Comunicazione tenuta a Stoccolma presso l'Istituto italiano di cultura, il 20 ottobre 2003, in occasione della terza Settimana della lingua italiana nel mondo.
Grazie al direttore dell'istituto italiano di cultura dottor Giuseppe Manica per il gradito invito a partecipare a questo incontro da lui organizzato. Sono felice di portare a Stoccolma il saluto dell'Accademia della Crusca che mi onoro di rappresentare e che, come sapete, è fra gli enti promotori della Settimana della lingua italiana nel mondo. Al suo terzo appuntamento questa iniziativa, per l'impegno profuso dai diversi soggetti coinvolti secondo le loro diverse competenze, si sta sempre più confermando come un momento importante di "promozione" della nostra lingua. Il programma che si svilupperà oggi e nei prossimi giorni a Stoccolma dimostra in modo molto chiaro che la Settimana non rappresenta un semplice richiamo di attenzione, rivolto ai cittadini del mondo, sul valore della lingua e della cultura italiana e sui temi di grande attualità che la coinvolgono e la mettono in gioco. Non si tratta, in altre parole, di un semplice rafforzamento dell'immagine dell'italiano nel mondo (cosa per altro fondamentale), ma si tratta di un concreto, articolato, ambizioso programma di coordinamento dei molte attività e di molti progetti e di ricerca e didattiche già in corso, col "valore aggiunto", per il loro sviluppo e per la loro innovazione, che può derivare da un confronto puntuale di metodi e di obiettivi.
In questo quadro mi soffermerò oggi sull'Accademia della Crusca, sulla sua storia secolare e sulle sue attività attuali, per chiarire meglio il suo ruolo all'interno della Settimana. Come tutti sanno la Crusca non si occupa direttamente di insegnamento dell'italiano all'estero. In questo settore è altamente meritoria l'attività di altre istituzioni, fra le quali si distingue la Dante Alighieri che è stata fin da subito accanto all'Accademia della Crusca nei programmi della Settimana e che è qui rappresentata autorevolmente dal suo segretario generale Prof. Alessandro Masi e da quattro Presidenti di comitati svedesi.
Ma la Crusca ha da sempre avuto una vocazione internazionale. Voglio far presente la folta presenza nel suo corpo accademico, fin dai secoli passati, di soci stranieri. Basti qui il nome di Voltaire, la cui bella lettera di accettazione della nomina di accademico (presente nel nostro Archivio) è stata recentemente ripubblicata in onore del nuovo accademico Carlo Azeglio Ciampi. Ma forse più importante è ricordare che il suo modello organizzativo e di lavoro lessicografico è stato ben presto, fin dal '600, esportato in molti stati europei e che gli scambi e le convenzioni che la Crusca ha con molti paesi del mondo rappresentano parte integrante della sua storia attuale. Possiamo sinteticamente dire che se il raggio d'azione della Crusca non è mai stato esclusivamente nazionale, oggi esso è obbligatoriamente internazionale. L'Accademia pone dunque sé stessa e la sua storia al servizio di tutti gli "amatori" della lingua italiana sparsi nel mondo e si rivolge autorevolmente a chi ci governa per un'adeguata politica linguistica nazionale e europea.
Naturalmente la Crusca può svolgere questa azione solo insieme ad altre istituzioni. Penso per l'Italia soprattutto al legame con l'ASLI (Associazione per la Storia della Lingua Italiana) che riunisce tutti i docenti di Linguistica italiana, con sede presso l'Accademia. Per l'estero, certo, la Settimana è un momento fondamentale di contatti, di scambi di idee, di collaborazioni e alleanze, come accennavo prima. Inoltre proprio a Stoccolma, il 13-14 ottobre scorso, è stata costituita la Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali, ne parlerò fra poco, nella quale la Crusca entra con un ruolo di primo piano.
L'Accademia della Crusca può dare davvero molto nella direzione di quella consapevolezza linguistica che è oggi ancora tanto carente. Sia in Italia sia all'estero occorre credere di più nell'italiano e non solo come lingua di una illustre tradizione culturale. Occorre investire maggiormente nella nostra lingua perché attraverso la scuola, l'università, i grandi mezzi di comunicazione di massa, gli istituti italiani di cultura all'estero si diffonda quella sicurezza e quell'orgoglio linguistico che sono le premesse indispensabili per l'affermazione e la vita continua delle lingue.
Un grande scrittore e poeta svedese Lars Gustafsson ha collaborato l'anno scorso a un bel volume intitolato Dizionario della libertà: le parole della libertà in ventisei grandi scrittori contemporanei. Prefazione di Mario Luzi, promosso dalla Regione Toscana e dall'Accademia della Crusca. (Firenze, Passigli 2002). Gustafsson ha scritto per l'occasione la voce Enciclopedia (pp. 51-57) e ha concluso il suo breve pezzo con queste parole:
L'Enciclopedia è interessata a come le cose si fanno, alla conoscenza senza parole di artigiani e costruttori. Osservatori, anzi, si potrebbe quasi dire spie, vengono mandati a sondare la ricca vita industriale di Parigi. Per vedere come si costruiscono le barche, come si tessono gli arazzi, come si fondono gli stampi per le sculture. Il risultato si trasforma in articoli che ancora oggi impressionano per la loro chiarezza e naturalmente per le straordinarie incisioni degli speciali volumi illustrati. Anche questo [degli enciclopedisti] è un atteggiamento ispirato dalla libertà. In relazione al mondo noi siamo osservatori, denominatori, classificatori. ma lo possiamo anche maneggiare e foggiare. Questo mondo non è soltanto un mondo mutevole. E' anche un mondo plasmabile.
Ma si possono "plasmare" le lingue? E' ben noto che la storia delle lingue è strettamente collegata ad una serie di variabili diverse di natura sociale e politica che sono in gran parte incontrollabili. Spesso gli interventi dall'alto sono dannosi o semplicemente inefficaci, soprattutto se sono volti a censurare questo o quel comportamento particolare, questa o quella scelta grammaticale o lessicale. Eppure la storia delle lingue e in particolare la storia dell'italiano dimostra che in alcune fasi storiche ci sono stati interventi di individui o di istituzioni che hanno cambiato, per così dire, il corso "naturale" degli eventi.
Alla fine del Quattrocento sembrava che la standardizzazione linguistica in Italia si sarebbe potuta realizzare per cerchi concentrici, ossia per conguagli progressivi delle lingue di koinè regionali che proprio in quel secolo si erano formate, legate alla realtà culturale delle corti rinascimentali. Queste lingue, caratterizzate da un impasto tipicamente composito fra latino, fiorentino letterario e volgare locale, stavano uniformandosi, grazie alle esigenze comunicative sempre più larghe dei diversi stati regionali e a quelle della stampa che dal 1465 aveva cominciato ad affermarsi anche in Italia. Il conguaglio avveniva attraverso la valorizzazione crescente della componente latineggiante e di quella fiorentina letteraria, entrambe di raggio nazionale, a scapito della componente locale. Ma nei primi decenni del Cinquecento questa strada si è chiusa definitivamente, almeno per la lingua letteraria (che per altro ha assunto un ruolo normativo primario e generale all'interno del panorama linguistico italiano), perché si è affermato un modello di una lingua scritta molto più omogenea e regolata, basata sull'imitazione fedele dei grandi capolavori della Firenze trecentesca, soprattutto il Canzoniere del Petrarca e il Decameron del Boccaccio.
La svolta è legata, come si sa, a Pietro Bembo e Aldo Manuzio, a un grande umanista e a un grande editore, che agli inizi del nuovo secolo hanno saputo interpretare e soprattutto guidare il cambiamento in atto, un cambiamento dovuto non solo alla stampa e alle sue nuove, impellenti, necessità comunicative e commerciali che richiedevano prodotti editoriali linguisticamente omogenei, ma anche a una svolta negli equilibri culturali e politici fino allora esistenti in Italia, segnata emblematicamente da due date: 1492, morte di Lorenzo il Magnifico e 1527, sacco di Roma ad opera delle truppe imperiali.
Venezia e il Veneto nella prima parte del Cinquecento, a cominciare dalle edizioni aldine di Petrarca e di Dante curate dal Bembo (1501-1502), sono state le capitali assolute del dibattito linguistico e della codificazione grammaticale in Italia, i centri diffusori di questo nuovo modello linguistico e normativo affidato dal Bembo ad un'opera capitale nella storia della lingua italiana come le Prose della volgar lingua (Venezia,1525). Tuttavia nella seconda parte del secolo, solo di recente lo si mette adeguatamente in luce, il primato linguistico ritorna a Firenze.
Si possono individuare, ancora una volta, delle ragioni politiche che spiegano almeno in parte questo spostamento. Cosimo de' Medici, il potente e illuminato signore di uno stato assoluto di tipo moderno (che dal 1557 con l'annessione di Siena diventa Granducato), ne guida direttamente la politica culturale attraverso istituzioni diverse e in primo luogo attraverso quell'Accademia fiorentina alla quale conferisce la stessa autorità e gli stessi privilegi dello Studio (ossia l'università con sede a Firenze che impartisce alcuni insegnamenti umanistici accanto a quelle di Pisa e di Siena) nel quale si continuava a usare esclusivamente il latino.. Ma Cosimo punta in modo deciso sulla lingua volgare rispetto a quella latina e, riprendendo l'insegnamento di Lorenzo il Magnifico, capisce che il prestigio del suo stato può essere rafforzato notevolmente dal prestigio di quella lingua fiorentina che il Bembo aveva già proposto al resto d'Italia come modello, seppure nella sua versione arcaicizzante trecentesca.
Occorrevano dei letterati e dei linguisti che fossero in grado di sviluppare concretamente tale ambizioso progetto. Pier Francesco Giambullari, Giovan Battista Gelli, Carlo Lenzoni, Cosimo Bartoli, Benedetto Varchi lavorano per Cosimo e per l'Accademia fiorentina, pur con idee e metodi assolutamente non coincidenti, ma è Leonardo Salviati, giovane allievo del Varchi, che a soli 24 anni, nel 1564 recita all'Accademia fiorentina, con tutta la passione e con tutta l'abilità retorica di cui è capace, quell'Orazione in lode della fiorentina favella che getta le basi di un vero e proprio spostamento del baricentro del quadro linguistico italiano.
I fiorentini, dice il Salviati, hanno Dante, i fiorentini hanno una competenza naturale, assente in tutti gli altri italiani, proprio di quella lingua proposta autorevolmente come modello dal Bembo. I fiorentini devono cessare di litigare fra di loro e di contrastare il Bembo in un'ottica miope e provinciale di difesa del fiorentino contemporaneo. I fiorentini devono riprendersi la loro lingua nella sua interezza, devono impegnarsi a "dare le regole" e a diffondere e far conoscere quella lingua di cui sono gli unici eredi viventi.
L'Accademia fiorentina, lo sappiamo, non scriverà mai la grammatica che Cosimo avrebbe voluto. Era un'accademia che con termine moderno potremmo definire "generalista", i suoi membri si occupavano di molte cose, discutevano e scrivevano, ad esempio, di divulgazione scientifica e insieme commentavano in volgare la Poetica aristotelica. Tutte imprese meritorie e dense di conseguenze positive, basti pensare a Galileo (accademico della Crusca dal 1605), il quale se all'Accademia fiorentina aveva tenuto fin dal 1588 una serie di Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante, adotterà il volgare per la nuova scienza solo dopo il suo rientro a Firenze (1611). Ma sarà il Salviati che circa venti anni dopo cercherà di realizzare quell'obiettivo ambizioso enunciato nella sua Orazione-manifesto, quello cioè di fornire all'Italia un autorevole e sicuro strumento normativo. Nel 1582-1583 il Salviati si impegnerà infatti nella trasformazione di un'accademia privata (fondata da cinque letterati fiorentini: Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini, Bastiano de' Rossi che si riunivano in allegre "cruscate") in un'accademia "specialistica", di tipo strettamente filologico e linguistico: l'Accademia della Crusca.
E nel 1595 l'Accademia della Crusca pubblicherà una Divina Commedia depurata da tutti gli errori (o presunti tali) apportati al testo dagli stampatori cinquecenteschi, realizzando in questo modo una delle idee fondamentali, espresse dal Salviati nell'Orazione e del tutto nuova rispetto al modello bembiano al quale egli in parte aderisce, quella che i fiorentini dovessero "usare" Dante come il Greci avevano "usato" Omero, per esaltare cioè la loro lingua, per "metterla in cielo". Dante, cito le sue parole che è "quello miracolo che noi tutti vediamo".
Ma già nel decennio precedente il Salviati si era occupato, da specialista, di cose linguistiche, aveva infatti studiato in modo molto approfondito la lingua del Decameron (in occasione dell' edizione purgata da lui stesso curata, 1582), producendo un'importante opera grammaticale, gli Avvertimenti sopra la lingua del "Decameron" (1584-1586), vera summa dell'intera speculazione grammaticale cinquecentesca che, come è noto, è stata in Italia particolarmente ricca e vivace. Proprio in quest'opera il Salviati aveva gettato le basi del futuro vocabolario, stabilendone in primo luogo il canone degli autori e dei testi da citare.
Tuttavia solo nel 1612 a Venezia, per le cure di Bastiano de' Rossi, uscirà la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca ispirato dal Salviati che, con le sue cinque edizioni (1623, 1691, 1729-38, 1863-1923 interrotta alla lettera O), ha rappresentato, lungo l'arco dei secoli, non solo il punto di riferimento fondamentale e concreto per la diffusione della lingua italiana in Italia e all'estero, ma anche uno straordinario strumento di identità nazionale.
Nell'Orazione il Salviati sosteneva che a differenza del latino il fiorentino-italiano non si era imposto con la forza dell'impero:
Non ha il nostro parlare, uditori prestantissimi, quel fondamento che hebbe anticamente la latina favella, cioè la monarchia dello imperio, mediante la quale furono alcuna volta come forzati i popoli che le stavano soggetti d'imparare quella lingua nella quale solamente erano intesi da chi gli comandava.[...].Sforzavano adunque i Romani ad un'hora i loro sudditi ad apprendere la loro favella ed essi quella dei loro suggietti e tributari con ogni studio apprendevano. Ma noi, verso i Romani di veruna potenza scemati dell'una briga e dell'altra, conseguiamo che i popoli più lontani e le nazioni più potenti e quelle stesse che hoggi hanno il dominio dell'imperio del mondo, non forzate ma spontaneamente, con incredibile avidità, la nostra bellissima favella vengano a imparare. (sottolineature mie)
Era la naturale dolcezza della lingua fiorentina con la sue terminazioni vocaliche e con i suoi non difficili né aspri accostamenti consonantici, una dolcezza accresciuta dai "poeti con la ineffabile e maravigliosa dolcezza della rima", che secondo Salviati suscitava tanta ammirazione e spingeva tante persone a impararla. Possiamo essere d'accordo con lui: l'italiano non si è affermato per forza d'armi ma di poeti, eppure dobbiamo subito dopo riconoscere che quel grande vocabolario nazionale da lui stesso ideato, da altri accademici della Crusca realizzato e poi continuamente rinnovato, è stato uno strumento imprescindibile di conoscenza e di diffusione dell'italiano, lingua nazionale.
Oggi siamo di nuovo ad una svolta. E ancora dobbiamo cercare di governare un cambiamento che come sempre non è un cambiamento solo linguistico. Come ho cercato di mostrare fino a qui, Pietro Bembo, Leonardo Salviati, gli Accademici della Crusca hanno inciso profondamente nella storia della lingua italiana; la loro azione in campo linguistico, è stata decisiva nell'orientare in una certa direzione lo sviluppo successivo e persino la grammatica dell'italiano. Li ispirava un'idea di lingua rigidamente unitaria (pur nella variabilità dei generi e degli stili) e un modello pedagogico centralizzato, un italiano insomma come lingua tetto, funzionale alla società ristretta degli alfabetizzati e alla raffinate esigenze di una letteratura capace di svolgere, in un'Italia linguisticamente frammentata in una miriade di dialetti, un forte ruolo normativo.
Dagli anni Settanta la lingua italiana è "in movimento", come risulta evidente a qualsiasi osservatore e come la Crusca ha scritto nel titolo di una raccolta di saggi pubblicata più di vent'anni fa (1982), mentre la creazione di un plurilinguismo reale in Europa richiede tutte le nostre energie. Il monolinguismo che informava le idee e le opere di Bembo, Salviati, e anche molto più tardi quelle del fiorentinista Manzoni è stato criticato con validi argomenti fin dagli anni Settanta dell'Ottocento da un linguista della statura di Graziadio Isaia Ascoli (Proemio all'"Archivio glottologico italiano", 1873). Come molti pensano, l'Europa o sarà plurilingue o non sarà affatto. Tutti ne siamo profondamente convinti. Harald Weinrich, grande linguista e accademico della Crusca, ha scritto recentemente sul plurilinguismo europeo in termini di "ecologia linguistica" , per mettere in guardia da una monocultura basata sull'inglese:
Se vogliamo investire non solo del denaro, ma anche del tempo di vita nel plurilinguismo, non si devono trascurare gli effetti collaterali prodotti da quasi tutte le monoculture. Come dimostrano i casi della canna da zucchero, del tabacco e del caffè, per un certo periodo, le monoculture hanno dei costi di produzione abbastanza bassi, ma alla lunga provocano ogni sorta di disturbi e danni in misura maggiore rispetto alle culture diversificate, che, invece, nel periodo lungo sono più vantaggiose da un punto di vista economico.(Europa: terra di lingua franca?, in AA.VV, L'Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni, Firenze, Le Lettere, 2002, pp. 507-518, in particolare p. 514)
Che cosa fa allora oggi la Crusca? Il peso degli anni e della sua autorevolezza l'ha forse fermata o frenata? E' capace la Crusca di mettere la sua storia al servizio del presente e del futuro? Giovanni Nencioni, per quasi trent'anni Presidente dell'Accademia, ha fatto molto in questa direzione e il Presidente attuale, Francesco Sabatini, sostenuto dal Consiglio direttivo, sta continuando sulla strada tracciata dal suo predecessore, aprendo anzi nuovi fronti di impegno. Non posso neppure accennare ai diversi programmi di ricerca completati o in via di completamento che occupano la Crusca e i suoi giovani ricercatori sia sul "fronte interno" (in particolare nel monitoraggio, nello studio e nella consulenza sull'italiano attuale, nelle sue rapide trasformazioni), sia sul "fronte esterno" della valorizzazione dell'italiano in Europa e nel mondo.
Vale la pena forse sottolineare un elemento: la Crusca, che fin dagli anni Settanta è stata all'avanguardia nell'utilizzo dell'informatica per la lessicografia, ha oggi fortemente intensificato la ricerca nel campo delle nuove tecnologie per potere mettere a disposizione di un pubblico molto vasto gran parte del suo prezioso patrimonio librario e archivistico, e i risultati. delle suoi studi.
Basti qui un accenno ad alcuni dei progetti scientifici, descritti in modo più accurato nel sito dell'Accademia (http://www.accademiadellacrusca.it) che, recentemente rinnovato e sempre aggiornato, costituisce il suo miglior biglietto da visita: la Crusca in rete (digitalizzazione delle cinque edizioni del Vocabolario, conclusione entro il 2004); il Lessico italiano radiofonico (LIR, 64 ore di trasmissioni radiofoniche in voce e in trascrizione per conoscere meglio l'italiano della radio, consultabile presso l'Accademia); la Fabbrica dell'italiano (archivio digitale integrato, consultabile in rete, costituito dalla banche dati degli oltre duemila dizionari, delle quasi quattrocento grammatiche; dalla catalogazione dei centosettanta manoscritti dei concorsi letterari banditi dalla Crusca nell'Ottocento, dalla lemmatizzazione dei novemila termini tecnici raccolti nel Seicento dal cardinale Leopoldo de' Medici, dalle schede bio-bibliografiche di ciascun accademico, dallo spoglio dei verbali dell'Accademia dal 1588 al 1964, da ogni utile riferimento bibliografico e iconografico sulla storia dell'Accademia e da molteplici estensioni ipertestuali).
Desidero tuttavia segnalare qui, in particolare, l'impegno della Crusca a favore di una politica linguistica europea realmente plurilingue, capace cioè di promuovere nei cittadini dei diversi stati dell'Unione la conoscenza di almeno tre lingue "ufficiali" e di tutelare, attraverso adeguate risorse, le lingue ufficiali dei diversi stati dell'Unione come espressioni fondamentali della loro storia.
Come è noto, l'italiano ha attraversato un periodo di particolare fortuna in Europa per almeno due secoli ('500-'600). La richiesta di italiano e non solo di italiano scritto e letterario, ma anche di italiano parlato è stata forte in tutte le principali corti e capitali europee. Per ricostruire in modo approfondito vicende, temi e protagonisti di quel successo, come tassello significativo di una storia linguistica europea da sempre tipicamente aperta agli scambi linguistici e quindi plurilingue, la Crusca in collaborazione con l'Università per stranieri di Siena, ha recentemente dato vita ad una nuova collana Storia dell'italiano nel mondo: studi e testi, inaugurata dal bel libro di Giada Matarucco, Prime grammatiche d'italiano per francesi ( secoli XVI-XVII), Firenze 2003.
Dal passato al presente. Meno di una settimana fa il 13-14 ottobre 2003, proprio qui a Stoccolma, alla presenza del Ministro della cultura svedese, Signora Marita Ulvskog, e di un rappresentante della Commissione europea Anton Van der Weij, promossa dallo Swedish Language Council, è stata solennemente costituita la Federazione europea degli istituti linguistici nazionali dei 15 paesi dell'Unione europea. L'Accademia della Crusca ha ospitato nel 2001 uno dei fondamentali incontri preparatori, dove è stata sottoscritta la carta Mannheim-Firenze che getta le basi di una concreta politica del plurilinguismo europeo. La Federazione, come si può capire, si pone come interlocutore particolarmente autorevole nei confronti dei nostri rappresentati politici nazionali ed europei. Al di là di ogni soluzione che potrà essere data al problema delle lingue di lavoro delle istituzioni comunitarie, quello che importa è avere affermato: "che tutte le lingue europee sono patrimonio comune di ogni abitante del continente, come l'ambiente, come il clima, come la purezza delle acque" (...).
Il principio si traduce nell'indicazione del plurilinguismo individuale (almeno tre lingue europee comprese la propria) e nella chiamata in causa della scuola, dell'università e delle altre istituzioni che si occupano di educazione linguistica perché pongano la "questione linguistica europea" al centro della loro attenzione e dei loro programmi. Nessuno mette in dubbio l'utilità dell'inglese, nuovo e naturale esperanto dei cittadini del mondo, ma come mostra con buoni argomenti Weinrich "proprio attraverso la sua cultura così varia e diversificata, l'Europa è diventata nel corso della storia il continente del logos" (p. 514) e "ha dovuto difendersi, talvolta non senza attriti dolorosi e conflitti, da una "cultura delle cose" in forte avanzata, che in molti ambiti ha attratto la scienza dalla sua parte e che oggi rivendica il predicato della globalizzazione" (p. 507).
All'interno del "dinamismo degli attuali processi geopolitici e demografici" che caratterizzano l'Unione europea, con le frontiere che tendono ad allargarsi e con la presenza positiva di molte nuove lingue "immigrate", credo abbia un grande significato che un'antica istituzione "linguistica" come l'Accademia della Crusca si presenti come soggetto attivo, pronto a porre, con giovanile e rinnovata energia, la propria lunga storia al servizio di un'Europa plurilingue, di un'Europa non disposta a sacrificare la sua ricchezza linguistica in nome di una presunta semplificazione e facilitazione comunicativa e capace, invece, di valorizzare a pieno le sue ricche e stratificate tradizioni linguistiche e culturali, vero fondamento della sua unità futura.
Christian Ferrari
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