore delle loro firme, e siamo felici di poter dare questa soddisfazione a chi si è fidato di noi, così come siamo felici di poter rispondere alle domande che sulla lingua italiana, sul suo uso, sulle sue norme, vengono poste quotidianamente al nostro ufficio di consulenza, così come siamo onorati di ospitare in questa sede prestigiosa, ora dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, non solo i nostri colleghi universitari linguisti di tutto il mondo, ma anche una grande quantità di esponenti di tutte le professioni, interessati alla lingua italiana per le ragioni specifiche del loro lavoro: mi riferisco agli insegnanti che vengono per i corsi che organizziamo in base alla convenzione con il MIUR, ai ragazzi in visita per le Olimpiadi dell’Italiano, ma anche agli uomini di legge che abbiamo ospitato e ospiteremo collaborando con la Scuola superiore della magistratura, ai giornalisti dell’Ordine regionale della Toscana, unico ordine in Italia, fino ad ora, che abbia tenuto conto del fatto che i giornalisti lavorano con la lingua scritta e orale.
La lingua unisce tutte queste persone, a cui ci rivolgiamo durante la Settimana della lingua italiana nel mondo organizzata ogni anno dal Ministero degli affari esteri, quando realizziamo per conto di questo ministero il libro che porta in ogni continente la riflessione sul tema di volta in volta prescelto: quest’anno è stato l’italiano della musica.
Il grande linguista Walther von Wartburg notava che il passato antico dello spazio linguistico italiano si presentava in maniera tale da far dedurre che “nessun altro paese romanzo è stato meno predestinato a diventare un’unità linguistica”. Lo studioso alludeva alla varietà e diversità di linguaggi che si sono poi alleati e fusi in una convergente storia culturale, una storia in cui non vogliamo che si aprano crepe, magari interpretando in maniera distorta proprio le differenze iniziali di cui parlava con ben altra coscienza Wartburg. L’unificazione italiana è apparsa a non pochi, e anche a Carlo Dionisotti, un “miracolo”, nel senso che si è trattato di un evento sognato, ma che avvenne in maniera inattesa e imprevedibile. Ora questa unificazione mette capo a una solidale unione di popoli, a cui Lei signor Presidente, ha dato un contributo anche di recente, durante il Suo viaggio in Oriente, mostrando che in questo consesso di popoli noi entriamo portando, fra le altre cose, la nostra lingua, che 150 anni di vita comune ci hanno finalmente reso familiare strumento di convivenza civile.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).
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