La riflessione sull’uso discriminatorio della lingua in base al parametro sesso si è aperta in Italia negli anni Ottanta sulla scia degli studi, di ambito femminista soprattutto statunitense, sul linguistic sexism. Si trattava di un tema sostanzialmente nuovo per gli studi linguistici, che si erano occupati fino ad allora solo sporadicamente dell’uso della lingua in relazione alla differenza sessuale e da un punto di vista puramente descrittivo, fino a quando Lakoff nel suo Language and Woman’s Place aveva segnalato che alcune differenze riscontrabili fra i due gruppi tradivano una subordinazione delle donne nei confronti degli uomini, che si rivelava sia nel modo di parlare delle donne, sia in quello con il quale gli uomini parlavano di loro[1]. La discussione era già stata aperta invece, a partire dagli anni Settanta, dal femminismo “radicale” negli Stati Uniti e dal femminismo materialista che si era sviluppato in Francia, ed era imperniata sulla convinzione – che richiamava l’ipotesi Sapir-Whorf sul determinismo linguistico (Bianchi 2007) - che il linguaggio rifletta una struttura maschile e maschilista del mondo e ne determini l’interpretazione in questi termini.
Il parametro sesso, cui si è affiancato quello del genere – un termine interpretato dapprima in modo binario, come è stato per molti anni, partendo dalla nota definizione di Gayle Rubin (1975)[2], cioè come un riflesso delle caratteristiche socioculturali attribuite agli esseri umani in base all’appartenenza sessuale, ma oggi, seguendo una linea interpretativa più recente fondata su un’interpretazione performativa del genere, anche come “un continuum di modi diversi di vivere la propria identità sessuale”[3]- occupano ancora oggi una posizione di rilievo come categorie critiche e decostruttive della discriminazione femminile (Loretoni 2014). Infatti, nonostante che la prospettiva intersezionale suggerisca, come è noto, di analizzare le varie forme di esclusione e discriminazione dell’individuo nella società in interconnessione, piuttosto che singolarmente, ciascuna delle categorie che concorrono all’analisi mantiene una propria specificità.
Sul linguaggio come strumento di discriminazione fra donne e uomini, e di codifica di una visione maschile del mondo che rivelerebbe così la sua natura patriarcale e androcentrica, si è aperto anche in Italia, a partire dalla fine degli anni Ottanta, un filone di studi sul “sessismo linguistico” che ha preso in esame soprattutto questioni lessicali, morfologiche e semantiche: l’uso di termini aggressivi, violenti, offensivi, pesantemente connotati sul piano sessuale; l’adozione di modalità morfosintattiche e lessicali da cui la donna emerge marginalizzata, come l’abuso del maschile cosiddetto “non marcato” che la nasconde e la cancella, e l’uso del genere maschile anziché femminile per i termini che indicano ruoli o professioni di prestigio ricoperti da donne; le prese di turno maschili nel discorso e sugli interventi finalizzati a tacitare la donna; le interruzioni per aggiungere spiegazioni o puntualizzazioni, di chiara impronta paternalistica, a cui oggi si fa riferimento come mansplaining[4], ecc. Si tratta di usi della lingua che rivelano come le donne siano ancora al centro di dinamiche di subordinazione all’uomo in tutti i contesti sociali, lavorativi, istituzionali, personali tanto da far pensare che la discriminazione perpetrata attraverso il linguaggio abbia ormai raggiunto un significativo livello di “normalizzazione”, nonostante l’ormai lunga serie di proposte di intervento per “riformare” le asimmetrie semantiche e lessicali, aperta da Il sessismo linguistico di Alma Sabatini ormai più di trent’anni fa (Sabatini 1987).
2. Gli usi discriminanti dei quali abbiamo dato sopra qualche esempio non rappresentano tuttavia l’unica modalità con la quale, nei secoli è stata usata la lingua come strumento di discriminazione. Per una sorta di legge di contrappasso, proprio l’azione contraria all’uso della lingua praticato da parte degli uomini, cioè la “riduzione al silenzio” delle donne (women silencing), ha costituito in alcuni periodi uno degli strumenti discriminatori più potenti[5]. In questo lavoro con l’espressione “riduzione al silenzio” delle donne si intende il risultato di un processo di esclusione delle donne dalla conoscenza della lingua al di là della varietà quotidiana (quasi esclusivamente orale e propria della dimensione familiare) che le rende, fuori dalle mura domestiche, esseri silenziosi, emarginati dalla vita sociale, politica e civile, assenti dalla possibilità di partecipare al discorso pubblico, e quindi alle dinamiche del “potere”, se non come oggetti[6]. Strumento fondante di questo processo di esclusione è l’impossibilità per le donne di accedere all’istruzione: tenute nell’ignoranza, rese incapaci di leggere e quindi di conoscere, ancorate a un vocabolario limitato, escluse dalla comunicazione se non familiare, sono state a lungo costrette al silenzio, soprattutto quando la lingua trattava argomenti “maschili”: economia, finanza, politica, ecc.[7] In sostanza tutti quelli che permettevano di intervenire nelle dinamiche di potere.
3. Un rapidissimo excursus storico ci permette di ricostruire alcuni momenti fondamentali del processo di esclusione dall’istruzione e della sua deprivazione culturale. Nel medioevo alla donna è precluso lo studio della grammatica latina e greca, la disciplina chiave del sapere che permette l’accesso ai testi classici, considerato inappropriato “for the perceived frail and volatile female constitution”, come ha notato Sanson[8]. Le poche eccezioni - donne d’alto rango e (poche) di potere – del Trecento e del Quattrocento, educate nelle corti signorili anche allo studio del latino, ne riservano l’uso, se hanno un ruolo pubblico, alle “lettere di governo”, mentre adottano il volgare nelle loro scritture private, come del resto facevano molti uomini (Lazzarini 2021)[9]. A tutte le altre che non conoscevano latino e greco era di fatto impedito l’accesso ai testi classici di storia, filosofia, letteratura, saperi alla base dei modelli comportamentali e culturali richiesti all’uomo per svolgere la sua funzione attiva nella società. A queste rimaneva solo l’utilizzo del volgare per la lettura e la scrittura: soprattutto narrazioni autobiografiche e letteratura devota, che in questo periodo vede una grande fioritura legata ai movimenti di rinascita spirituale attraverso l’uso di volgari locali e permette la lettura anche da parte di donne meno colte. Come ricorda Librandi (1993) “laddove per secoli la mentalità collettiva occidentale aveva ritenuto giusto amministrare con grande parsimonia la lettura delle donne, la Chiesa ha rappresentato spesso per loro l’unica spinta verso la parola scritta”[10]. Moltissime poi – come del resto molti uomini – erano analfabete. L’ignoranza le segregava nel loro ruolo prima di figlie e poi di mogli, e nello spazio disegnato per loro: quello domestico, che permetteva l’accesso solo a una lingua povera, “naturale”, che veniva trasmessa agli infanti attraverso il latte materno: dai sette anni in poi però i maschi delle famiglie abbienti avevano accesso all’istruzione, quindi al latino e ai testi che li avrebbero preparati alla vita pubblica.
4. Il lento distacco dall’uso del latino per le opere letterarie e scientifiche e la progressiva adozione del volgare cui si assiste fra Quattro e Cinquecento, non comportò automaticamente l’accesso delle donne, escluse dalla conoscenza del latino, ai nuovi testi scritti in volgare. La trattatistica cinquecentesca esamina ampiamente il rapporto fra la donna e il suo linguaggio che la convenzione comune voleva (e dipingeva) “simple, conservative and pure”[11], così come le aspettative che circondavano la sua vita. Il modello comportamentale e linguistico femminile che caratterizzerà anche i secoli successivi implica la convinzione che sia opportuno escludere la donna dall’accesso all’istruzione, cosicché essa (con poche eccezioni) rimarrà relegata al ruolo di “oggetto” della lingua e della letteratura e quindi, potremmo aggiungere, della vita sociale. Inoltre le varietà volgari parlate tra le mura domestiche in tutto il paese erano ben diverse dal volgare letterario, ancora in costruzione, che prendeva a prestito, seppure con una serie di adattamenti, gran parte del lessico e molte strutture sintattiche proprie della varietà latina scritta. Le donne non acculturate, depositarie solo di una conoscenza strumentale della lingua parlata locale, con un vocabolario e una sintassi limitati alle necessità comunicative poco più che quotidiane e casalinghe, si trovarono a fronteggiare una nuova lingua, diversa dal latino e diversa dal proprio linguaggio quotidiano: e la differenza era tanto più evidente per coloro che usavano una varietà linguistica lontana da quelle della Toscana, tra le quali i letterati stavano ancora scegliendo quella su cui modellare la lingua letteraria[12]. Molti scrittori del Cinquecento testimoniano che la conoscenza della sola varietà locale rappresentava un ostacolo alla comunicazione delle donne con genti forestiere (se mai vi fosse stata occasione) e che i loro tentativi di imitare quella toscana le rendevano ridicole:
curiamo che ella [la fanciulla] non costumi altra favella che la propria et natía della città […] per fuggire il biasimo in che incorrono alcune […] le quali […] cercano d’imitar la lingua thoscana, di maniera che chi ha giudicio non le può udire senza riso. (Ludovico Dolce, Dialogo […] della institution delle donne, 1547: fol.30v)[13]
Solo le donne erudite appartenenti alle classi alte, grazie all’insegnamento privato, acquistano le abilità necessarie a sostenere una conversazione anche nell’ambito delle corti e a scrivere. Il numero delle singole individualità -Lucrezia Marinelli (1571-1653), Arcangela Tarabotti (1604-1652), Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684) – che scrivono, conoscono le lingue straniere, traducono, prendono parte alla vita culturale e sociale è destinato naturalmente a crescere già nel Settecento, un secolo caratterizzato “da una sensibilità nuova per i temi della divulgazione e della diffusione della cultura nei ceti medi” (Marazzini 2015)[14], ma le donne che possiedono una statura intellettuale e culturale di rilievo sono ancora guardate con diffidenza per la loro lontananza dal modello tradizionale di donna silenziosa, umile e sottomessa (garanzia, tra l’altro, di integrità morale, viatico indispensabile per il matrimonio). Così molti testi, e tra questi anche grammatiche, vengono scritti e dedicati alle donne e ai “fanciulli”, un accostamento che evidentemente richiama a un uso semplice della lingua e a una limitatezza di contenuti[15]. Del resto il ruolo dell’insegnante è stato sempre ritenuto connaturato alla sua natura di trasmettitrice della lingua materna: un ruolo al quale rimarranno sostanzialmente legati gli sviluppi successivi di questa figura, da quello svolto tra le mura di casa alla magistra del Seicento, che dava i primi rudimenti educativi sotto l’ala della Chiesa, alla maestra del novello Regno d’Italia, ambasciatrice della nuova lingua nazionale nelle aree profondamente dialettofone nei primi del Novecento[16].
5. Sarà necessario aspettare l’Ottocento per assistere a un cambiamento che porterà in pochi anni all’apparizione collettiva delle donne sulla scena pubblica della politica, della scienza, della letteratura, delle arti[17]. Le discussioni sullo statuto giuridico delle donne, sul loro ruolo pubblico e sul loro essere sociale – innescate fin dalla fine del Settecento in Europa e in America sull’onda delle rivoluzioni politiche dai lavori di Olympe de Gouges Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (de Gouges 1791) e di Mary Wollstonecraft A vindication of the Rights of Woman (Wollstonecraft 1792) – sollecitavano anche in Italia un sostanzioso mutamento di status anche culturale perché l’azione delle donne potesse dare frutti concreti nel campo della formazione, della politica, dell’economia, delle scienze “dure”, della scrittura, dell’arte, dello sport[18]. Le singole individualità che si erano distinte in epoca risorgimentale avevano aperto alle donne nuove vie verso l’acquisizione di un ruolo politico e sociale e verso la possibilità di occupare posizioni ed esercitare professioni fino ad allora riservate agli uomini (Soldani 2007). Negli anni dell’Unità le protagoniste della vita culturale, nate intorno agli anni del Congresso di Vienna negli stati preunitari, dal Regno delle Due Sicilie al Granducato di Toscana, sono donne d’alto rango, istruite grazie alle biblioteche di famiglia, in quotidiano contatto con personaggi di rilievo della cultura, della politica e dell’arte, come Clara Maffei (1814-1886) a Milano, Olimpia Rossi Savio (1815-1889) a Torino, Laura Mancini Oliva (1821- 1869) e Emilia Toscanelli Peruzzi (1827-1900). Molte partecipano con i loro scritti – non solo educativi e pedagogici, ma anche filosofici, politici, ecc. – alla vita sociale e politica del paese. I loro lavori rivelano la maestria con cui le figure femminili più significative per la cultura e per la nuova società ancora in costruzione usano la lingua che dopo l’Unità potrà a buon diritto chiamarsi “italiana” ma che già nel 1848 era stata riconosciuta “lingua officiale delle Camere” dallo Statuto Albertino[19]. Per la prima volta una donna, Caterina Franceschi Ferrucci (1803-1887), viene ammessa come accademica dell’Accademia della Crusca nel 1871, e a lei seguirà nel 1893 quella di Ersilia Caetani Lovatelli (1840-1925).
Ma c’è un pesante rovescio della medaglia. Nel 1861 l’84% delle donne è ancora analfabeta (contro il 72% degli uomini). Solo con la legge Casati (1859)[20], promulgata dal Regno di Sardegna e poi estesa al Regno d’Italia, e con la legge Coppino (1877), si riconobbe il diritto all’istruzione che comprendeva anche le donne, ma è un diritto che a lungo rimarrà sulla carta: l’istruzione era obbligatoria fino alla seconda elementare (poi alla quinta), ma le pene per chi trasgrediva non erano specificate; le miserevoli condizioni di vita delle classi sociali considerate inferiori rendevano impensabile rinunciare a forza lavoro; l’istruzione per le bambine era considerata un lusso inarrivabile, e sostanzialmente inutile. Essere una donna colta rimane un’eccezione, e neanche tanto ben accolta in un mondo dominato dal potere maschile che continuava a considerare il silenzio una delle più preziose qualità femminili e a stigmatizzare l’abilità di parlare e discutere delle donne: di valutazioni pesantemente negative delle donne faconde e loquaci è punteggiata tutta la letteratura italiana, e il passare dei secoli ha addolcito, ma non pienamente cancellato, la considerazione in cui sono tenute. Se alla fine del Cinquecento, nell’opera I donneschi diffetti di Giuseppe Passi (1599) a proposito delle “Delle donne linguacciute, ciarliere, simulatrici, mordaci, e bugiarde”, si leggeva
E Demostene a questo proposito disse: ornamentum mulieri breviloquentia; e quell’altro, ‘tacita sempre stà la buona donna’: però che è verissimo quel detto del gran Theologo, lingua non gubernata ratione subvertit homines; il che principalmente conviensi alla donna, come animale di pochissima prudenza. Tacciano dunque le donne, e massimamente dove sono gli uomini, percioche delle donne, che parlano molto, non si può far buon giudizio.
tre secoli dopo, alla fine dell’Ottocento, la donna loquace, ancor più se colta e sicura di sé, non è pienamente accettata ma viene guardata con benevola sufficienza e messa in ridicolo (un atteggiamento che oggi verrebbe interpretato come “sessismo benevolo”), come ci attesta il Vocabolario della lingua parlata di Giuseppe Rigutini (1875) alla voce Cicerona: “Si dice nell’uso familiare a Donna che parla molto e con facondia, e sentenziosamente”[21].
Si collocano fra le grandi figure femminili acculturate e quelle che avevano appena conquistato il diritto all’istruzione le donne della nuova classe piccolo e medio borghese, alfabetizzate, avide lettrici di giornali, romanzi, racconti, galatei, stampa cattolica[22], e di tutta quella pubblicistica destinata alle donne che caratterizza il periodo fra Otto e Novecento. Molte, a loro volta, sono piccole scrittrici di diari privati, composizioni a uso casalingo, novelle per i giornali: e alcune di loro nel secondo Ottocento raggiungeranno la fama letteraria, come Matilde Serao (1856-1927) e Grazie Deledda (1871-1936), la prima donna a vincere il Premio Nobel.
6. Alcune voci femminili si levano a denunciare apertamente lo stato di drammatica disparità socioculturale esistente tra donne e uomini[23]. Tra le più significative Cristina Trivulzio principessa di Belgiojoso (1808-1871) e Anna Maria Mozzoni (1837-1920). La prima nel suo saggio Della presente condizione delle donne e del loro avvenire (1866) denuncia la condizione di inferiorità culturale rispetto all’uomo a cui è stata costretta la donna e il suo stato di impotenza
Che la donna non sia nè moralmente nè intellettualmente inferiore all’uomo, se non per l’azione esercitata dal fisico sul morale e sull’intelletto, o ancora per gli effetti della educazione, è cosa omai generalmente riconosciuta ed ammessa. Ma alcuni si meravigliano però che, a malgrado di tale uguaglianza tra la parte spirituale della donna e quella dell’uomo, la donna sia sempre rimasta e rimanga tuttora in una condizione sociale così inferiore a quella dell’uomo[24].
e svela l’inganno perpetrato dagli uomini nei confronti delle donne con l’aver fatto loro credere che per essere amate dovevano possedere qualità intellettuali inferiori a quelle maschili:
Ma dalla donna si richiede espressamente la più perfetta ignoranza: e chi non conosce i ridicoli soprannomi apposti alle donne colte, il deplorabile effetto di un bel dito macchiato d’inchiostro ec. ec.? Gli uomini persuasero le donne che la loro ammirazione, il loro affetto era a prezzo della loro inferiorità intellettuale, e le donne hanno così creduto, e ve n’hanno di colte che nascondono la loro coltura pel timore di essere annoverate fra le donne superiori, le pedanti, ed altre simili abbominazioni. Il maggior danno che risultò da tanto inganno, si è, a parer mio, il carattere fittizio, di cui le donne si sono rivestite per piacere agli uomini. Il naturale delle donne è intieramente frainteso e falsificato[25].
La mancanza di istruzione è responsabile dell’impossibilità per le donne di intervenire nella vita civile:
La società si è formata sulla base della supposta inferiorità delle donne. Allontanate, per volontà dell’uomo, da ogni studio che non si riferisca esclusivamente e direttamente alla immaginazione, come le arti dette belle, cioè la musica, la pittura, il ricamo, gli adornamenti della persona ec. ec., e da ogni partecipazione agli affari della società, le donne rimasero confinate fra le mura delle loro case, ove il maggior numero di esse seppe trovare un pascolo alla propria operosità, rendendo gradito al padrone della casa l’abitarla, e sgravandolo intieramente di quelle cure ch’egli giudicò meschine, noiose ed inferiori di troppo alla sua grandezza[26].
La seconda, Anna Maria Mozzoni (1837-1920), pioniera dell’emancipazione femminile, dichiara nel saggio del 1864 La donna e i suoi rapporti sociali che il diritto allo studio per le donne, un obiettivo irrinunciabile, è disatteso, e che il potere maschile riduce le donne al silenzio e all’ignoranza:
La donna, per vieto costume esclusa dai consigli delle nazioni, ha sempre subíto la legge senza concorrere a farla, ha sempre colla sua proprietà e col suo lavoro contribuito alla pubblica bisogna, e sempre senza compenso. Per lei le imposte, ma non per lei l’istruzione; per lei i sacrificii, ma non per lei gl’ impieghi; per lei la severa virtù, ma non per lei gli onori; per lei la concorrenza alle spese nella famiglia, ma non per lei neppur il possesso di sè medesima. (…). Negare alla donna una completa riforma nella sua educazione, negarle più ampi confini alla istruzione, negarle un lavoro, negarle una esistenza nella città, una vita nella nazione, una importanza nella opinione non è ormai più cosa possibile; e gli interessi ostili al suo risorgimento potranno bensì ritardarlo con una lotta ingenerosa, ma non mai impedirlo[27].
L’esclusione della donna dall’istruzione a opera dell’uomo ha avuto il risultato di escluderla dal potere:
Esclusa dal sapere, la donna, rimaneva esclusa eziandio dal potere; ed eccola ridotta a passività assoluta, cosa e non essere, di maggiore o minor valore relativo, di nessun valore intrinseco, orba d'ogni coscienza di sé, ch'è la prima ragione d'ogni forza[28].
Nel 1874 si apre l’accesso delle donne a ginnasi e licei e da lì all’Università, ma rimane loro precluso l’esercizio pubblico delle professioni e degli studi universitari: alla prima donna laureata in diritto d’Italia, Lidia Poet, nel 1883 il tribunale di Torino revocò l’iscrizione all’albo degli avvocati, impedendole così l’esercizio della professione. Le donne saranno ammesse ai pubblici impieghi (escluso quelli che implicano poteri giurisdizionali, politici e di difesa) solo con la Legge 17 luglio 1919, n. 1176 Norme circa la capacità giuridica delle donne in base alla quale la donna era abilitata “a pari titolo degli uomini" all'esercizio di tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, restando comunque esclusi gli impieghi giurisdizionali o l'esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato”. Solo dopo il 1963 cadrà la limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera con la Legge del 9 febbraio 1963 n. 66 Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni.
7. Ormai la via all’istruzione era aperta. Nell’ultimo quarto dell’Ottocento 256 dottoresse – in lettere, filosofia, medicina, matematica, fisica, chimica – fecero seguito alla prima laureata in Italia, Ernestina Paper, che dopo aver studiato a Zurigo e a Pisa nel 1877 aveva conseguito la laurea in medicina presso l’allora Istituto di Studi Superiori di Firenze. Nei primi anni del Novecento arriveranno le architette e le ingegnere.
L’ingresso delle donne nella vita sociale e professionale rendeva necessario un aggiornamento della lingua, o più precisamente del suo uso. Il lessico dell’italiano, che fino ad allora comprendeva solo termini femminili di mestiere, attestati anche nelle diverse edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca e alcuni ancora esistenti (fornaia, bottegaia, portinaia), doveva rinnovarsi (Maraschio 2011). Mancavano molti termini femminili per designare le donne che finalmente ricoprivano professioni o ruoli prestigiosi fino ad allora destinati agli uomini. La lingua italiana era preparata ad accoglierli: meno preparate si dimostreranno invece le persone che avrebbero dovuto usarli.
Le grammatiche italiane di questo periodo[29] dedicano ampio spazio alla descrizione del genere grammaticale e alla “formazione” del femminile, a partire da nomi maschili che già esistevano. Moise (1867) nella sua Grammatica della lingua italiana scrive
Noi ne allegheremo qui alcune paja di esempli antichi e moderni, per dimostrare ai gioveni che tali uscite sono genuine e legitime, e non stiracchiate e dedutte da lingue straniere, come tutto il giorno van loro predicando i pretesi riformatori della lingua[30].
Fornaciari nella Grammatica (1879) descrive in dettaglio le “terminazioni” dei “nomi di condizione e di professione che si attribuiscono alle persone”[31]. Nella Sintassi (1881) riprende la questione nel paragrafo § 9 Nomi femminili di professione, soffermandosi sui sostantivi in -essa[32]:
la terminazione -essa è preferita a tutte le altre nell’uso comune quando si debba estendere a donna o una professione o una dignità propria principalmente o soltanto de’ maschi. Quindi da professore si farebbe professoressa[33].
I nomi in -essa nella seconda metà dell’Ottocento avrebbero quindi una connotazione positiva, tanto da rappresentare “sostantivi che indicano qualità e dignità”, come noteranno all’inizio del secolo successivo anche Concari e Marchesi[34]. Sembra possibile quindi formare o rimettere in uso termini in -essa che riconoscono il diritto delle donne di esercitare una determinata professione, la posizione che occupano nel loro campo professionale, il “potere” che ne deriva. Ma vedremo che questo rappresenta in realtà un riconoscimento inaccettabile dall’universo maschile, che mette in atto un metodico smantellamento del nuovo lessico femminile, particolarmente facile per le forme in -essa, sulle quali pesava anche una vecchia connotazione “spregiativa, ridicolizzante” (Sabatini 1987, p. 30). Si coniano così nuovi termini femminili in -essa quando sarebbero stati disponibili termini a suffisso zero (es. snobbesse anziché snob) o quando la morfologia avrebbe richiesto un altro suffisso (ambasciatoresse e senatoresse anziché ambasciatrici e senatrici) e li si inseriscono in un contesto denigratorio o farsesco per mettere in ridicolo le donne che occupano (o potrebbero occupare) posti di rilievo:
La legge salica che è sempre esistita nella Penisola si va a poco a poco scalzando, e se le donne cominciano ad intromettersi nelle cose di governo, fra breve entreranno a governare, ed avremo le deputatesse, le ministresse, le governatrici, e simili. Sarà questo un bene, od un male?[35]
Quanto a me, toccherò il cielo col dito, aggiunse spingendo più alto la celia, quando vedrò Silvia o Severina laureate avvocatesse, elettrici politiche, ambasciatoresse, deputatesse, senatoresse, generalesse...[36]
In uno scritto di Giacomo Alberione (1915), fondatore delle Edizioni Paoline, compare un significativo elenco di termini in -essa per indicare ruoli che toglierebbero la donna da quello che le è naturale, “moglie” e “madre”:
Il programma del femminismo buono, benedetto ed esposto da Sua Santità Pio X il 21 aprile 1909, ha due parti: una negativa e l’altra positiva, quanto alla parte negativa questo femminismo si oppone:
1. A togliere sistematicamente e per principio la donna dall’ambiente famigliare per gettarla in tutti gli uffici di avvocatesse, medichesse, deputatesse, poliziotte, soldatesse, ecc. ecc.: la donna è essenzialmente madre e tale deve restare[37].
Come noterà Migliorini (1960) a metà Novecento[38]
la connotazione per lo più spregiativa dei nomi in -essa appare da molte nuove coniazioni: queste deputatesse pettorute (Giobbe di Marco Balossardi [Olindo Guerrini e Corrado Ricci] p.60); le nostre snobbesse anglomani (diario Guiccioli, 19 dicembre 1886, in Nuova Antologia, 1° dicembre 1937, p. 325); alla letteratessa venne in mente di fare, Panzini, Le fiabe della virtù, ecc.[39]
Si rafforza quindi la “condanna” dei termini in -essa che qualche decennio dopo, quando la condizione socioculturale delle donne avrà davvero fatto molti passi in avanti, si cercherà addirittura di bandire: le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini[40] suggeriranno infatti di evitarli. Una posizione, questa, ritenuta oggi troppo intransigente in considerazione della presenza nella lingua italiana di termini in -essa ormai stabilmente entrati nel lessico, come dottoressa e professoressa [41]. Ma la discussione sull’origine, lo sviluppo e la connotazione dei nomi in -essa, a partire da Cortelazzo 1995 e ripresa recentemente da Anna-Maria De Cesare – cui rimando per un quadro riassuntivo della questione e per la relativa bibliografia (De Cesare 2021) è ancora aperta.
8. La storia del rapporto fra donne e istruzione si lega quindi a quello fra donne e linguaggio, perché la privazione sia della cultura sia del pieno possesso degli strumenti linguistici alla quale sono state sottoposte ha contribuito a discriminarle sul piano culturale e sociale. Ma non basta: quando nella seconda metà dell’Ottocento le donne ottengono finalmente il diritto all’istruzione e si impadroniscono della lingua, quando diventano cittadine capaci di scelte autonome e responsabili e soggetti attivi del mondo professionale e istituzionale (Franco 2010), ecco che si assiste al tentativo di negare la partecipazione delle donne alla vita sociale e politica anche attraverso il rifiuto dei termini per definirle: le parole per descrivere la loro emancipazione e il loro nuovo status vengono dapprima ridicolizzate, poi ignorate. I termini che indicano ruoli di prestigio rimangono a lungo al maschile. Così le donne non si nominano e quindi non esistono. Nonostante gli innegabili riflessi che la cultura di genere ha avuto sull’uso della lingua, ancora oggi il linguaggio quotidiano, i media e le istituzioni oscillano sull’uso di termini femminili come ministra, chirurga, ingegnera, perfino trascurando le regole che guidano l’assegnazione e l’accordo di genere (Thornton 2006)[42]. Se da un lato si afferma sia che indispensabile riconoscere e denunciare le pratiche linguistiche discriminanti, dall’altro si disattende ogni disposizione in tal senso[43]. E si assiste da qualche tempo anche al fiorire di proposte linguistiche che porterebbero alla sostituzione delle desinenze grammaticali di nomi, aggettivi, ecc. con un simbolo, in nome della diffusa – e malintesa - convinzione che gli esseri umani possano usare la lingua in piena libertà, e che in nome della “creatività” ogni proposta riceva la sua giustificazione. Ma l’adozione di pratiche linguistiche che non permettono più alle donne di essere individuate attraverso il genere grammaticale rappresenta solo un ennesimo tentativo di ridurre le donne al silenzio “nascondendole” dalla comunicazione: una proposta inaccettabile sia sul piano linguistico sia sociale[44].
Nota bibliografica:
Note:
Questo articolo riprende il tema di una mia relazione tenuta al Congresso internazionale Voci di donne. Potere e genere: religioni, linguaggi, culture, 11-12 dicembre 2018, SDS Università di Catania, Ragusa Ibla.
* Il titolo è tratto dall’opera I donneschi diffetti nuovamente formati, e posti in luce, da Giuseppe Passi, appresso Iacobo Antonio Somaschio, in Venetia, 1599.
[1] Lakoff 1973.
[2] Si veda la definizione di "sex/gender system" come "the set of arrangements by which a society transforms biological sexuality into products of human activity, and in which these transformed sexual needs are satisfied".
[3] Il riferimento è soprattutto a Judith Butler, a partire Butler 1999. Sul recente utilizzo dell’espressione “teoria del gender” rimando a Garbagnoli 2014.
[4] Il termine mansplaining fu usato per la prima volta nel 2008 in una discussione sulla pubblicazione sul Los Angeles Times di un articolo della scrittrice e giornalista Rebecca Solnit intitolato Men who explain things, poi autrice di Men Explain Things to Me, Chicago, Haymarket, 2014 (https://www.ilpost.it/2016/11/21/mansplaining/).
[5] Si tratta, aldilà dell’interpretazione letterale, di una nozione complessa, discussa soprattutto nell’ambito della filosofia del linguaggio e della teoria degli atti linguistici di Austin 1987.
[6] Il mansplaining che abbiamo ricordato sopra ne rappresenta una sorta di (edulcorata) versione moderna. Per un contributo recente sul rapporto tra silenzio delle donne e potere a partire dall’epoca classica si veda Beard 2017.
[7] Sul rapporto fra donne, alfabetizzazione e cultura scritta nel Medioevo rimando a Miglio (2008) e a Fresu (2019), con ampia bibliografia.
[8] Sanson 2007, p. 7.
[9] Lazzarini 2021, pp. 222-223.
[10] Librandi 1993, pp.371.
[11] Sanson 2007, p.25.
[12] Per un inquadramento recente dalle discussioni sulla “questione della lingua” da Dante a oggi e il ruolo centrale che hanno avuto sulla tradizione culturale italiana si veda Marazzini 2018.
[13] Sanson 2007, p. 25.
[14] Marazzini 2015, p. 261.
[15] Tra queste la grammatica Fondamenti Del Parlar Thoscano. Di Rinaldo Corso. Non prima veduti corretti ed accresciuti. In Venetia, s. dati tipografici, 1550, dedicata all’amata Hiparcha, pseudonimo di Lucrezia Lombardi.
[16] Si osservi tuttavia, come ha notato Fresu (2006, 2019), che per lungo tempo gli studi linguistici sulla produzione scritta in volgare da parte delle donne hanno esaminato soprattutto testi autografi diastraticamente bassi, interpretando i tratti linguistici riscontrabili in tali testi come caratteristiche specifiche della scrittura femminile. In realtà essi sono condivisi anche dalle corrispondenti scritture maschile, e riconducibili all’italiano dei semicolti (D’Achille 2003). La polarizzazione che ne deriva tra questi scritti e quelli delle donne “acculturate”, come Isabella Morra, Vittoria Colonna, Caterina Benincasa, è stato attribuito un profilo linguistico immeritatamente alto, avrebbe contribuito a nascondere le varietà intermedie di lingua scritta (e parlata) dalle donne, tra le quali si possono invece riconoscere per esempio le cronache monastiche, a partire dal tardo Cinquecento e .
[17] Robustelli 2011.
[18] Rimando qui ai numerosi studi sul ruolo delle donne come soggetti attivi del processo di costruzione dell’Italia unita, e in particolare alle pubblicazioni della Società italiana delle storiche, fra le quali si segnala, per la ricca rassegna di figure femminili significative, Di generazione in generazione. Le italiane dall’Unità a oggi, a cura di Maria Teresa Mori, Alessandra Pescarolo, Anna Scattigno, Simonetta Soldani, Roma, Viella, 2014.
[19] Sul ruolo delle donne per la costruzione della lingua nazionale si veda Robustelli 2011.
[20] Con legge Casati si intende il Regio decreto legislativo 13 novembre 1859 del Regno di Sardegna, poi esteso al Regno d’Italia.
[21] È superfluo ricordare che la condizione di inferiorità della donna rispetto all'uomo non era confinata all’istruzione – l’accesso a quella superiore rimaneva limitato – ma tutto il Codice Civile del Regno d’Italia (1865) ne offre numerosi esempi nel sistema giuridico, a partire dall’autorizzazione maritale.
[22] Fresu-Sotgiu 2021.
[23] La questione dell’emancipazione femminile lascia tracce, oltre che nella letteratura (l’analisi della questione femminile compare anche in romanzi e novelle di larga diffusione) anche nella saggistica e nella lingua. Per le nuove parole per indicare i nuovi ruoli delle donne rimando a Robustelli 2011, pp. 59-63.
[24] Trivulzio di Belgiojoso 1866, p. 96.
[25] Ib., p. 98.
[26] Ib., pp. 99-100.
[27] Mozzoni 1864, p. III e p. VII.
[28] Ib., p. 31.
[29] Sulle grammatiche ottocentesche e più in generale sui modelli grammaticali dell’epoca si veda Catricalà 1995.
[30] Moise 1867, p.5.
[31] Fornaciari 1879, p. 99.
[32] La discussione sull’origine, lo sviluppo e la connotazione dei nomi in -essa, a partire da Cortelazzo 1995, è ancora aperta. Non potendo soffermarmi sulla questione in questa sede, rimando al recente lavoro di Anna-Maria De Cesare, anche per un quadro riassuntivo della questione e per la relativa bibliografia (De Cesare 2021).
[33] Id. 1881, pp. 18-19.
[34] Concari e Marchesi, 1909, § 51, p. 3.
[35] Margotti 1864, p. 104.
[36] Civiltà Cattolica 1884, p. 204.
[37] Alberione 1915, p. 45.
[38] V. già Robustelli 2016, pp. 92-98.
[39] Migliorini 1960, p. 713.
[40] Sabatini 1987, p. 30.
[41] Sull’uso del suffisso -essa nei termini dottoressa, professoressa, studentessa v. Lepschy, Lepschy, Sanson 2001. Per il termine professoressa si veda la nuova retrodatazione al 1830 in AchiDATA, Archivio datazioni lessicali dell’Accademia della Crusca.
[42] Per una recente storia della questione si veda Robustelli 2016.
[43] Si veda ad esempio la mancata applicazione, nella comunicazione istituzionale, delle strategie linguistiche non discriminanti più volte raccomandate dalle stesse istituzioni (v. le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del Miur, 2018).
[44] Per un recente commento su questa proposta si veda Robustelli 2021. Per gli interventi sul tema del genere grammaticale pubblicati negli anni sul sito dell’Accademia della Crusca.
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