Pubblichiamo gli interventi dei partecipanti alla quinta tornata accademica del 2023 (13 dicembre 2023), intitolata Dialettologia toscana per Gabriella Giacomelli e Luciano Agostiniani.
Gabriella Giacomelli certo non inaugura gli studi dialettali di pertinenza toscana, ma fino a Gabriella Giacomelli e alla sua scuola, c’è un condizionamento pesante, una presunzione di adialettalità, di abusiva specificità del cuore stesso della Toscana, del cuore geografico, intendo dire (Giannelli 2023, p. 129).
Riflettere su cosa è stata la dialettologia toscana dopo Gabriella Giacomelli vuol dire interrogarsi sul modo in cui il suo approccio alla dialettalità toscana ha avuto corso, approfondimento, sviluppo. Del resto, le traiettorie che la dialettologia toscana ha percorso erano state a suo modo anticipate, nelle loro linee essenziali, proprio da Gabriella Giacomelli in quello che già dal titolo si proponeva come un atto fondativo della materia.
In Dialettologia toscana, apparso nel 1975, la rivendicazione dello spessore dialettale della Toscana linguistica – a partire dalla sottolineatura, all’epoca per nulla scontata, del rilievo delle articolazioni interne alla regione– procedeva passando in rassegna alcuni punti critici della grammatica e del lessico che mettono di fronte a luoghi di non sovrapposizione tra “toscano” e “italiano”. Gabriella Giacomelli parla in questi casi di scarto, o di stacco:
[P]iù che un toscano esistono i varî toscani. È interessante rilevare a questo proposito come per nessuna parlata toscana la caratterizzazione fonetica, morfosintattica, lessicale coincida perfettamente con quella italiana: per esempio il sistema fiorentino, che è il più vicino lessicalmente, dagli altri punti di vista si stacca dall’italiano più che il senese e il pistoiese: che però per certi fenomeni ˗ come l’affricazione delle sibilanti postconsonantiche ˗ si oppongono allo stesso modo al fiorentino e all’italiano, che in questo tratto vengono a coincidere (Giacomelli 1975a, p. 182).
Fatta salva la mancata opposizione tra italiano e dialetto in termini di codice, la tangibile evidenza di uno scarto con la norma dell’italiano fa sì che si possa parlare di una Toscana che è dialettale al pari delle altre regioni. Considerando le singole realizzazioni – e in “stando dalla parte della lingua” da questa prospettiva – la Toscana è dunque dialettale come il resto d’Italia1.
D’altro canto, proprio perché in Toscana le diverse varianti non si dispongono su versanti opposti del repertorio, tende a generarsi da un lato la presunzione di adialettalità di cui parla Giannelli, dall’altro il fatto che la natura dello scarto verrà percepita – e gestita – in termini di deviazione stilistica dalla norma. Ma parlare di percezione significa inserire la riflessione nella prospettiva di un parlante che vive italiano e dialetto non come entità distinte, ma in termini di “parlare bene” vs “parlare male”. Da questo punto di vista appare evidente che la Toscana non è dialettale come il resto d’Italia:
Per l’innegabile affinità tipologica e per il pregiudizio dell’identificazione il problema del rapporto lingua/dialetto, almeno sul piano fonetico e su quello morfosintattico, si configura in Toscana come un rapporto di «giusto»/«errato», di tradizione scolastica (Giacomelli 1975a, p. 183)
Insomma, come esprime una ricorrente vox populi, in Toscana si parlerà male, ma i ddialetto e un si parla! (Giacomelli 1975a, p. 179). Una considerazione che, in modo più articolato, ritorna nella riflessione di un anziano informatore del Vocabolario del fiorentino contemporaneo, che si sofferma anche sull’impasse provocato dalla percezione in termini di “errore” dello scarto linguistico tra toscano e italiano: “Perché poi quelli che si parla peggio di tutti son proprio i fiorentini… tu senti alla televisione… Perché tutti gl’hanno studiato l’italiano, e forse si son potuti correggere: noi un ci si sa correggere!”2
Con il suo inconfondibile understatement, Gabriella Giacomelli invita a un approccio alla dialettalità toscana in cui non basta “stare dalla parte della lingua”, ma che deve considerare – allo stesso tempo – il modo in cui in parlanti, nei loro usi effettivi, gestiscono le varianti di un repertorio che, considerato nel suo complesso, non presenta fratture tra italiano e dialetto, e che anche per questo è in genere ampiamente disponibile alle diverse componenti della comunità linguistica.
L’assenza di cesure di codice, a sua volta, riserva alla Toscana una posizione eccentrica rispetto ai rilevanti fenomeni di mistilinguismo consapevole che caratterizzano il parlato italiano contemporaneo: diversamente da ciò che succede nel resto d’Italia, per esempio, in Toscana non è prevedibile la commutazione di codice3. D’altra parte, l’assenza di obblighi di co-occorrenza tra le varianti del repertorio produce enunciati intimamente “misti” anche nei livelli stilisticamente più controllati, nessuno dei quali è in genere immune dalla presenza di varianti anti-italiane.
Una dialettologia “naturalmente sociolinguistica”
Forte delle premesse teoriche formulate dalla sua fondatrice, la dialettologia toscana ha fatto ricorso al concetto di marcatezza per restituire le caratteristiche salienti del proprio oggetto di studio. Nel 1988 il concetto ha ricevuto specifica elaborazione in un fondamentale articolo di Luciano Agostiniani4, che rivelava il modo in cui, stante la disposizione delle diverse opzioni su un versante unitario del repertorio, l’una o l’altra realizzazione potessero configurarsi ora come troppo bassa, ora come troppo alta rispetto a un livello medio, dove la marcatezza non è invece apprezzabile. Nei suoi caratteri costitutivi il parlato toscano va considerato insomma come un insieme continuo di variabili sociolinguistiche, le cui varianti si definiscono, l’una rispetto all’altra, in termini diafasici, rivelando negli usi effettivi la loro compatibilità con i diversi stili della comunicazione.
La condizione peculiare del repertorio toscano richiedeva dunque una modellizzazione teorica che tenesse conto del fatto che lo scarto linguistico tra le varianti va costantemente confrontato con la sua percezione da parte dei parlanti. E proprio questa sarà la chiave di lettura adottata da Agostiniani e Giannelli (1990) per proporre un’analisi del parlato toscano che, esente da obblighi di co-occorrenza, procederà valutando il carico dialettale dei singoli items in termini di diversa marcatezza sociolinguistica. Di fatto, il concetto di marcatezza sarà un riferimento costante delle ricerche che verranno condotte sui fenomeni più rilevanti della toscanità linguistica5.
Si può così dire che, a partire dalle riflessioni fondative della materia, la dialettologia toscana si è configurata da subito come una disciplina intrinsecamente sociolinguistica.
Esemplari, in questa prospettiva, sono gli studi di Cravens e Giannelli (1995) sulla progressione nella Toscana non fiorentina di quello che è considerato a ragione il fenomeno di maggior rilievo storico della dialettalità toscana, cioè la gorgia6, perché mette in relazione la fortuna del fenomeno al riconoscimento di una sua marcatezza intermedia, tra la piena occlusione (standard) e l’indebolimento tradizionalmente realizzato, in quell’area, con la sonorizzazione7.
A proposito di percezione delle varietà, Silvia Calamai ha promosso a più riprese indagini che sollecitavano giudizi su diverse varietà di toscano, sia in termini di gradimento esplicito, sia portando alla luce le caratteristiche – in termini di tratti della personalità e dello status – dei parlanti associati all’uso di quelle varietà (cfr. Calamai-Ricci 2005; Biliotti-Calamai 2012). Va rilevato come elemento di interesse il fatto che la varietà fiorentina emerge da queste indagini come quella più interessata da connotati di overt prestige, e quindi potrebbe rappresentare modello di riferimento, passibile in quanto tale di imitazione (a differenza, per esempio, di un livornese i cui connotati di varietà interessata da covert prestige favorirebbero un sostegno e una capacità espansiva di ambito più circoscritto).
Proprio la percezione del fiorentino come varietà investita da overt prestige potrebbe spiegare il motivo per cui la varietà fiorentina si mostra produttiva, all’interno della regione, solo per quei tratti che – con l’eccezione vistosa ma isolata della gorgia – non rappresentano una palese infrazione alla norma italiana. Non a caso, proprio la progressione, in Toscana, della gorgia fiorentina non coinvolge il suo esito più vistoso, cioè il digradamento a [h] di /t/ nelle forme di participio passato e assimilabili (son andahe ‘sono andate’; andaheci voi! ‘andateci voi!’): il fenomeno, infatti, è vissuto – tanto per cambiare – come prodotto di un “parlar male” responsabile di una sensibile, e per questo censurabile, deviazione dalla norma. Una analoga percezione di marcatezza ostacola l’accoglienza nel parlato toscano del fiorentino [i] come forma di determinativo maschile singolare, che oltretutto, in quanto accentato, innesca raddoppiamento fonosintattico, producendo complessivamente sequenze “ad alta devianza” rispetto all’italiano: si tratta, del resto, della procedura responsabile della formazione di quella vera e propria bandiera fiorentina che è il pronome icché ‘che cosa’ (fo icché mi pare)8.
Al contrario, non appare intralciata da percezioni di marcatezza la diffusione toscana dei costrutti impersonali dei verbi alla prima persona plurale, sebbene la loro complessa casistica, come ha messo in luce nitidamente un ormai classico lavoro di Luciana Brandi (1994), riveli che il fenomeno, nel fiorentino, presenti condizioni d’uso ben distinte da quelle accettate anche dalla norma dell’italiano.
“Dalla parte della lingua”: dialettalità in laboratorio
A partire soprattutto dai primi anni Duemila, grazie all’iniziativa di Giovanna Marotta e della sua scuola pisana, prende avvio, in Toscana, la produttiva stagione delle indagini di fonetica acustica. Vanno ricordati a questo riguardo i lavori sulla gorgia toscana (cfr. Marotta 2001, 2004; Sorianello 2001), rispetto alla quale l’analisi acustica si è mostrata in grado di evidenziare puntuali vincoli fonologici che presiedono all’estrema dispersione allofonica degli esiti. In generale, la metodologia dell’indagine acustica sarà applicata soprattutto a fenomeni di area occidentale, com’è successo per la velarizzazione di /l/ (Marotta-Nocchi 2001).
A loro volta le analisi acustiche di area occidentale potranno contare sulla documentazione raccolta per il progetto AVIP (Archivio delle varietà di parlato italiano), promosso a Pisa per iniziativa di Pier Marco Bertinetto, che documenta parlato semi-spontaneo ricavato in laboratorio con la procedura del Map-Task (cfr. Bertinetto 2001).
D’altra parte, la raffinata messa a punto dei profili acustici e intonativi non potrà non affiancarsi alla considerazione del valore sociale dei fenomeni esaminati: scarto effettivo e marcatezza percepita costituiscono quella dimensione peculiare della dialettalità toscana che dovrà essere tenuta presente anche quando il comportamento linguistico verrà elicitato e indagato in laboratorio, definendo con ciò un approccio di studio che sta rigorosamente “dalla parte della lingua”. A questo proposito Non di sola frequenza. La modulazione di f0 come indice socio-fonetico è il titolo – particolarmente rivelatore – di un lavoro del 2004 di Marotta, Calamai e Sardelli (2004), dove l’evidenza “di laboratorio” rappresentata dalla particolare estensione della modulazione di frequenza nel parlato pisano si salda con il fatto che il fenomeno trova il suo bersaglio privilegiato in quella vocale medio-bassa anteriore che costituisce il più riconosciuto tratto-bandiera della lingua locale. In questo modo il dato di laboratorio diventa, di fatto, la cartina di tornasole di un tratto attorno al quale si raduna e si esprime un condiviso e vissuto senso di appartenenza.
Proprio Silvia Calamai, che del resto si è formata nell’officina dell’ALT di Gabriella Giacomelli, ha proposto nel 2004 uno studio del vocalismo tonico occidentale in cui la riflessione sulle caratteristiche intrinseche – acustiche – dei foni vengono puntualmente affiancate e integrate da considerazioni che riguardano il valore sociale attribuito ai medesimi, producendo un’opera compiutamente interdisciplinare. Già nel convegno di Bardonecchia del 2000, del resto, che si proponeva di individuare la cornice teorica opportuna in cui inquadrare riferimenti alla prospettiva del parlante che la dialettologia italiana aveva diffusamente praticato nel tempo, senza peraltro teorizzarla (cfr. Cini-Regis 2002), Calamai aveva mostrato la produttività di una prospettiva che integrasse la messa in luce di dati oggettivamente devianti dalla norma con quanto percepito da soggetti puntualmente sollecitati a riflettere sui fenomeni di volta in volta esaminati.
Da questi anni l’integrazione tra analisi di laboratorio e rilievi percettivi sarà oggetto di ripetute incursioni in lavori che riguarderanno gli accenti (cfr. Gili Fivela 2005), e altri fenomeni diversamente distribuiti nel parlato toscano, come l’anafonesi (cfr. Paggini-Calamai 2016) e l’affricazione di /s/ postconsonantico (cfr. Turchi-Gili Fivela 2004).
La considerazione integrata di dati linguistici, sociolinguistici e percettivi si propone dunque come una produttiva chiave di lettura per osservare la dinamica tra conservazione e innovazione che riguarda il repertorio toscano. Non a caso, proprio l’approccio “socio-fonetico”, che si propone di evidenziare – e di applicare a dati quantitativamente rilevanti – il modo in cui selezionati tratti della fonetica tendano a correlarsi con il profilo sociale del parlante (in primis, la sua generazione di appartenenza), è il retroterra teorico su cui si muove una ricognizione di Silvia Calamai animata dalla volontà di evidenziare fenomeni rispetto ai quali le diverse anime della Toscana linguistica mostrano ora regressione, ora livellamento, ora conservazione (cfr. Calamai 2017)9.
In generale, tuttavia, va tenuto conto che, nell’Italia di oggi, la tenuta del dialetto è solo in parte correlata al profilo diastratico del parlante. In Toscana come altrove, per restituire il profilo dialettologico di una determinata comunità si dovrà allora procedere distinguendo
il condiviso (…) dal particolare ormai sostanzialmente inerte, e individuato appunto come particolare e non organico a una (sub)cultura. Individuato il condiviso, si dovrà prender atto che si tratta di un condiviso altamente polimorfico, ma debolmente assegnato secondo parametri socio-culturali» (Giannelli 2023, p. 28).
Dalla parte del parlante: la tradizione dell’Atlante Lessicale Toscano
Proprio la consapevolezza che la dimensione dialettale, in Toscana, è definita in modo inscindibile da scarto linguistico e marcatezza sociolinguistica ha prodotto, definendone il tratto distintivo, la complessa intelaiatura metodologica dell’Atlante Lessicale Toscano: se le domande “onomasiologiche” sono incaricate di documentare le tante Toscane “non italiane”, le domande “semasiologiche” sono invece concepite, di fatto, per individuare il tipo di relazioni che il lessico locale andava intrattenendo con forme concorrenti (o co-occorrenti), e dunque alle specifiche regole d’uso in vigore nella comunità parlante rappresentata dagli informatori. Al tempo stesso, la decisione di dar voce, in ciascun punto, a più parlanti, nasceva dalla necessità di tener conto del carattere non granitico delle comunità rappresentate, facendo particolare attenzione al rilievo della variazione generazionale notoriamente rappresentativa di dinamiche in atto. Frutto lucidissimo di questo ordine di riflessioni saranno le Note sul questionario (1978) prodotte dalla redazione dell’ALT, che possono essere considerate un vero e proprio manifesto programmatico dell’impresa.
L’ALT, dunque, era organizzato per poter restituire in modo articolato, partendo da una prospettiva lessicale, le dinamiche complessive di una Toscana linguistica da considerare come una entità antropologicamente complessa, inserita in un mondo a sua volta in rapida (e non sempre lineare) evoluzione:
Gabriella Giacomelli ha visto – e ha mostrato convincentemente – la Toscana come sistema, con i suoi centri egemoni, con la sua gerarchia di centri egemoni, e sue derive, il suo tormentato rapporto con la lingua nazionale, con le sue differenze sociali, senza nessuna infatuazione per supposte purezze, e senza nostalgie di sorta, ma introducendo una considerazione che a posteriori va definita antropologica, di impianto antropologico, curiosa delle specificità della microarea, delle sue tensioni, viste però, le une e le altre, sullo sfondo dell’osmosi generale della macroarea e del complessivo sommovimento di un’Italia partecipe degli sviluppi e degli inviluppi di quello che si definisce correntemente il mondo occidentale (Giannelli 2023, p. 130).
Per rendere conto della ricchezza e dello spessore sociolinguistico dei dati, fu deciso di convertire l’archivio delle inchieste ALT in banca-dati informatizzata, che all’inizio del Duemila sarebbe stata disponibile prima in CD-ROM (Giacomelli 2000), e, di lì a poco, direttamente su web (cfr. Montemagni-Paoli-Picchi 2006).
Costruire e rendere disponibile la documentazione di un atlante linguistico in termini di banca-dati interrogabile rappresentava un’operazione ancora inedita in Italia. Il lavoro era stato tanto imponente quanto complesso, dal momento che l’informatizzazione dei materiali – organizzata dal centro di linguistica computazionale di Pisa diretto da Eugenio Picchi – era stata decisa successivamente alla loro raccolta. Ma in questo modo nulla era andato perso, e tutto, ora, poteva essere disponibile, grazie a una piattaforma informatica strutturata a diversi livelli di specializzazione: restituire alla comunità nel suo senso più ampio i risultati dell’ALT, del resto, aveva rappresentato da subito una preoccupazione centrale della redazione del progetto. L’organizzazione di ALT-Web avrebbe cercato di rendere disponibile all’investigazione specialistica una rete particolarmente ricca e insieme complessa e poliedrica di dati, ma senza dimenticare il carattere dell’ALT come risorsa culturale nel senso più ampio, cioè come memoria linguistica di una ormai pregressa realtà sociale e antropologica. E non a caso proprio ad ALT-Web sarebbe stata dedicata, a cura dell’amministrazione regionale, una giornata pubblica di presentazione a Firenze, in Palazzo Strozzi: era il 1° febbraio del 2007.
Per andare incontro a esigenze e motivazioni diversamente strutturate, ALT-web ha previsto, prima di tutto, due tipologie di accesso ai materiali. Il primo, l’approccio guidato, consente di familiarizzare con le domande e per rispondere alle domande più frequenti che dei frequentatori degli atlanti: conoscere i dati relativi a un punto d’inchiesta e le risposte date a una determinata domanda. Il secondo, l’approccio avanzato, propone percorsi aperti di consultazione, orientati da un’ampia gamma di parametri sociolinguistici, in modo da consentire alla ricerca di accedere in modo ragionato all’insieme complessivo dei dati raccolti. La valorizzazione del corpus ALT in termini di risorsa culturale a tutto tondo sarebbe poi passata anche dalla possibilità, messa a disposizione del sistema, di restituire anche notazioni metalinguistiche degli informatori, ma anche di documentare, per via degli etnotesti, testimonianze e di pratiche e consuetudini tradizionali.
ALT-Web avrebbe così consentito la piena valorizzazione di una ricchissima stagione di indagini sul campo, che si erano configurate come evento culturale nel senso più ampio del termine, dove i parlanti, esprimendo competenza e connotati di una sezione significativa del repertorio terminologico, contribuivano alla definizione articolata dei connotati della dialettalità in Toscana, con le sue articolazioni interne e le tendenze in atto in un quadro caratterizzato, sul piano della società, dalla progressiva desuetudine dell’economia tradizionale e sul piano linguistico dalla progressiva, capillare disponibilità delle opzioni “standard”.
Motivate dalla volontà di allargare ai non specialisti la consultazione dei materiali raccolti, le innovazioni introdotte dalla struttura ALT-Web hanno determinato, nei fatti, un sensibile potenziamento della produttività del sistema di interrogazione. Pensiamo, per esempio, al modo in cui è stata riorganizzata la rappresentazione dei materiali dialettali. Proposta originariamente solo in caratteri fonetici, è stata affiancata in ALT-Web da una trascrizione su base ortografica a sua volta articolata in due momenti: il primo, quello della semplice traslitterazione, è pensato per rendere disponibile anche ai non specialisti la forma proposta in veste fonetica; il secondo, che procede verso una tipizzazione in cui risultano annullati fenomeni tipicamente produttivi, è funzionale a un a ricerca lessicale da condurre (anche) in mancanza di competenze specifiche alla fonetica regionale. E a sua volta questa tipizzazione sarà il presupposto per mettere in cantiere l’interrogazione e la cartografazione dei dati di impianto dialettometrico.
Da parte loro, infatti, i materiali confluiti e organizzati nella piattaforma ALT-Web costituiscono la base documentaria su cui, soprattutto a partire dall’ultimo decennio, è stata applicato produttivamente, da parte del gruppo di linguistica computazionale pisana che fa capo a Simonetta Montemagni, il metodo dialettometrico, che come sappiamo procede cartografando la distribuzione dei dati atlantistici dopo aver modellizzato la distanza linguistica tra varianti (e tra varianti e standard). Il concetto di scarto viene dunque messo al centro, come parametro ordinatore e insieme rivelatore della dialettalità toscana (cfr. Montemagni 2009). Al tempo stesso l’applicazione di questo metodo di interrogazione ai dati dell’Atlante Lessicale Toscano consente di rappresentare visivamente – rispettandone lo spessore quantitativo – la rilevazione di aree di influenza del lessico toscano, integrando per esempio il quadro che Gabriella Giacomelli aveva proposto in Aree lessicali toscane (1975b), e, insieme a Teresa Poggi Salani, in Parole toscane (1984/1985).
Si veda al proposito la carta linguistica che restituisce distribuzione e addensamento in Toscana del tipo lucio ‘tacchino’:
Fig. 1. Distribuzione e addensamento di lucio ‘tacchino’ in Toscana
Tra l’altro, la disponibilità dei dati lessicali in trascrizione fonetica ha consentito di estendere l’interrogazione quantitativa anche oltre il lessico: è il caso, per fare solo un esempio, della gorgia toscana, la cui valutazione e rappresentazione in termini dialettometrici è in linea con quanto suggerito dalla letteratura riguardo alle caratteristiche del fenomeno (in termini, per esempio, di diversa diacronia a seconda delle occlusive interessate), alla sua area originaria e ai suoi principali “promotori” , tipicamente le giovani generazioni (cfr. Montemagni 2009).
Il parlante e il racconto rivelatore: le esperienze CaLiTrat e VFC
ALT-Web muoveva anche da una preoccupazione che in seno all’ALT era sempre stata centrale. L’operazione di documentazione e di valorizzazione del patrimonio linguistico ed etnografico toscano avrebbe dovuto procedere tenendosi ben al di qua della frequente ideologizzazione della dimensione del “locale” e del “tradizionale”. È una preoccupazione, questa, che attraversa in profondità quel progetto di approfondimento settoriale dell’ALT che ha animato la raccolta del lessico della castanicoltura promossa nei primi anni del Duemila – dunque in concomitanza con l’avvio di ALT-Web – da Annalisa Nesi. In questa linea il progetto CaLiTrat - La Castanicoltura e i suoi prodotti: lingua e tradizione in Toscana, che si rifà all’esperienza dell’Atlante Generale dell’Alimentazione Mediterranea (AGAM) si propone di raccogliere il sapere tradizionale toscano relativo alla castanicoltura attraverso un approccio di tipo etnolinguistico che documentasse in modo ampio e articolato il rapporto tra parole e cose (cfr. Nesi 2003). In questo senso le ampie narrazioni raccolte avrebbero testimoniato un coinvolgimento degli informatori ritenuto necessario per ricostruire in profondità il tessuto di lingua e di vita che fino al recente passato si strutturava attorno a una delle più rilevanti pratiche dell’economia toscana. A questo riguardo la rete dei punti CaLiTrat è significativa non solo dei singoli luoghi di coltivazione del prodotto, ma più in generale di un’economia che – come sottolineano gli informatori stessi – prevede una realtà profondamente interrelata, e definita per esempio dallo spostamento stagionale dei raccoglitori lungo direttrici che procedevano anche ben oltre il territorio originario.
La prospettiva del parlante sarà programmaticamente al centro del progetto di documentazione del lessico fiorentino promossa dal Vocabolario del fiorentino contemporaneo (VFC), tutt’ora in corso presso l’Accademia della Crusca. Per molti aspetti, il VFC può essere considerato una sorta di costola fiorentina dell’ALT, che da parte sua aveva escluso dalla sua investigazione i capoluoghi di provincia e i centri maggiori in genere. Sollecitando gli intervistati a riflettere su conoscenza, uso e connotati di un lessico preventivamente selezionato, la metodologia di indagine del VFC si inserisce nell’approccio “semasiologico” previsto anche dall’ALT. Con la differenza che nel VFC l’italiano, per così dire, restava fuori programmaticamente, dal momento che la riflessione veniva sollecitata su voci nelle quali, per dirla con le parole di Gabriella Giacomelli, era riconoscibile “in partenza” un più o meno marcato stacco da ciò che – dizionari alla mano – poteva essere individuato come l’italiano comune. Questa “dialettalità sulla carta” si sarebbe confrontata, nelle interviste inizialmente concepite per verificare competenza e uso di forme reperite in gran parte su testimonianze d’epoca (prima fra tutte, il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, Firenze, Cellini, 1897), con una competenza dei parlanti che si manifestava nell’insistito ricorso a procedure – da singoli modi d’uso a etnotesti più o meno estesi – in grado di documentare insieme competenza della voce e appartenenza a un determinato contesto sociolinguistico.
La risposta del parlante si configura per questa via come articolato luogo di espressione e insieme di edificazione di un particolare senso identitario:
lo spazio dato all’informatore e al dialogo tra gli informatori che tra loro discutono della loro esperienza di lingua, che confrontano reti di sinonimi e di contrari, che ripresentano le condizioni d’uso in situazioni concrete, in luoghi e ambienti posseduti, dà al VFC un preciso valore di testimonianza storica e antropologica. Non è solo un vocabolario, è lo specchio di un mondo, della sua vita, di un costume, di modi di sentire. Nel VFC si trova ricca e frastagliata la memoria di una città, descritta da chi l’ha vissuta e l’ha dentro di sé. (Poggi Salani 2019, p. 82)
Se, allora, nella Toscana priva di fratture di codice – ma anche in un’Italia dove lingua e dialetto tendono ormai a convivere senza conflitti nel parlato effettivo – riferiamo il livello “dialetto” ai comportamenti incaricati di esprimere e condividere appartenenza, le modalità di messa in contesto appaiono un particolare momento elettivo della dimensione dialettale, visto che il tipo di contesto d’uso proposto – veicolando i tratti forti della varietà fiorentina – fa sentire i parlanti edificatori e quindi parte integrante di uno specifico e condiviso ambiente comunitario (cfr. Binazzi 2014).
Dal punto di vista lessicografico, la sfida del VFC è organizzare le voci in modo da restituire – a partire dalla definizione – un profilo della dialettalità che si nutriva e si esprimeva nel ricorso a modi d’uso e a racconti in grado di stabilire e manifestare connessioni con un identificativo habitat sociolinguistico. Del VFC è uscito – ormai più di dieci anni orsono – un saggio a stampa (Poggi Salani et alii 2012), dove l’ampiezza e ricchezza delle testimonianze raccolte è stata riprodotta in grafia parzialmente normalizzata in modo da assicurare alle testimonianze stesse la funzione di riconoscibile documento collettivo. A partire dall’esperienza ALT, si tratta di una preoccupazione ricorrente della ricerca dialettologica toscana.
Del resto, la dialettologia toscana si era confrontata con le procedure linguistiche del racconto già a partire dall’edizione, curata da Luciano Giannelli, della storia di vita di Dina Mugnaini (Di Piazza-Mugnaini 1988), che fu anche un’importante e produttiva occasione di dialogo con le discipline socio-antropologiche, purtroppo non divenuta mai strutturale. Anche in questo caso la restituzione in forma scritta di una lunga testimonianza orale – e nella prospettiva di confezionare un testo che fosse fruibile oltre la comunità scientifica – ha costituito un tassello rilevante per proporre un canone di rappresentazione dell’oralità toscana in grado di assicurare una fruibilità ampia del testo rispettandone il carattere di “documento di lingua”. Per iniziativa di Valeria di Piazza l’area della Valdelsa sarebbe stata teatro di successive raccolte di storie di vita, che sarebbero confluite a Casole nella fondazione, agli albori del Terzo Millennio, di un Archivio della memoria che gli studi dialettologici farebbero bene a tenere presente. A sua volta raccolte di parlato in quest’area interna della Toscana avrebbero consentito di documentare in modo articolato la ricaduta dei fenomeni di immigrazione in termini di ricollocazione e ridefinizione della propria appartenenza, anche in termini linguistici10. La Val d’Elsa, dunque, è stata in Toscana un’importante officina per la messa a punto di una metodologia di indagine e di restituzione dell’oralità che avrebbe individuato nell’etnotesto un costrutto in grado di valorizzare il ruolo del parlato come luogo di documentazione di lingua e insieme di definizione della posizione del parlante all’interno della comunità. Succede, come si diceva, nel VFC, e in modo analogo nelle ricche testimonianze sul ciclo del grano raccolte da Silvia Calamai (2006). Ma l’approccio etno-testuale non era certo una novità per la dialettologia toscana: si pensi soltanto alle monografie di Annalisa Nesi (1989) e di Fabrizio Franceschini (1994) sulla pesca nelle acque interne della Toscana, nate all’interno del progetto ALLI - Atlante Linguistico dei Laghi Italiani.
Dall’esigenza di documentare nel modo più esteso e accurato possibile il patrimonio sonoro regionale, ha preso avvio Gra-fo – Grammo-foni, Le soffitte della voce, un progetto promosso congiuntamente da Scuola Normale Superiore e dall’Università di Siena che a partire dagli anni Dieci del Duemila si è posto l’obiettivo di radunare, catalogare e rendere disponibili documenti sonori raccolti sia in prospettiva dialettologica, sia in prospettiva demo-etno-antropologica (cfr. Calamai-Bertinetto 2014). Nell’archivio di Grammo-foni confluivano dunque fondi di natura diversa: dalle interviste condotte per imprese linguistiche come l’ALT e la Carta dei dialetti italiani – che hanno messo a disposizione oltre 1.300 ore di registrazioni – ai canti popolari a testimonianze di pregresse attività produttive. Questo ha reso necessaria la definizione di una complessa architettura, a partire dalla riflessione sulla possibilità di definire in termini di unità archivistiche le testimonianze confluite in Gra-fo.
Una riflessione, quest’ultima, che sarà ripresa e approfondita di recente dal progetto Vi.vo, coordinato da Silvia Calamai, che si propone di dar vita a un’infrastruttura regionale in grado di mettere in sicurezza la documentazione sonora prodotta in Toscana predisponendo strutture di conservazione a lungo termine specificatamente pensate per unità archivistiche sui generis, quali sono quelle prodotte da testimonianze di parlato (cfr. Stamuli-Calamai-Monachini 2021). L’intento è quello di ristabilire e restituire la relazione tra la registrazione sonora e il contesto in cui è stata prodotta: in questo modo le fonti orali rivelano in modo convincente quelle caratteristiche di autenticità, autorialità e originalità che le rendono documenti linguistici a pieno titolo.
Per la Toscana, risulta meno praticata la raccolta di testimonianze scritte. Tra i documenti autografi di scriventi la cui ridotta scolarizzazione produce testi fortemente interferiti con i tratti del parlato si segnala l’ampio memoriale di deportazione del contadino mugellano Elio Bartolozzi (2011), dove la particolare gestione degli elementi di un repertorio intrinsecamente “misto” sembra animata da un progetto comunicativo finalizzato all’elaborazione del trauma della deportazione (cfr. Binazzi 2019a: pp.157-256).
Toscana, Italia: la lezione della LinCi
Costante riferimento della dimensione dialettale documentata dal VFC, il punto di vista del parlante sarà direttamente chiamato in causa per individuare, sempre sub specie lessicale, un inventario di forme locali spendibili anche in un livello non marcato delle esecuzioni. Analogamente a quanto proposto a suo tempo dalla ricognizione promossa da Rüegg, l’indagine nazionale LinCi – La lingua delle città, coordinata e condotta per tutto il primo decennio del Duemila da due protagoniste dell’esperienza ALT come Annalisa Nesi e Teresa Poggi Salani, individuerà dunque preventivamente un registro di riferimento e inviterà gli informatori a individuare il relativo lessico d’uso (cfr. Nesi-Poggi Salani 2013).
Diversamente dal modus operandi del VFC, siamo qui in una prospettiva tipicamente onomasiologica, che in quanto tale non propone all’attenzione del parlante voci “in partenza” non coincidenti con l’inventario della lingua comune, ma riserva la valutazione dello scarto tra forme locali e “italiano” al momento successivo al rilevamento, osservando quali entrate lessicali risultassero ai parlanti compatibili con il livello “italiano” del repertorio.
La ricerca investe – e in certo modo scommette – sulla capacità dei parlanti di percepire e rappresentare una realtà linguistica intermedia “tra lingua e dialetto” che, certo non da oggi, è di estremo interesse e al tempo stesso di complicata definizione, dato che proprio il progressivo guadagnare posizioni dell’italiano nei versanti inferiori della diafasia e della diastratia – e, parallelamente, la più o meno marcata ricezione, nel quadro sempre più articolato dell’italiano contemporaneo, di elementi riferibili al parlato – tende a risolversi sempre di più nella produzione di enunciati “misti” popolati da forme caratterizzate in quanto tali da diversi gradi di marcatezza.
Del resto, proprio l’indagine LinCi sembra indicare che, anche all’interno dei singoli punti oggetto di indagine, la dinamica tra convergenza (verso forme “comuni”) e divergenza (segnalate da un persistente orientamento verso forme anti-italiane) assume come principio regolatore proprio la percepita pertinenza delle forme con quelle tradizioni del discorso in cui si sentono manifestati connotati profondi del parlato consuetudinario. Complessivamente, in Toscana come nelle altre regioni linguistiche indagate dalla LinCi, la compatibilità delle forme locali con il parlato anche mediamente sorvegliato oppure – all’opposto – l’introduzione di forme “anti-dialettali”, è favorita dal progressivo venir meno di obblighi di co-occorrenza tra forme, per così dire, di segno opposto. Da questo punto di vista anche la caratterizzazione in senso più o meno tradizionale del vocabolario di riferimento di oggetti e concetti della vita quotidiana e di specifici andamenti morfosintattici si inscrive in un parlato che, non solo nei registri più informali, prevede una presenza non conflittuale tra elementi “di lingua” e “dialettali” (cfr. Nesi 2013).
In questo senso il parlato comune sembra dunque progressivamente allinearsi – di fatto – a condizioni di “non bilinguismo” che per la Toscana sono endemiche:
la situazione di jargon (nell’accezione della creolistica più avanzata) che caratterizza la Toscana, ma anche Roma, ma poi – si scopre – anche Napoli, anche il Nord-Italia, come ha più volte sottolineato Gaetano Berruto, e che si ritrova nelle situazioni più impensate, non tanto il black English, ma ad es. la mistura inglese-lakota evidenziata da William Leap, l’impiego massiccio di quello che si è definito code-mixing, dove c’è apparentemente sempre meno da mischiare, questo continuum evolutivo, hanno alla fine prodotto una palese discontinuità, che non è la tanto paventata (desiderata?) ‘morte dei dialetti’, ma un diverso codice comportamentale di massa. (Giannelli 2023, p. 18)
Sono considerazioni, peraltro, che Agostiniani e Giannelli avevano già proposto da tempo:
Ci pare […] che ci sia da chiedersi se la costatata presenza di un italiano “dialettale” (Sanga 1978) e della frequenza di enunciati misti non interpretabili con un la commutazione di codice […], la cui concentrazione è origine dello stesso “italiano dialettale”, non sia un fatto che mostra il crearsi di una situazione di ampia variabilità almeno paragonabile – nei domini in cui può essere impiegata – a quella toscana. (Agostiniani-Giannelli 1990, p. 236)
Del resto, proprio Luciano Giannelli aveva proposto già nel 1994 Una teoria e un modello per l’analisi del parlato substandard, che partiva proprio dall’osservazione del progressivo allineamento dei livelli meno sorvegliati del parlato italiano a condizioni “miste” endemicamente tipiche della realtà toscana.
La dialettalità riflessa: usi letterari e “riusi” contemporanei del dialetto
La percezione del diverso grado di marcatezza delle forme è al centro degli studi che in Toscana hanno messo sotto osservazione gli usi “letterari” del dialetto, che secondo una convincente proposta di Fabrizio Franceschini, individuano in quanto tali la dimensione della vernacolarità. Diversamente da parlare dialetto, fare vernacolo è dunque pratica di usi riflessi in grado di definire un riconosciuto canone di riferimento (cfr. Ambrosini et alii 1993). Questa vernacolarità così definita è stata indagata a fondo proprio da Franceschini nei suoi numerosi studi sull’area pisana, a partire dagli studi pionieristici sull’ottava rima e sul Maggio drammatico nell’entroterra di Bientina e Buti (cfr. Franceschini 1983). E proprio la messa in luce del modo in cui la letteratura dialettale riflette una percezione di marcatezza di specifici tratti locali che integra – individuandone puntuali riferimenti linguistici – la parallela esibizione di blasoni identitari, sarà l’approccio che lo stesso Franceschini proporrà nelle sue approfondite e raffinate investigazioni sulla dialettalità livornese restituita, a partire dall’Ottocento, da una letteratura vernacolare che individua il proprio tessuto sociale di riferimento nel quartiere popolare della Venezia (cfr. Franceschini 2008).
In questa prospettiva il saggio Voci di Toscana sulla lingua del teatro toscano (Binazzi-Calamai 2003), legge le scelte “dialettali” di alcuni dei più significativi autori contemporanei – dai primo-novecenteschi Novelli e Paolieri fino al tardo-novecentesco Chiti – come finalizzate alla definizione di un canone in grado di rappresentare – ed essere percepito – come il correlato linguistico, più o meno esasperato, di uno specifico contesto socio-antropologico. Nello specifico, Novelli avrebbe aggiornato, dal punto di vista linguistico, i connotati di quel popolo di Firenze per il quale lo Zannoni aveva apparecchiato, e descritto, un canone esibito da forme-bandiera presentate come “viziate profferenze della plebe” (cfr. Binazzi 2008). A loro volta quelle stesse forme presentate dallo Zannoni come regola della plebe ottocentesca sarebbero tornate a definire il canone di lingua della campagna proposto un secolo dopo da Paolieri per mettere in scena i contadini dell’Impruneta. In Ugo Chiti, invece, il richiamo e l’esibizione insistita di forme marcatamente “rustiche” seguirà un percorso rappresentativo di taglio iperrealistico, per cui quella lingua sarà il correlato espressivo di una dimensione esistenziale fuori dalla storia, arcaica, intrisa di superstizioni, profondamente arcana.
Quella dimensione sarà anche, largamente, il riferimento della lingua pensata da Roberto Benigni per il suo Mario Cioni. Nel pastiche proposto dal monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia l’insistito ricorso ai tratti di una toscanità a sua volta composita, comunque non univocamente orientata, vuol restituire una dimensione tutta istintiva, corporale, dell’esistenza (cfr. Binazzi 2019a, pp. 11-155). Usando la voce come un commento musicale al corpo che si agita nei meandri angosciosi di un’esistenza offesa, Mario intride di tratti vistosamente anti-italiani maledizioni e invettive, cioè comportamenti tipicamente irriflessi, tutti istintuali. A sua volta, l’estremizzazione della distanza linguistica rappresenta anche – come succedeva per la plebe fiorentina rappresentata dallo Zannoni – la cifra sociale e comportamentale di coloro per i quali la marcatezza viene presentata come norma d’uso: in prospettiva realistica o iperrealistica, la riconoscibilità assicurata dalle forme, e dalla loro proposta insistita diventa, nelle rappresentazioni letterarie, il correlato linguistico di una marginalità che – spesso allo stesso tempo – è sociale e emotiva. Così facendo, si ritorna a uno degli snodi centrali della riflessione sulla toscanità linguistica. Le ricerche sulle rappresentazioni letterarie della lingua locale tornano infatti a presentarci una dialettalità toscana che, non potendo contare su un versante del repertorio a lei dedicato in esclusiva, procede eleggendo specifici fenomeni come forme auto-rappresentative, investite cioè da una immediata e condivisa riconoscibilità. C’è insomma bisogno di individuare, nella lingua locale, quei tratti che ostentino la maggior distanza con un italiano che da parte sua non è entità altra, ma opzione sempre e naturalmente disponibile.
Da parte sua il recupero del dialetto nel linguaggio giovanile e nel paesaggio linguistico torna a riproporre l’idea di un allineamento tra realtà linguistica toscana e quella complessivamente italiana (cfr. Marcato 2006). Il ricorso a tratti anti-italiani in prospettiva gergale è stata documentata in Toscana dagli studi promossi in area occidentale da Fabrizio Franceschini, che hanno prodotto la banca dati BaDaLì - Banca Dati Linguagiovani (cfr. Franceschini-Pierazzo 2006). Gli studi sulla presenza del dialetto nel paesaggio linguistico, invece, sono ancora del tutto preliminari: un saggio focalizzato sul fiorentino e sul livornese (Binazzi 2021), è stato pubblicato nel volume “fondativo” degli studi fortemente voluto dal compianto Gabriele Iannàccaro, che voglio ricordare anche perché negli anni del suo dottorato di ricerca a Firenze poté condividere il clima stimolante della dialettologia toscana.
Raccogliere, descrivere, restituire
Per concludere una riflessione che è stata animata dalla ricerca di un filo rosso più che dall’esigenza di esaustività, vorrei ricordare tre pubblicazioni uscite tra il 2022 e il 2023 e che, ciascuna a suo modo, ripropongono in modo esemplare ciò che secondo me ha significato fare dialettologia in Toscana insieme a Gabriella Giacomelli.
La prima è l’ultima per data di pubblicazione, e restituisce il modo in cui, per recuperare le formule usate all’inizio di questa riflessione, la Toscana è dialettale “come le altre regioni”. Si tratta della Toscana di Leonardo Savoia, uscita nella collana “Dialetti d’Italia” di Carocci, che si propone di aggiornare i profili dialettali delle regioni d’Italia della “storica” collana Pacini. Rispetto a questo antecedente, che aveva visto la Toscana rappresentata dai lavori di Luciano Giannelli (rispettivamente del 1976 e del 2000), i “Dialetti d’Italia” Carocci muovono dalla prospettiva di rivolgersi anche a un pubblico non specialistico (cfr. De Blasi 2023).
Coerentemente con la formazione teorica dell’autore, la Toscana di Savoia propone una fenomenologia dei tratti anti-italiani in grado di restituire, ai diversi livelli, la competence dialettale toscana. A differenza dei precedenti “Profili” di Giannelli il lavoro, così, non presenta articolazioni interne per aree, ma procede verificando il modo in cui si declina la dialettalità toscana ai diversi livelli della grammatica (fonologia e morfosintassi), riservando una sezione più limitata al lessico. Programmaticamente, insomma, si procede alla messa in luce di ciò che, manifestando un evidente scarto dall’italiano, costituisce di per sé un elemento distintivo del “sapere linguistico” locale. La ricognizione su fonologia e morfosintassi toscana proposta da Savoia non prevede dunque la messa in luce delle dinamiche in atto in termini di conservazione / innovazione / ristrutturazione del valore d’uso, o sul possibile configurarsi di nuovi continua areali (su questo, cfr. invece Binazzi 2019b), e tantomeno dei condizionamenti di natura sociolinguistica a cui sono sottoposte le produzioni effettive, dal momento che, come scrive l’autore, “qualsiasi ricerca linguistica, per quanto basata su comportamenti osservati […] in realtà è ricerca […] sulla capacità cognitiva soggiacente alla padronanza di una lingua” (pp. 22-23).
Un aspetto rilevante – e qualificante – dell’opera è il suo fondarsi su testimonianze di prima mano: la ricognizione della toscanità dialettale procede infatti confrontando puntualmente quanto documentato dalle testimonianze più antiche con ciò che proviene dalle indagini sul campo condotte in prima persona. Da questo punto di vista questa Toscana è anche il ricco documento di lunghe stagioni di interviste sul campo (e del resto andrà ricordato che a suo tempo Leonardo Savoia ha messo a disposizione del progetto ALT la sua perizia di scrupoloso ricercatore sul campo…).
Proprio le documentazioni di parlato proposte da Savoia consentono di mettere in evidenza, sul piano morfosintattico, interessanti linee di continuità geo-linguistica. A questo riguardo la riflessione sul sistema dei clitici è in linea con quanto evidenziato dall’articolata ricognizione promossa da Brandi e Giannelli su cui tra poco torneremo, e che evidenzia un “dialogo transappenninico” per ciò che riguarda fenomeni sintattici ad alta frequenza. Da questo punto di vista la confrontabilità, rilevata anche dalla documentazione illustrata da Savoia, tra condizioni fiorentine e “alto-garfagnine” riguardo all’uso dei clitici soggetto confermerebbe l’ipotesi di una pregressa unità linguistica dell’area settentrionale, toscana, con Firenze geolinguisticamente allineata all’area linguistica settentrionale e “altra” rispetto alla Toscana centro-meridionale.
Questo rilievo consente di introdurre la seconda pubblicazione, progettata e curata da Luciano Giannelli: Tra Po e Tevere, e altre terre e altri mari (2022). Per ciò riguarda il rilievo dialettologico toscano il volume propone una prima parte interamente dedicata alla sintassi “peri-appenninica” di interrogative dirette e indirette, delle dichiarative relative e dell’uso dei clitici soggetto (di per sé connesso ai costrutti esaminati). Riflessioni dialettologiche toscane tornano poi nella seconda parte del volume, in cui trovano posto un approfondimento in prospettiva socio-fonetica sulle labiovelari livornesi proposto da Nadia Nocchi, la riproposizione della indispensabile monografia amiatina di Beatrice Pacini e la rassegna sulle vocali intertoniche in prossimità tiberina di Magnanini e Giannelli. L’allargamento settentrionale – fino al limite del Po – della prospettiva dialettologica toscana costituisce l’aspetto più ricco e stimolante del lavoro: in particolare il limite padano richiamato dal titolo ha a che fare con una sintassi che, per quanto riguarda fenomeni ad alto impatto nella configurazione del parlato, rivela un evidente “dialogo transappenninico”. Di questa solidarietà transappenninica è protagonista soprattutto Firenze, che, allineandosi a condizioni settentrionali, rivela una significativa alterità dal resto della Toscana linguistica (occidentale e genericamente al di sotto dell’Arno). Luciano Giannelli e Luciana Brandi hanno analizzato occorrenze e connotati sociolinguistici di questi fenomeni partendo da profonde investigazioni nei propri terreni natali: l’uno, Colle val d’Elsa, testimone di una fiorentinità di confine verso Siena, l’altro, Vernio, profondamente inserito nell’area di influenza fiorentina. Non è possibile, in questa sede, soffermarsi su una ricerca così vasta, che ha prodotto vere e proprie monografie sui fenomeni indagati, con risultati di particolare interesse: solo per fare un esempio, emerge in modo evidente la facoltatività in fiorentino dell’espressione del clitico soggetto (tassativo solo nelle dipendenti), la cui adozione sembra invece condizionata diafasicamente11.
La valutazione dei fenomeni anti-italiani torna così a misurarsi con il punto di vista del parlante: il grado di marcatezza percepita è criterio pertinente per la valutazione delle varianti, fermo restando che “sussiste un tipo di variazione la cui natura è riconducibile a processi in divenire, testimoniati dal fatto che i confini di accettabilità dei costrutti indagati si fanno talvolta porosi” (Brandi-Giannelli 2022, p. 86). Ma proprio perché “l’apparente pastiche linguistico quotidiano è forse il nostro oggetto di studio”, in Toscana come altrove è necessario assumere la variabilità come qualcosa di costitutivo perché tendenzialmente endemico:
Nella descrizione dovrà essere distinto il condiviso (intendendo con questo l’insieme degli elementi non residuali, che possono essere considerati relitti) dal particolare ormai sostanzialmente inerte, e individuato appunto come particolare e non organico a una (sub)cultura. Individuato il condiviso, si dovrà prender atto che si tratta di un condiviso altamente polimorfico, ma debolmente assegnato secondo parametri socio-culturali. (Giannelli 2023, p. 28)
L’ultima pubblicazione che vorrei ricordare ha programmaticamente carattere divulgativo. Parola mia! Un viaggio nella Toscana linguistica tra lingua e dialetto, è infatti un volumetto uscito nella primavera del 2023 per iniziativa congiunta del quotidiano “la Repubblica” e dell’Accademia della Crusca, la cui sensibilità per la dialettologia toscana è testimoniata dal fatto che nei suoi locali si è formato e strutturato l’Archivio Giacomelli, dove sono confluiti importanti materiali diversamente riconducibili all’attività della fondatrice dell’ALT, tra i quali spiccano le tesi discusse nel Seminario di Dialettologia italiana.
Curato da Annalisa Nesi e da chi scrive, Parola mia! è un saggio di lessico toscano confezionato a partire dalle testimonianze delle più importanti indagini sul campo condotte nella regione: l’ALT, Il CaLiTrat, la LinCi, il VFC. In tutte queste esperienze, come si è detto, la documentazione raccolta riceve valore e spessore anche per il ruolo attivo di una fonte che non si limita a “rispondere alle domande” poste dai ricercatori, ma che con le sue riflessioni consente di portare alla luce rilevanti connotati della toscanità linguistica.
Del resto proprio l’esperienza ALT, proprio per come è stata concepita e coltivata da Gabriella Giacomelli, ha sempre sottolineato che quel patrimonio raccolto e documentato non doveva restare di dominio esclusivo della comunità scientifica, ma, per il suo essere una complessiva testimonianza socio-antropologica, avrebbe dovuto proporsi come riconoscibile patrimonio della collettività. E così Parola mia! è stato, in ultima analisi, una pratica di restituzione che intimamente sentivamo di dover dedicare a un parlante il cui punto di vista è imprescindibile per muoversi con efficacia sul terreno – complesso quanto stimolante – della dialettalità toscana.
Nota bibliografica:
Note:
[1] A sua volta, assumere la distanza come criterio rivelatore di dialettalità, e indicarla con parole come scarto e stacco, è anche il modo, per Giacomelli, di richiamare – anche terminologicamente – l’impostazione classificatoria di Ascoli, che, com’è noto, consentiva di raggruppare i diversi dialetti d’Italia in ragione del loro diverso distaccarsi o distanziarsi da quel toscano-italiano che, tra tutti i dialetti, mostrava la maggior prossimità all’antenato latino (cfr. Ascoli 1882).
[2] Riprodotte in Binazzi 1999 (p. 207), le parole dell’intervistato esprimono con efficacia anche quello svantaggio che per Patrizia Bellucci consiste nell’incapacità dei parlanti toscani di prendere consapevolezza e dunque di affrontare concretamente la propria diversità linguistica (cfr. Maffei Bellucci 1984).
[3] Per una riflessione ragionata e aggiornata sulle enunciazioni mistilingui nel parlato d’Italia, cfr. Cerruti-Regis 2020.
[4] Sulla figura di Luciano Agostiniani, rimando senz’altro al contributo di Riccardo Massarelli.
[5] Succede così, per esempio, che la specializzazione in senso stilistico, come forma marcata, del rotacismo di L+consonante (corpa, cortello), ha per correlato l’introduzione di un nesso LC non endemico in Toscana, e fino a tempi recenti vissuto esplicitamente e diffusamente come marca di affettazione. Per quanto riguarda il tema della regressione dei tratti più specifici (cfr. Giannelli 2000 [1976], pp. 13-17; Calamai 2017), bisogna naturalmente distinguere fra ciò che, in disuso come forma “normale”, si presta a una gestione in ottica stilistica, e ciò che costituisce di fatto un relitto, in quanto nell’uso esclusivo di una specifica classe di parlanti (generalmente anziani di basso livello di istruzione). Nella prima prospettiva, oltre all’uso sociolinguisticamente connotato di r+cons ˂ L+cons, che di per sé va considerato il particolare punto di approdo di uno sviluppo del gruppo consonantico in Toscana, si possono ricordare il monottongamento UO > ò (bòno, sòna, vòle, lenzòlo, òvo, ecc.) e, in area fiorentina, il dileguo di -v- (dicea, laorare / laoro, una òrta ‘una volta’). Tra i fenomeni residuali si possono ricordare la paragoge (specialmente dopo forme ossitone: perchéne; peròe), la resa in occlusive palatali da -CL- e -GL- nell’area rustica fiorentina; alcune palatalizzazioni di à[ in area aretina periferica; la retroflessione in area garfagnina.
[6] Per una rassegna ragionata degli studi cfr. Savoia 2023, pp. 37-46.
[7] In un quadro in cui, complessivamente, le generazioni mostrano la più spiccata disponibilità ad adottare questo “fiorentinismo”, la distribuzione diastratica interna della comunità indagata da Cravens e Giannelli suggerisce che la spirantizzazione può costituire un bersaglio per chi – com’è il caso delle giovani donne istruite – riferisce il fenomeno alla varietà prestigiosa del capoluogo di regione (overt prestige), ma anche per chi – come i giovani maschi meno istruiti – ne apprezzano un carattere “anti-standard” tradizionalmente riconosciuto alle forme sonorizzate (covert prestige), e che tende progressivamente a estendersi alle forme spirantizzate di recente introduzione.
[8] Su percezione e ricezione dei fiorentinismi nella Toscana linguistica cfr. Giannelli 1999.
[9] Tra i fenomeni che vedono interessare progressivamente la Toscana linguistica, la spirantizzazione si configura in generale come tratto di prestigio in espansione da Firenze, e va inserito oggi nel quadro ampio e articolato dell’indebolimento consonantico centro-meridionale (e sardo): cfr. Cravens e Giannelli 1997. Un tratto non endogeno, ma la cui progressiva diffusione regionale sembra da riferire al ruolo promotore di Firenze, è costituito da [z] < -/s/-, (cfr. Nocchi-Filipponio 2012). Tra i fenomeni di convergenza “regionale” che invece non chiamano in causa Firenze come centro originario e propulsore, ma come ricettore, Calamai (2017) ricorda la progressiva diffusione dell’affricazione della dentale sorda postconsonantica (poltso, pentso), tratto generalmente diffuso nella Toscana “non centrale”, e il troncamento degli infiniti prima di pausa (mangià ‘mangiare’; lègge ‘leggere’), fenomeno peculiarmente occidentale segnalato in espansione. Ma, come si diceva, la convergenza può interessare singole aree interne, più o meno estese, come succede per la progressiva diffusione anche in area pisana di un abbassamento vocalico di tipo “livornese” la cui produzione e percezione sembra riconducibile, nelle generazioni più giovani, alla manifestazione di istanze identitarie.
[10] Paradigmatica, da questo punto di vista, l’esperienza linguistica di immigrati siciliani ripercorsa in Becattelli 1988.
[11] In questa prospettiva è macroscopico il caso di e’, di per sé clitico soggetto di prima persona (maschile e femminile) e di terza e sesta persona maschile (e’ mangio / e’ mangia / e’ mangiano ‘io mangio / lui mangia / loro mangiano’), che mostra una progressione proprio in qualità di enfatizzatore premesso al clitico soggetto di volta in volta previsto dalla norma (e’ la mangia parecchio! / e’ vu mangiate parecchio!).
Pär Larson
Simonetta Montemagni
Neri Binazzi
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