Giovanni Nencioni

di Salvatore Settis

Il contributo fa parte degli atti del convegno Giovanni Nencioni a dieci anni dalla scomparsa, svoltosi in Accademia l’11 settembre 2018 per ricordare il grande linguista e Presidente dell’Accademia della Crusca dal 1972 al 2000. 

Vorrei ringraziare prima di tutto l’Accademia della Crusca e il presidente Marazzini per avermi invitato in questa circostanza. È un invito che mi onora, mi commuove, mi fa piacere perché mi offre l’occasione di dire qualcosa a proposito di una persona che ho molto ammirato, ma con cui non ho mai avuto una vera confidenza, a causa soprattutto della differenza di età e di disciplina. Devo inoltre scusarmi perché le mie conoscenze specifiche non mi consentono di entrare nel merito del Nencioni studioso, è la distanza disciplinare che non me lo consente. Proverò dunque a dare soltanto, nelle mie parole, un tributo di stima, di affetto e anche di rimpianto per un rapporto, il nostro, che, come ora dirò, è sempre stato rispettoso, sempre discreto, sempre distante, senza dissidi, anche se non senza ragioni di dissidio: cosa, quest’ultima, che proverò a dire attraverso un episodio.

Con Giovanni Nencioni siamo stati colleghi in Normale per qualche anno dal 1977, quando io cominciai a insegnarvi come professore incaricato (avevo la cattedra alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa). Nencioni era già stato chiamato in Normale qualche anno prima, nel 1974, e vi fu ordinario fino all’81, quando andò fuori ruolo, andando poi in pensione nel 1986 (e fino al 1982, cioè anche quando era già fuori ruolo, fu preside della Classe di Lettere come adesso dirò meglio). Per dire cos’era la Normale di allora vorrei ricordare soltanto che negli Annali della Scuola Normale si dava allora notizia di cose come queste, e infatti c’è un trafiletto che dà notizia di quando il professor Giovanni Nencioni viene “collocato a riposo”, questa la terminologia allora usata; e con lui vengono “collocati a riposo”, e vengono elencati in quella stessa pagina, altri due professori della Normale: Gianfranco Contini e Giovanni Pugliese Carratelli. Sono tre persone che con altri (fra cui Eugenio Garin) furono chiamati tutti insieme da Gilberto Bernardini, il grande fisico che era allora Direttore della Normale, quando volle con una serie di chiamate di questo livello trasformare profondamente la Scuola Normale inserendovi persone la cui qualità e la cui fama non ho bisogno di sottolineare. 

Di Nencioni ho avuto occasione di dire qualcosa quando nel primo anniversario della morte, nel maggio del 2009, celebrammo in Normale un convegno in suo ricordo, dove parlai anch’io in quanto allora Direttore della Normale. Parlando in quella veste, credo di aver fatto allora un discorso di natura istituzionale, mentre oggi vorrei usare un tono più personale e privato, anche se da un angolo visuale molto marginale come il mio. Nencioni ed io siamo stati colleghi, ho detto prima. Ma questa è una parola impropria, eravamo colleghi sì, formalmente, in posizioni però molto distinte, perché io sentivo Nencioni, come Contini, Garin o Pugliese Carratelli, persone che mi hanno anche onorato della loro amicizia e persino del “tu” accademico che si usava e si usa in Italia, come persone straordinariamente più importanti, più mature di me, e non certo solo per ragioni di età. Nencioni aveva trent’anni giusti più di me, ed era a tutti evidente l’autorevolezza del ruolo che copriva in Normale come persona, come studioso, come preside della Classe di Lettere e Filosofia. La Classe di Lettere e quella di Scienze della Normale non ebbero presidi per moltissimo tempo, in Normale tutto era concentrato nelle mani del Direttore e i docenti erano pochissimi, finché Bernardini direttore, con una riforma di statuto degli anni ‘80, istituì anche le presidenze. Credo che il primo preside della Classe di Lettere sia stato Giuseppe Nenci e il secondo Nencioni, qualche anno dopo lo sarei stato anch’io. Quando cominciai a insegnare in Normale come professore incaricato (nel 1977), l’idea era stata di Paolo Enrico Arias che era stato per anni professore ordinario all’università e incaricato in Normale, ma anche di Giovanni Pugliese Carratelli che ne fu Direttore; Nencioni era allora preside. Il primo episodio che voglio raccontare di lui e del suo rapporto con me (o piuttosto, vorrei dire con maggior rispetto, del mio con lui) è uno di quelli che a volte nel mondo accademico potrebbero segnare non dico odi perpetui ma come minimo qualche screzio: nel momento in cui mi veniva dato questo incarico di insegnamento, che fu il mio primo ritorno in Normale dopo gli anni da studente, Nencioni si astenne. Quando lo seppi la cosa mi dispiacque, non capivo perché lo avesse fatto, ma Pugliese Carratelli, mi disse bonariamente: “te lo spiegherà lui”. Nencioni non mi cercò, non mi telefonò, ma qualche giorno dopo, la prima volta che ci siamo incrociati in Normale, mi parlò di quanto accaduto con grande gentilezza, quel suo “garbo” o “grazia” di cui qualcuno oggi ha parlato. Potremmo anche chiamare questa virtù con una parola arcaica e desueta, ma che a lui ben si attaglia, “signorilità”. Mi spiegò non era contrario a darmi l’incarico ma si era astenuto per una questione di principio: poiché Arias, il professore col quale mi ero laureato, lasciava l’incarico per ragioni di età, il fatto che io gli succedessi non poteva e non doveva essere considerato “automatico”. Con la sua astensione, voleva dare il segno che almeno in Normale queste successioni non devono essere basate su una diadoché maestro-allievo, ma su considerazioni culturali di altra e di alta qualità. Lo ha detto con una tale grazia che questo non solo ha completamente cancellato il dispiacere che avevo avuto inizialmente, ma ha creato, per tutto il futuro nella Scuola che avremmo avuto negli anni successivi, un rapporto più amichevole e più vero. Quanto a Pugliese Carratelli, con la sua sapienza insieme culturale e accademica, mi disse allora che proprio per la stessa ragione a me doveva essere assegnato un insegnamento diverso da quello di Arias (“Antichità greche e romane”), e fu così che inventò, tagliandomela addosso come un sarto di grandissima qualità, la denominazione del mio insegnamento, “Storia dell’arte e dell’archeologia classica”, una formula che si attagliava molto bene ai miei studi, fra archeologia, storia dell’arte e storia della tradizione classica. E naturalmente Nencioni approvò questo titolo. Questo episodio non gettò mai nessuna ombra sul rapporto fra Nencioni e me: una di quelle cose, fatemelo dire come membro della confraternita dei laudatores temporis acti, che fanno rimpiangere un costume accademico “cavalleresco”, che certo esiste anche oggi, ma forse è un po’ più raro. Presto ebbimo poi l’occasione di ci conoscerci molto meglio, perché l’anno dopo fui eletto preside della Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, e allora i presidi di Lettere e Scienze facevano parte del Consiglio Direttivo della Normale, dove ci siamo incontrati spesso e siamo stati sempre d’accordo (direttore era intanto Edoardo Vesentini).

Se penso al mio rapporto con Nencioni, ben poco merita di essere raccontato, se non forse una serie di atti mancati e falsi movimenti, spesso per colpa mia. Occasioni di dialogo che non ho saputo cogliere abbastanza, come con pochi esempi ora mostrerò. A dire il vero, le ragioni di dialogo non sarebbero mancate: la sua competenza giuridica per me fu una sorpresa quando me la raccontò una volta in un viaggio in treno, parlando della sua laurea in legge con Calamandrei, e della sua esperienza ministeriale, della quale parlava molto volentieri. Di quell’esperienza, che è già stata ricordata varie volte, avrei voluto, potuto e forse dovuto avvalermi anni dopo. Per ricordarne qualche dato in più, Nencioni fu funzionario tecnico amministrativo del Ministero dell’Educazione Nazionale dal 1936, addetto alla direzione generale del personale universitario dal 1937, e fu poi nominato da Bottai, allora ministro, come ispettore centrale alla scuola media con l’incarico di allungare i tempi della scuola dell’obbligo da cinque a otto anni, progetto che Nencioni contribuì a scrivere. Non so se si è mai studiato questo progetto nei dettagli, ma l’anno in cui doveva partire era il 1944, un anno in cui l’Italia aveva ben altro da fare. Di questa sua collaborazione con Bottai Nencioni mi ha parlato più di una volta: ricordava il suo rapporto con Bottai con sentimenti misti ma con più piacere che dispiacere. Ricordava in particolare il famoso convegno dei soprintendenti convocato da Bottai nel 1938 alla vigilia delle leggi del 1939 per la tutela del patrimonio storico, artistico e archeologico e per la tutela del paesaggio, cioè il sistema di leggi di fatto confluite nell’attuale Codice dei beni culturali, che ancora regge quel poco che resta della tutela in questo strano Paese in cui viviamo. Durante la scrittura di quelle leggi, Bottai convocò a Roma un convegno di tutti i soprintendenti, cosa che nessuno dei ministri dell’Italia repubblicana e democratica si è mai sognato di fare prima di lanciare più o meno incaute riforme. Quando Nencioni me ne parlò, io non credevo mai che anni dopo mi sarei tanto interessato di storia della tutela dei beni culturali, di organizzazione delle soprintendenze e temi collegati. Ecco, dunque, un’occasione che ho perso, e che più tardi non ho provato a recuperare. Ricordo anche che una volta, credo a Borgo San Sepolcro, in una qualche occasione legata a Piero della Francesca, con Nencioni e Paola Barocchi c’era anche Argan, altro collaboratore di Bottai, e del convegno dei sovrintendenti abbiamo parlato brevemente insieme, ma all’uno e all’altro avrei potuto chiedere molto di più e mi dispiace oggi di non averlo fatto.

Altro tema, altro atto mancato da parte mia, altro dialogo mancato, anche se non del tutto: Nencioni, per la sua vicinanza, culturale ma anche di famiglia avendone sposato la sorella, con Paola Barocchi, si occupò molto di lessicografia in rapporto alla storia dell’arte, alla storiografia artistica (Vasari, Alberti, lo stesso Michelangelo…). Nel laboratorio fondato allora dalla Barocchi, che si chiamava CRIBECU (Centro di ricerche informatiche per i beni culturali), si tenevano periodiche riunioni alle quali ho spesso partecipato anch’io. In questo centro si realizzava una vasta memorizzazione di fonti storico-artistiche, e si inaugurò anche una collana di strumenti e testi in collaborazione con l’Accademia della Crusca, collana che qui tutti conoscete e che è stata oggi già richiamata. In queste riunioni del fertilissimo laboratorio messo insieme da Paola Barocchi, in cui Nencioni partecipava molto spesso, io andavo molte volte, eppure con loro non ho mai collaborato abbastanza. In particolare, un altro atto mancato da parte mia è stata la mia mancata risposta all’idea di avviare una linea ulteriore di ricerca che riguardasse i lessici tecnici nell’antichità classica, partendo da Vitruvio, per quello che si poteva anche da Plinio e allargandosi ad altre fonti o iscrizioni. La cultura classica di Nencioni era straordinaria, come tutti qui dentro sappiamo bene; io ero molto interessato al tema ma intanto inseguivo altri progetti e non ho saputo dar seguito a questo discorso. 

Il rapporto fra gli studi storici e il diritto fu sempre per Nencioni, da quello che ricordo, da quel poco che ne so, una preoccupazione costante, che rispecchia il suo percorso biografico. Quando, molti anni dopo, ho lavorato sui testi delle leggi italiane di tutela, e specialmente sull’articolo 9 della Costituzione, analizzando il linguaggio usato nelle undici versioni che ne furono discusse nell’Assemblea Costituente e le differenze fra l’una e l’altra versione, Nencioni mi è venuto in mente più di una volta. Mi veniva in mente la sua concezione della lingua, della mobilità della lingua di cui ci ha parlato Beccaria. Per Nencioni, direi, le parole o i termini (anche quelli giuridici) non erano da porre su un piedistallo, ma su una linea di confine. Dalle citazioni scelte da Sgroi molte cose le abbiamo intraviste, ma vorrei ora citare le parole di un giurista, Natalino Irti, quando ha commemorato Giovanni Nencioni sul Corriere: “Come nella lingua il singolo parlante attinge elementi dal vocabolario, custode di modi e forme dell’esprimersi e del dialogare e si fa obbediente alla costante oggettività dei significati, alle regole della grammatica, così nel diritto il singolo atto, negozio giuridico, testamento, sentenza, trae la propria validità dall’adeguarsi alla legge, dall’essere quale la legge vuole che sia. In ambedue i campi l’uomo deve negare se stesso per essere veramente se stesso, perdersi come individuo per riconoscersi nella socialità del dire e del fare; alla lingua come codice del parlare corrisponde il diritto come grammatica dell’agire”. Qui Irti parlava naturalmente di sé, il linguaggio è tutto suo, però è chiaro che provava a riflettere il pensiero di Giovanni Nencioni.

E infine: negli ultimi suoi anni ho avuto occasione da un lato di vedere l’incipiente declino di Nencioni (declino: parola ed esperienza che capisco sempre di più a ogni anno che passa). In questa fase l’ho visto più di una volta, nella casa di ponte Santa Trinita, quando andavo a trovare Paola Barocchi. Non riesco a ricordarmi se una scoperta che aveva molto rallegrato Paola Barocchi negli ultimi suoi anni è avvenuta quando lui c’era ancora o, come piuttosto tendo a credere, poco dopo: Paola Barocchi scoprì che nella casa dove loro abitavano aveva abitato Bartolomeo Ammannati mentre si faceva il ponte di Santa Trinita. Quello che vedevano dalla loro finestra lo aveva visto Ammannati mentre il ponte veniva costruito; e dalla stessa prospettiva Giovanni Nencioni e Paola Barocchi videro la ricostruzione del ponte dopo i bombardamenti. Un tema, quella ricostruzione, su cui c’era stata un’enorme discussione fra chi lo voleva “dov’era come era” e chi lo voleva “dov’era ma non com’era”. Ci sono anche fotografie fatte da Paola Barocchi dalla finestra durante la ricostruzione, ma davvero non so se Nencioni seppe mai che Ammannati lì stesso era vissuto, se poté condividere con la Barocchi quella gioia. Negli ultimi suoi anni, almeno fino a un certo punto, veniva una volta ogni tanto a Pisa, spesso a lavorare con Sonia Maffei, mia allieva carissima, e ogni volta il Nencioni già declinante si rianimava prendendo in mano un testo, “tornava più giovane”. 

Vorrei concludere con qualche osservazione su quella che per uno studioso disciplinarmente lontano come me può essere la lezione di Nencioni: il suo stile, certo, e qualcosa ne ho già detto; ma non solo. Luca Serianni commemorandolo in questa Accademia ricordava la commemorazione che Nencioni aveva fatto di Migliorini, immaginando che il commemorato fosse lì a fargli insistente cenno col dito alle labbra come a dire “non parlate troppo di me, né a voce troppo alta, rispettate il mio stile”. E, aggiungeva Nencioni, “c’è chi uscendo di scena solleva dietro di sé un polverone di parole, c’è chi se ne va in punta di piedi cercando di non turbare gli amici, di non disturbare i compagni di lavoro”. Questo era lo stile di Nencioni, e parlandone mi viene fatalmente alla mente l’ultima volta che l’ho visto da lontano, in casa di Paola Barocchi. Lui passava in un corridoio e io volevo salutarlo, ma lei mi disse: “No, non sta bene, lui non vorrebbe” e questo “lui non vorrebbe” mi è sempre rimasto nel cuore.

Quella che Nencioni chiamava “la mia concezione istituzionale della lingua”, questa è un’altra lezione capitale che ci viene da Nencioni: una concezione istituzionale che si lega al suo rispetto per i ministeriali (menzionato da Sabatini). A tale concezione istituzionale appartiene il fatto che studi giuridici e studi linguistici potessero essere per lui in forte continuità, come due aspetti complementari della vita e del funzionamento delle istituzioni. La lingua e il diritto come strumenti delle istituzioni: di qui veniva la sua etica del rispetto delle istituzioni. E finisco citando le sue stesse parole: “La vita ministeriale, deprimente per le intelligenze orgogliose, fu per me un corso di educazione civile in tempi calamitosi e alienanti. In quell’esperienza diventai anch’io un cittadino prima che uno studioso”. Parole da cui, anche oggi, tutti avremmo qualcosa da imparare.