Il brano che pubblichiamo è tratto dal libro di Antonio Patuelli, Banche, cittadini e imprese (Rubbettino). L'autore, riflettendo sul problema della scarsa comprensibilità dei tecnicismi e degli anglicismi che abbondano nella lingua della finanza e del diritto, arricchisce di ulteriori spunti il tema dell'impatto culturale e civico dell' "analfabetismo" finanziario e giuridico, già proposto in un suo articolo pubblicato sul sito dell'Accademia, Investire in parole chiare.
Antonio Patuelli è presidente dell'ABI (Associazione Bancaria Italiana) e giornalista.
Osservo il progressivo acuirsi di un fenomeno in cui l’Italia mostra una triste, quanto sottovalutata, propensione: l’analfabetismo finanziario.
Si tratta di una tendenza, peraltro “attestata” da osservatori e studi accreditati, che subisco con sofferenza, credendo fortemente nel ruolo della educazione finanziaria come elemento di educazione civica.
Quella finanziaria, del resto, non è l’unica forma di educazione carente: infatti nessuno, o quasi, insegna più l’educazione civile e civica in Italia e in questo quadro di superficialità e trascuratezza si inquadra anche il mancato insegnamento, innanzitutto scolastico, dell’educazione finanziaria e al risparmio.
Un tempo l’educazione civica veniva insegnata fin dagli ultimi anni delle elementari agli italiani, che erano i soli che abitavano in Italia: oggi viene insegnata ancor di meno agli italiani e quasi nulla o nulla a coloro che cercano, tra gli immigrati, di diventare italiani.
Va sviluppata ogni possibile iniziativa per consolidare sensibilità all’educazione finanziaria e al risparmio; credo, infatti, si tratti di un fattore “fondante” di cultura civile, strumento essenziale di consapevolezza civica, antidoto alla demagogia, elemento determinante per favorire il benessere delle famiglie e dei consumatori, per promuovere la crescita economica e sociale dei cittadini italiani e di coloro che intendono diventarvi.
In tal senso, un ruolo fondamentale è quello dei mezzi di comunicazione, primo fra tutti quello televisivo e forti devono essere gli impegni profusi dal servizio pubblico.
Ma un compito di indirizzo, di guida deve essere svolto anche dalla comunità economica tutta, nella consapevolezza che solo attraverso la conoscenza e un più diffuso senso di responsabilità, si possa realizzare quella tutela del risparmio e dei consumatori, che è alla base di una ampia, duratura crescita del Paese.
Tutto ciò significa fare propri, promuovere e sostenere, iniziative, strumenti di comunicazione e linguaggi del tutto antitetici a talune volgarità che caratterizzano, talvolta, discussioni non certo educative in materia economica; tutto ciò favorirebbe, inoltre, quella collaborazione già in atto fra il mondo bancario e le Associazioni dei Consumatori che da diversi anni sono impegnati, in misura crescente, in iniziative di informazione e di formazione in materia finanziaria e in programmi destinati alle diverse fasce di età della popolazione, nonché al sostegno di insegnanti e scuole.
Questa crescita culturale, di sensibilità, deve passare anche attraverso il linguaggio.
In ambito economico e finanziario, in questi anni, la confusione concettuale è cresciuta fortemente portando danni molteplici: il linguaggio economico è sovente un linguaggio criptico, poco trasparente; il linguaggio economico giuridico, facendo acriticamente propri istituti nati e sviluppati in contesti diversi dal nostro, rischia di generare incomprensioni, conflitti interpretativi.
Quando un documento in lingua italiana è costantemente intervallato da parole anglo americane, credo si vada incontro ad almeno due ordini di problemi: un problema di comprensibilità del senso del messaggio da parte dei destinatari e un problema di diritto e di responsabilità.
Diritto e responsabilità perché quando in un testo italiano vi è un concetto giuridico anglo americano non tradotto e non viene tipicizzata la fattispecie giuridica italiana, viene simulato un concetto che il più delle volte non è identico. Pertanto, un concetto giuridico mutuato da sistemi di “common law”, come sono quelli della cultura e della tradizione anglo americana, ha poco a che fare con la tradizione romanistica esistente in Italia, modernizzata da Zanardelli in poi.
Il problema è molto simile a quello del Trattato di Uccialli dal quale poi discesero le sfortune dell'Italia di fine Ottocento in Africa Orientale, ovvero di testi che dovevano essere identici nelle diverse lingue, ma avevano delle difformità dalle quali scaturirono conflitti. Il diritto italiano è linguisticamente autosufficiente, non è di derivazione estera, ha una sua elaborazione autosufficiente anche quando l'Italia recepisce normative europee: ciò avviene con apposita legge ordinaria. Di conseguenza occorre capirsi meglio nell'Italia dei contratti, nei rapporti fra banche, imprese e cittadini, con il massimo di quella trasparenza che la Banca d'Italia sollecita.
Ma vi è, poi, il parallelo, fortemente interconnesso ed altrettanto importante, problema di comprensibilità del messaggio e dei concetti che intendiamo trasferire (o non trasferire) al nostro interlocutore.
Sovente, l’uso – abuso di anglicismi, di tecnicismi ingiustificati dal buon senso, sembra rispondere alla assurda convinzione che la “modernità”, la globalizzazione dell’economia, degli scambi e dei rapporti giuridici che li sostengono, richiedano di mutuare concetti e linguaggi lontani da noi: in questo senso l’uso di anglicismi, di formule, acronimi incomprensibili, divengono, quindi, il segno di una più o meno voluta ostentazione di un linguaggio che si vuole far intendere come avanzato, moderno, in opposizione ad un linguaggio semplice e vecchio. Questo linguaggio diviene, quindi, non solo strumento di demarcazione tra generazioni ma, più o meno consapevolmente, diviene segno di distinzione tra individui.
Questo atteggiamento è, in Italia, molto comune a quasi tutti i settori della produzione o diffusione di idee: nel diritto e nella economia abbiamo “esportato” modelli concettuali, ma non la lingua; lo stesso accade nel mondo della creatività in cui pur essendo riferimento per idee, innovatività, maestria “utilizziamo linguaggi altrui”.
In questo solco non è stata certamente di aiuto anche la stampa che, primo mezzo di comunicazione di massa, è fautrice o quanto meno “dispensatrice” di molta terminologia spesso confusa.
Dal punto di vista degli effetti sulla efficacia della comunicazione, quindi, ci si trova di fronte a manifestazioni fortemente diversificate: si va dalla necessità, reale di utilizzare termini tecnici e come tali insostituibili ai casi, molto più numerosi, in cui l’utilizzo di parole straniere è velleitario oltre che potenziale strumento di opacità del messaggio sottostante.
Va da sé che nessuno sta proponendo scenari da “purismo linguistico”.
Non si tratta, oggi, di difendere il latino dal volgare; non si tratta, quindi, di proporre una forzosa quanto innaturale sostituzione dei termini inglesi o stranieri in nome della purezza della nostra lingua (che pura fra l’altro non è mai stata).
Le lingue nascono e si evolvono sulla base di continue contaminazioni sia interne a sé stesse che esterne. E questo è fenomeno non solo inarrestabile, ma largamente positivo, così come positivo è tutto ciò che genera un accrescimento delle conoscenze.
Quando, nell’Italia nascente, si trattava di rendere la lingua degli scrittori la lingua degli italiani, vi furono, come noto, idee diverse: Manzoni, nella sua relazione al ministro Broglio sulla unità della lingua e dei mezzi per diffonderla, avrebbe detto che occorreva diffonderla dall’alto verso il basso con mezzi anche coattivi, mentre altri, notando che la scarsa diffusione della lingua era dovuta alla scarsa diffusione della cultura, pensavano che quest’ultima avrebbe determinato pian piano il diffondersi della lingua.
Fatto sta che, in qualche modo, ebbero ragione entrambi gli schieramenti; la via da seguire non può che essere esattamente la stessa: impegno dall’alto verso il basso e cultura diffusa.
Impegno, imponendosi ciascuno di noi, nella declinazione quotidiana della propria funzione e professione, di essere promotore e protagonista di una campagna a difesa della vitalità della nostra lingua, valorizzando la semplificazione e la chiarezza del linguaggio.
Cultura, perché se è vero, quindi, che tra questa ed il linguaggio sussiste un collegamento biunivoco, il nostro intervento non potrà che essere rivolto prioritariamente allo sviluppo ed all’accrescimento del nostro patrimonio culturale, avviando il circolo virtuoso.
Questo non significa chiudersi, anzi, alle altre lingue che vanno ben studiate ma significa non imbastardirle, confonderle, depredarle.
Questo significa, innanzitutto, alimentare fra gli italiani la coscienza della lingua come veicolo di promozione e affermazione dello stile, della creatività italiana e della piena trasparenza nell’economia, negli affari e nei contratti; significa far crescere il numero delle persone interessate a studiare l’italiano non in quanto lingua “che serve”, ma come strumento per entrare nella cultura che l’Italia ha prodotto e deve continuare a produrre.
Christian Ferrari
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