Dall'esperienza della "Lingua delle città": spunti e riflessioni per la lessicografia italiana

di Teresa Poggi Salani e Annalisa Nesi

In occasione della presentazione dei volumi La lingua delle città. LinCi. La banca dati (a cura di Annalisa Nesi e Teresa Poggi Salani) e La lingua delle città. Raccolta di studi (a cura di Annalisa Nesi) che si terrà a Siena il 13 maggio 2014, proponiamo questo articolo uscito negli Atti del Convegno di Studi Lessicografia dialettale ricordando Paolo Zolli (Roma-Padova, Antenore, 2006), in cui le due autrici delineavano i criteri e le potenzialità del progetto che ha coinvolto in un primo tempo diciotto città (ormai diventate 31) distribuite da nord a sud su tutto il territorio italiano. Oggetto dell’indagine è l’italiano in quanto lingua di comunicazione innanzitutto parlata, corrente e informale, saggiato mediante un questionario che ha permesso di mettere a confronto parole e forme unitarie, con quelle attribuibili invece a una persistenza di usi localmente radicati.

1. È una lunga tradizione della lessicografia italiana quella di dare indicazioni (per lo più in forma di sigle, qualche volta in forma discorsiva) su frequenza e registri d’uso delle parole («raro», «antiquato», «basso», «scherzoso» ecc.). In questo ambito, tra i vocabolari ormai attempati, è da segnalare in modo speciale - anche se ovviamente all’interno di un’idea normativa di lingua oggi superata dai tempi - il Vocabolario della lingua italiana di Bruno Migliorini[1], così attento all’ascolto effettivo dell’uso (istituendo confronti di frequenze e di livelli tra sinonimi: a «meno comune di» ba «più popolare di» b; e confronti originalmente diatopici che, se ovviamente prevedono la Toscana  al centro, sicché su quel metro andrà intesa per esempio a volte la qualifica di «non popolare», determinano apprezzabili precisazioni come: «dell’uso popolare fuori di Toscana» o «più comune fuori di Toscana»).

In anni recenti indicazioni di questa natura vengono fornite in forma sistematica e in modo più ampio e frastagliato, dotando di qualifiche anche la zona “grigia”, ossia priva di questo genere di commenti, nella precedente lessicografia. Si dichiara quindi, per esempio, che una parola è «comune» (la notazione si sostiene anche, discrezionalmente, sulla consultazione dei vocabolari di frequenza esistenti) o addirittura «fondamentale»; si è introdotto il concetto di «disponibilità», diverso dalla frequenza: ci riferiamo, prima, al Disc e poi al Gradit[2], che hanno aperto nella nostra lessicografia questa nuovissima strada: non mancò di sottolinearne l’importanza Giovanni Nencioni che, all’uscita del Disc, mise in rapporto l’innovazione lessicografica col riconoscimento, da parte degli autori, di un nuovo grado di compattezza raggiunto dall’italiano[3]. L’importanza e l’utilità delle indicazioni fornite in questa direzione dai vocabolari citati (e proprio per questo il Disc, ora anche riedito in nuova veste, e il Gradit sono i nostri primi punti di riferimento) non possono tuttavia nascondere il rischio insito nell’operazione, visto che - lo sappiamo bene - i dati oggettivi su cui ci si basa non hanno ancora, allo stato attuale degli studi, l’ampiezza che occorrerebbe, mentre l’aspetto interpretativo di quei dati deve assumere troppo spesso anche funzione integrativa ed estrapolare ragionevoli certezze su materiale in effetti insufficientemente descritto.

Quando poi ci si introduce nella sinonimia - o almeno la si intacca - i lessicografi, oltre a delimitare accezioni singole, si trovano anche a dover bilanciare fatti di frequenza e di registro tra sinonimi, con possibilità di giudizi di equivalenza o di complementarità, che possono portare a etichettature parallele o differenziate di vocaboli concorrenti. Naturalmente sono tenuti nel debito conto gli studi esistenti sull’italiano regionale e su componenti diverse dell’italiano contemporaneo, e nei vocabolari se ne vedono i frutti sul piano della registrazione di dati “nuovi” (nel senso di parole e accezioni finora non comparse nei lessici). In genere però questo tipo di studi non può fornire attestazioni dell’uso effettivo di parole o accezioni che sono presenti da sempre nella nostra lessicografia.

Anche indipendentemente dai sinonimi il consultatore di un vocabolario resta facilmente in dubbio sulla reale misura e valenza nell’uso, su cui si interroga e cerca risposte, mentre inevitabilmente la competenza di ognuno, quand’anche vasta e sicura, ha una sua angolatura in vario modo  condizionante. Il “cuore” dell’italiano è ormai saldo, ma mantiene saldamente in sé una diversità anche antica, e la gestisce.

 

2. Dovremo dare due notizie sulla «Lingua delle città» (Linci), un progetto che ha goduto di un cofinanziamento ministeriale e che riguarda le Università di Siena (coordinamento centrale), Cagliari (responsabile Cristina Lavinio), Genova (Lorenzo Coveri), Lecce (Alberto Sobrero) e Roma Tre (Paolo D'Achille), cui si è aggiunta dall'esterno fin dall’inizio la collaborazione dell'Università di Verona (Giovanna Massariello). Oggetto dell’indagine è l’italiano in quanto lingua di comunicazione innanzitutto parlata, corrente e informale, saggiato mediante un questionario unitario e tale da permettere la confrontabilità dei dati, pensato in ottica nazionale e applicato in 18 città. In ogni realtà urbana raggiunta sono stati scelti 12 informatori di tipologia preventivamente definita (requisito imprescindibile l’autoctonia, a parte il caso speciale di Latina). Le città - la cui  scelta è dipesa esclusivamente dalle possibilità di pratica attuazione da parte delle università interessate e che quindi ora sono città vicine tra loro e strette da rapporti intensi e di lunga durata, ora sono distanti e slegate - sono, procedendo da Nord a Sud: Milano, Verona, Genova, Carrara, Prato, Firenze, Arezzo, Livorno, Siena, Roma, Latina, Sassari, Nuoro, Oristano, Cagliari, L’Aquila, Lecce, Catania. Le domande del questionario sono 200 (in realtà dal momento che varie hanno funzione multipla il computo complessivo porta a 220-230 quesiti), prevalentemente lessicali, con una trentina che riguardano fenomeni cruciali di grammatica. Abbiamo per ogni domanda un minimo di 216 risposte, che in tanti casi poi, ovviamente, sono di piùperché si possono avere risposte con piùesiti. Infine un dato numerico approssimativo: disponiamo, in relazione al nostro questionario, di oltre 50.000 dati, lessicali o grammaticali.

È palesemente un saggio e uno stimolo, e come tale deve essere usato: permette infatti, utilizzando il confronto su vasta scala grazie all’unitarietà del questionario, di individuare tendenze degne di considerazione da un campionario diciamo pure casuale di città (anche al di là del fatto che abbiamo indagato, diciamo, abbastanza in certe aree, nulla in altre).

Indaghiamo sul rapporto tra tendenza unitaria, eventualmente imperativi di una norma ancora avvertita, e persistenza di quanto localmente è radicato, e indaghiamo sull’accoglimento del dato che viene da fuori e che arriva come “nuovo”. Cerchiamo in sostanza di capire anche problemi di lessicografia: in questa direzione le nostre indicazioni sono realistiche, perché sono dati e interrogativi provenienti innanzitutto da una correntezza spontanea d'uso, come ci arriva filtrata dagli informatori. Ed è questa che a tratti relega nella competenza passiva di certe aree elementi del lessico o della grammatica che in altre sono dell'uso o che i vocabolari e le grammatiche registrano perché comunque appartengono a un italiano tradizionale. Dunque in certi casi verifichiamo anche la débâcle (o la tenuta) di un italiano tradizionale (e del potere della vecchia scuola).

Per come è impiantata, dalla nostra indagine non si ricavano dati statistici né fotografie complessive di singole realtà cittadine, ma indicazioni sensate, da cui possono scaturire dubbi costruttivi sull’uso dell’italiano e sull’utilità di chiarimenti ulteriori in direzione della registrazione documentata della differenza: da accogliere poi nella giusta misura in lessicografia. Dal nostro lavoro può venire uno stimolo, crediamo, all’ascolto dell’uso e all’interrogazione sull’uso: che è quella che, usando un questionario, abbiamo praticato noi. In fondo ne viene il suggerimento di pensare a un vocabolario dell’italiano, che oltre le sue dimensioni storiche e stabilmente attese, si rivolga al “terreno” dell’uso, sul quale anche si costruisca e si verifichi, come oggi si costruisce e si verifica - su altri versanti linguistici pur italiani - un vocabolario dialettale.

Se prendiamo come epoca di riferimento approssimativo il nostro Ottocento, possiamo concordare nel dire che la “differenza” interna all’italiano allora d’uso era fatta principalmente di trasparenze dal dialetto, di ipercorrettismi giustificati anch’essi dalla pratica del dialetto, di forme più o meno libresche - nelle due varietà del toscanismo e dell’arcaismo - non ovunque adottate.

Ci domandiamo: al di là di fatti accertabili di riorganizzazioni interne a singoli sistemi locali (che di per sé è fenomeno interessantissimo), quanto sussiste ancora del riposare fiducioso sul dialetto (un dialetto magari ora, secondo i luoghi, quasi sparito)? E l’ipercorrettismo? E quanto sussiste ancora quello che altrove è rimasto sempre libresco, ossia non è entrato nell’uso locale vero? Quanto contano ancora gli imperativi dell’italiano scolastico? Ci sono “cose” che non hanno nome in italiano? Le possibilità contestuali di un vocabolo hanno stabilità localmente diverse?

Con la Linci non si hanno risposte certe e definitive, ma saggi di grande utilità, anche teorica. Al di là della messe di dati raccolti, crediamo che il nostro lavoro offra spunti metodologicamente interessanti per lo studio dell’italiano contemporaneo di comunicazione, in quanto ne illumina fortemente - ci  sembra - la dimensione generale, nel senso che, pur da un’angolatura parziale, la mette in discussione nel suo essere: perché mostra che in certi settori del lessico e perfino della grammatica la normale tendenza all’unitarietà linguistica nazionale séguita a fare parecchio i conti con la frammentazione. E da una serie di contesti linguistici oggettivamente diversi - con usi, frequenze, valori diversi - nascono diverse sensibilità linguistiche, anche antitetiche tra loro. L’italiano insomma appare ancora inciso, costitutivamente, dalla varietà: di questo, forse, deve  prender maggiormente atto la lessicografia della nostra lingua: e si tratterà, naturalmente, di stabilire la misura dell’inserimento in un repertorio dell’italiano.

 

3. La nostra indagine ottiene per esempio risposte di grande frammentazione ad alcune domande e potremmo esemplificare in questo senso ponendoci il problema dell’eventuale registrazione lessicografica, ma in questa sede è forse preferibile soffermarci sull’effettiva circolazione e variazione nell’uso di elementi di un italiano indubitabile (se volessimo invece soffermarci sull’altro genere di esiti, facilmente caratteristico di un lessico delle “piccole cose”, potremmo per esempio citare il caso divertente della miriade di risposte diverse, e con tante varianti, che, pur nell’assoluta prevalenza di scossa[4], si sono ottenute domandando il nome che si dà a quel dolore acuto che si prova battendo il gomito in un punto particolare).

Qualche esempio (e pochissimi con qualche respiro). I vocabolari tradizionalmente registrano scalino e gradino definendone le accezioni, e ne discutono i vocabolari dei sinonimi. Le differenze naturalmente non si negano quando sia accertato che si riferiscano a usi storicamente attestati: quello che non si ritrova, anche nella lessicografia più recente, è la possibile differenziazione geografica degli usi dei due vocaboli in riferimento al loro senso primo e più usuale. I nostri dati ce li restituiscono largamente entrambi, come era ovviamente da attendersi, ma mentre le risposte relative ad alcune città sembrano presentare situazioni bilanciate o in movimento, si hanno zone che si qualificano tra loro in maniera pressappoco antitetica, e si constata che in genere scalino è ben attestato nella Toscana linguistica, a Carrara e a Genova, gradino in Sardegna e a Lecce (per la Sardegna si potrà anche dire che a Nuoro, diversamente da tutte le altre nostre città, dove comunque si ritrova la compresenza tra le due denominazioni, tutti gli informatori rispondono concordemente soltanto con gradino).

Se in un caso come questo non si sono trovati in pratica altri concorrenti, ben più frastagliati e complessi sono i risultati ottenuti con altre domande. Siamo in stagione: si sa che i cachi non pienamente maturi (e altri frutti, naturalmente), se si mangiano, lasciano in bocca una sensazione fastidiosa. In proposito i vocabolari registrano, diciamo così, a pari merito i verbi allappare e allegare; non ha la stessa fortuna lessicografica la stessa accezione di legare. Quanto sono noti e usati questi verbi? Dalle nostre domande sull’uso si può ricavare innanzitutto il suggerimento di registrare questo uso di legare, che viene ampiamente dichiarato. Risulta poi interessante osservare la distribuzione geografica, molto diversificata, delle risposte, anche se converrà ora badare solo agli aspetti emergenti. Il tipo allappare, il più attestato nella nostra indagine, è dato da tutti gli informatori dell’Aquila, che non prevedono neppure alternative, da 11 a Roma, da 10 ad Arezzo, da 8 a Latina. Il tipo allegare è dato da 11 informatori a Livorno e da 10 a Prato (con una toscanità, per il resto, divisa). Legare, assente nella Toscana linguistica, è invece fornito da 11 informatori a Carrara, da 10 a Verona (per lo più nella forma liga, concorde col dialetto) e a Sassari (con presenze consistenti anche nel resto della Sardegna), da 7 a Milano. Tralasciando altro (per esempio l’attestazione, qua e là, di impastare), si sottolinea che si dichiarano scelte chiare e geograficamente ben differenziate: allegare risulta assente nelle risposte relative a ben tredici su diciotto città, lo stesso accade per allappare in sette città e per legare in nove. Naturalmente, visto il tipo di domanda - e questo non interessa più la lessicografia - abbiamo avuto molte “non risposte”, cioè la dichiarata non conoscenza di un vocabolo italiano specifico, e particolarmente in alcune città (addirittura 10 informatori a Lecce, 8 a Catania, 6 a Cagliari).

Ci domandavamo prima: quanto sono noti e usati il monosemico allappare e nello stesso senso allegare e legare? Interrogativi di questo genere, in fondo - e al di là per così dire della “pochezza” di questi verbi -  non sono da poco, visto che, se si estendono e si moltiplicano, toccano alla base l’idea stessa di vocabolario: quanto un vocabolario di oggi, oltre un grande retaggio storico, registra - davvero - dall’uso? O, in altri termini, quanta parte dei nostri lemmari andrebbe riconfrontata con l’uso contemporaneo? Non per eliminare quello che fu e che ancora ci appartiene, ma per definire le attuali presenze, anche correnti, e quello che è più probabile che ascoltiamo.

Dove invece non riscontriamo, attraverso le dichiarazioni degli informatori, una frammentazione marcata, dove vocaboli concorrenti sono normalmente, e da un pezzo, registrati nella lessicografia, colpiscono ad esempio le lunghe persistenze, potendo noi poi giudicare utilmente i dati sulla base di conoscenze di altro genere, provenienti da altre fonti e da altra epoca. Naturalmente il fatto che certe differenze avvertite oggi abbiano una lunga storia è un motivo in più perché la lessicografia, volta com’è anche a spiegare un passato che ancora si legge, le accolga  e le segnali proprio come differenze, alla fine, della nostra storia letteraria. D’altra parte la dimensione di un passato spiega il radicamento e valorizza la differenza.

Un solo esempio dai Promessi Sposi col riscontro dei nostri esiti[5]. Mattino dalla Ventisettana alla Quarantana passa da 29 occorrenze a una sola (che è poi la locuzione di buon mattino presente normalmente anche nei vocabolari di oggi, che non recano un possibile tipo corrispondente per mattina); parallelamente mattina, che già compariva 16 volte nella Ventisettana, arriva nell’edizione definitiva a 40 occorrenze: si osserverà in particolare che tra i tanti mutamenti di mattino in mattina la determinazione temporale al mattino viene sostituita in 7 casi da la mattina e che si hanno anche 2 casi in cui alla mattina, con lo stessa funzione, perde la preposizione. Manzoni in sostanza nella revisione ha mirato all’eliminazione di mattino e ha cancellato la preposizione a in quei sintagmi. Del resto la particolare presenza di al mattino, nel senso detto, a Milano è confermata all’altezza del 1898 dal volumetto delle sorelle Errera, Voci e modi errati, Saggio di correzione di idiotismi e d’altri errori dell’uso milanese[6]. Oggi le risposte alle nostre inchieste, se mostrano a Milano più o meno alla pari mattina e mattino come denominazioni di una parte del giorno, segnalano la città come uno dei punti forti (non l’unico) dell’uso di al mattino e alla mattina (localmente sostenuto dall’uso analogo, anche questo documentato nelle nostre risposte, di al lunedì). Al di là di casi particolari (sintagmi fissi) che separano oggi mattina e mattino, normalmente sia la morfologia del sostantivo sia quell’espressione temporale hanno preferenze territoriali (per la Toscana per esempio, Firenze, cui Manzoni guardava, si tiene ferma in modo assoluto a la mattina, anche come resa del complemento di tempo); dunque, di nuovo, il problema di una possibile distinzione geolinguistica andrebbe valutato dalla lessicografia.

Passiamo a qualche altra veloce segnalazione.

Perfino cadere e cascare mostrano distribuzione geografica differenziata: per quello che appare a noi - nella prevalenza notevole di cadere - cascare ha i suoi punti di forza in Toscana (Firenze, Prato, Siena, Livorno, non ad Arezzo), a Roma e all’Aquila, mentre le risposte di tutte le altre città si pronunciano con sicurezza paragonabile per cadere: è caratteristica la polarizzazione in un senso o nell’altro, mentre soltanto Carrara si dichiara in equilibrio tra le due possibilità.

Avvolgibile, tapparella e serranda - intendendosi sempre quella per finestre - sono denominazioni tutte ampiamente dichiarate, per lo più tutte compresenti (a volte anche con altri sinonimi) nelle stesse città, eppure ci sono i segni di una spartizione del territorio, se il tipo avvolgibile è forte in tutte le città linguisticamente toscane da noi raggiunte, inoltre a Carrara e a Nuoro; la quale Nuoro attesta bene anche il tipo serranda, dominante poi a Oristano e a Roma; tapparella invece è l’unico vocabolo fornito a Genova e a Verona, ed è dato da 11 informatori a Milano e a Lecce.

 E, stando sempre sui prodotti dell’industria, che poi diventano oggetti di casa, ci appare, certo, che la denominazione termosifone domina, eppure a Genova si hanno 11 attestazioni dell’uso normale di calorifero, che è ben dichiarato anche a Milano, mentre bisognerà dire almeno che radiatore continua a circolare nella maggior parte delle città toccate.

L’arealità di nuovo si riscontra per la denominazione di un piccolo oggetto di tradizionale uso scolastico: per cancellare il gesso alla lavagna si usa il cancellino o la cimosa? O altro? Le attestazioni sono pari per il tipo cancellino (compreso qualche cancellina, cancello ecc.) e per il tipo cimosa (anche questo con varianti), ma interessa rilevare che Genova, Verona e Roma depongono risolutamente a favore del primo, che risulta ben testimoniato anche a Carrara, a Latina, a Cagliari e a Milano, mentre cimosa è forte, a volte esclusivo, in tutta la Toscana linguistica da noi saggiata, inoltre a Sassari (anche qui con 12 risposte senza alternativa) e a Nuoro. Nuoro però mostra una solida alternativa con 11 attestazioni per spugna (o spugnetta: denominazioni rimaste per un oggetto che è cambiato), tipo ben presente del resto a Oristano e dominante a Catania. Ma a Lecce la denominazione vincente è cassino, notevolmente presente anche all’Aquila.

 

4. Il trascolorare del dialetto o meglio il “trasfigurare” - riprendendo Francescato[7] - è di fatto mutamento nell’uso e anche nel giudizio sull’uso degli stessi parlanti che possono diversamente orientarsi a proposito di voci o di usi grammaticali tradizionalmente catalogati nei dizionari come regionali, dialettali o toscani. Alla luce di un italiano più diffuso che permette una riappropriazione, di misura e natura meno subalterna del dialetto[8], il parlante - oggi certamente mai dialettofono esclusivo - andrebbe ridefinito anche come consultatore del dizionario. Sembra, tra l’altro, che si avverta un crescente bisogno di “certezze di lingua”. Non solo, ma accanto a preoccupazioni puriste o normative sui fenomeni più vistosi (primi fra tutti i neologismi di provenienza anglo-americana), si rivolge l’attenzione al versante del dialetto e degli usi regionali[9]. I dizionari come rispondono e qual è il valore attribuibile a regionalità e dialettalità oggi?

Il diretto contatto col territorio attraverso la pratica dell’indagine diretta (pensiamo qui all’esperienza degli atlanti linguistici di più moderna concezione) e del suo auspicabile allargamento verso l’italiano comune, di cui la Linci è testimone, permette una riconsiderazione delle etichette citate sopra e può dare la misura della tendenza ora standardizzante ora più localista della lingua stessa, i ritorni o le persistenze di usi dialettali, la scoperta di solidarietà inaspettate per il parlante al quale era ignota la trasversalità regionale e la possibilità al di là della norma di tradizione a favore di una norma variabile. Spesso le parole con referenti concreti hanno una loro vita localmente finché “l’oggetto concreto” regge; queste stesse parole persistono nella lessicografia non nella loro reale appartenenza ad una dialettalità piuttosto che ad un’altra e nell’oggi, ma al di là della loro marca, per intendere il testo letterario - anche di una certa letteratura circolante negli ultimi due secoli - che tra l’altro può essere anche la stessa fonte dalla quale il lessicografo ha attinto. Si pensi al lessico della civiltà del castagno e al portato pascoliano, dal quale citiamo soltanto mondine «tosc. ‘varietà di castagno che produce frutti con la buccia alquanto tenera’»[10] per l’oggettivo localismo del significato e la complessa geosemia regionale[11]. Una sorta di circuito chiuso o che si è chiuso non appena si è perso l’uso locale, regionale o dialettale, ma ugualmente patrimonio del repertorio della lingua inteso in tutte le sue sfaccettature e nel sedimento del tempo.

Dunque pare si debba passare ad una ridefinizione teorica di regionale e dialettale che tenga conto del mutato rapporto fra dialetto e lingua, dei cambiamenti sull’asse del tempo e di un più preciso disegno diatopico, della risalita in lingua del dialettalismo con assunzione di tratti specifici. Si pensi a contradaiolo, dato come genericamente «tosc.» (Disc): nel suo valore di «chi abita in una stessa contrada» è oggi di scarsa vitalità, ma è certamente italiano nel valore specifico senese di «chi appartiene ad una delle contrade storiche» perché tecnico, insostituibile in quanto “localismo culturale”. Allora viene in mente la lezione miglioriniana, anche nella forma divulgata cioè quella destinata a pungolare la riflessione dei parlanti[12], ed in particolare il dialogo fra Carla, Bruno e Antonio a proposito dei dialettalismi:

 

Bruno : - […] Da Roma si sono diffusi i maritozzi, il pecorino, da Napoli la pizza, dalla Sicilia i cannoli e le cassate. Qui i nomi hanno viaggiato insieme con le cose. Ma altre cose non viaggiano punto, e i vocaboli dialettali che si riferiscono alle particolarità del suolo o a costumanze strettamente locali entrano nel vocabolario come termini speciali, di carattere enciclopedico: i tratturi abruzzesi o le trazzere siciliane, i trulli pugliesi o i nuraghi sardi hanno il loro nome specifico, che si adopera solo quando si tratti di quelle precise cose locali.

Antonio: - Ma badate che certe volte anche parole di questo tipo possono divulgarsi: tempo fa le crode alpine erano conosciute solo a poche persone, e ora la moda dell’alpinismo le ha fatte conoscere a tutti, e ha persino fatto sorgere dei derivati come crodaiolo e incrodarsi.

 

Quando si tratta di marcare i vocaboli siamo certo in una delle aree di più difficile gestione come ancora sottolinea Migliorini[13] argomentando più ampiamente, a proposito dell’«aspetto ambientale» e dell’aspetto «affettivo», della sinonimia e concludendo che nella pratica:

 

si è cercato invece di concentrare i caratteri essenziali di ambiente e di tono in notazioni ambientali come popol., non pop., letter., scient., dial., arc., antiq., disus., ecc. e tonali come spreg., vezzegg., iron., ecc.

 

Anche la riflessione finale merita la citazione:

 

Sono segnalazioni molto utili: ma non va dimenticato quale angustia (nel senso etimologico e nel senso attuale) costituisca per il lessicografo la loro concisione[14].

 

Migliorini si chiede poi che cosa voglia dire «letterario»; noi qui ci chiediamo che cosa vogliano dire «regionale» e «dialettale» e, scendendo nel particolare, cosa vogliano dire «settentrionale» o «meridionale» e quanta articolazione può esserci dietro una etichetta «toscano», che ci appare poco specifica alla luce di un diverso disegno della toscanità in quanto tale e in rapporto all’italiano contemporaneo così centrifugo rispetto alla toscanità fiorentina di un modello ben noto.

Il compito di rispondere ed eventualmente di segnalare un quadro di riferimento che sia in certo modo indicativo dei comportamenti lessicografici non sarebbe realistico, anche perché non siamo davanti a degli insiemi ordinati, ma piuttosto a “storie di parole”, delle quali spesso scalfiamo appena la superficie e con sensibilità diverse, per giunta appoggiandoci a dati diseguali, diversamente attinti. Una casistica scelta ad hoc e limitata a parole dal referente concreto, con scarsa o nulla possibilità di impieghi passibili di altre marche tonali fino agli usi metaforici, può aiutare la nostra riflessione e chiarire il contributo delle ricerche dialettali e di sociolinguistica urbana che hanno per oggetto le dinamiche del lessico.

La consultazione dei dizionari su supporto elettronico con possibilità di “entrare” nel dizionario per vie precluse al sistema tradizionale facilita la ricerca di quanto qui interessa. Il dm2000 (filiazione del Gradit e dunque omologo per la classificazione dei lemmi)[15] contiene 3727 entrate catalogate regionali (il Gradit 5407) e 171 catalogate dialettali (il Gradit 338) con eventuale specificazione della porzione geografica d’appartenenza, più o meno ampia: meridionale, centrale, settentrionale oppure ligure, lombardo, toscano fino a genovese, milanese, pisano, senese. Il Disc distingue i lemmi d’uso regionale 633, dialettale 49 e toscano 349, da quelli che hanno significato regionale 485, dialettale 22 e toscano 227. Si tratta di presenze di diverso peso che potrebbero essere utilmente confrontate con quanto contenuto in altri dizionari, recentemente revisionati e integrati, per indagare sui cambiamenti d’etichetta o sui fondamenti dell’espunzione di voci dialettali, toscane, regionali, ecc. e valutare il possibile discrepante comportamento.

Limitandoci nel confronto ai due dizionari scelti come riferimento, esaminiamo un caso tratto dal “bestiario” della Linci, che è molto contenuto, e prende in considerazione animali notissimi anche per chi vive in città[16].

Le denominazioni raccolte per scarafaggio se da un lato confermano le presenze nei dizionari recenti, dall’altro segnalano, accanto alla necessità di un allargamento delle indagini ad altre città, l’esigenza di puntualizzazioni: scarafaggio è registrato come voce di alta disponibilità (Disc, Gradit) ed effettivamente le nostre indagini confermano con 128 dichiarazioni d’uso (comprese forme devianti dallo standard come scarafagio o scaravacci plur.). Se lasciamo da parte risposte aderenti al dialetto (come il genovese bagone, il veronese panaròto, il carrarese diavolina) o i più complessi casi di scorpione fino ai possibili fraintendimenti (come grillo), i sinonimi indicati nei dizionari come «regionali» o «comuni» mostrano una situazione piuttosto mossa. Blatta[17], marcato comune (Gradit) è ben testimoniato in Sardegna[18] e raramente altrove[19]; bacherozzo (e varianti) chiosato regionale (Disc) e regionale centro-meridionale (Gradit), mostra nelle 16 attestazioni una diatopia da indagare meglio vista la presenza a L’Aquila (3), a Latina (4) e a Roma (9) dove ha il massimo grado di resistenza, ma soprattutto vista l’assenza a Lecce e Catania. Accanto dunque ad una meridionalità da ridefinire nei suoi contorni geografici, c’è anche una toscanità che, se nell’insieme non si discosta molto dalla voce ad alta disponibilità[20], resiste con piattola nelle città appartenenti alla dialettalità toscana (ar 7, fi 11, li 10), esclusa Siena con bachera (10 su 12) in perfetto allineamento diatopico con la Toscana meridionale[21]. Dunque l’etichetta «tosc.» deve essere riconsiderata alla luce della divisione dialettale interna alla regione, che si trasferisce nei diversi localismi di uso corrente nella lingua. Anche la sinonimia di regola indicata nei dizionari menzionati fra scarafaggio/bacherozzo/piattola sfugge al consultatore che, secondo la provenienza, può non attribuire a bacherozzo e a piattola il significato “primo” della voce a lemma[22], cioè quello dato per comune. L’indagine se proseguita per bacherozzo e piattola ha un effetto a catena: cioè dobbiamo vagliare anche la marca «comune» che li contraddistingue.

Sullo stesso piano, ma a proposito del fenomeno di risalita in lingua, possiamo collocare il caso di anguria: i dati in nostro possesso mostrano il prevalere, appunto, di anguria (129 risposte, con casi di competenza passiva dove non è endemico)[23] su cocomero (114). Registriamo poi, ma con bassi numeri pateca (8 solo a Genova) e melone, var. mellone (4). Le valutazioni dei testimoni, benché non sistematiche, sono interessanti[24] perché collocano anguria nel repertorio di lingua: italiano o italiano del Nord. Per converso a Milano le due risposte cocomero hanno diverso valore: forse l’impronta scolastica per l’informatore più anziano, ma certamente la coscienza della diatopia in quello più giovane che dichiara «lo uso quando vado in vacanza al Sud d’Italia». E certamente questo Sud comincia all’inizio del viaggio quando le città della Toscana, con adesione parziale fondata sul dialetto anche di Carrara, dichiarano un uso corrente e discretamente compatto di cocomero, che trova riscontro nelle dichiarazioni di Roma e poi di Latina e L’Aquila. Più a Sud Lecce risponde compatta anguria con un solo caso di melone altrimenti presente solo a Catania (3 casi contro 9 di anguria e 2 di cocomero). Quanto alla Sardegna tutte le città compattamente presentano anguria (un solo caso di cocomero).

I dizionari accolgono cocomero, senza nessuna indicazione (Disc, Gradit); anguria e melone (d’acqua) (Disc, Gradit), chiosati regionali (del primo si evince talora l’appartenenza al Nord dalla trattazione etimologica); pasteca, e nonpateca, (non sempre a lemma, Gradit) regionale e ligure. La regionalità di cocomero nell’uso attuale, rispetto ad un suo essere parola di lingua per ovvi motivi di tradizione, e la risalita in lingua di anguria non sono avvertite, eppure la situazione si sta rovesciando certo per gradi e in contesti formali. Ci chiediamo allora quante parole “italiane” provenienti dalla toscanità potrebbero essere oggetto di revisione per distinguerne l’uso anche letterario di altri tempi e il cambiamento dell’oggi.

A proposito dell’etichetta toscano alla luce delle conoscenze sulla frammentazione geosinonimica dialettale e sul tipo speciale di regionalità con indiscussi radicamenti, risulta un buon esempio il già citato mondina con significati divergenti nei dizionari e nella stessa realtà linguistica toscana dove sono proprio i significati a distribuirsi in specifiche aree.

Tornando ora all’indicazione dialettale nei dizionari (che qui esula dalle possibilità di confronto con la nostra indagine) che cosa rappresenta oggi? Marca l’origine? E quanto deve essere lontana nel tempo questa origine perché la si ritrovi solo nel settore dedicato all’etimologia? E quanto risulta stretta la categoria di dialettalismo quando in realtà si tratta di “citazione” di una realtà altra rispetto a quella condivisa in origine e risalita in lingua nell’unità significato-significante con la pregnanza del suo valore culturale? Il locale entra nel globale e l’appropriazione linguistico-culturale, o meglio la condivisione più ampia, muta la percezione relativa a quella data parola dialettale, ne muta l’uso dilatando la conoscenza di quel sapere una volta solo locale. Allora la marca «dialettale», con aggiunta di notazione diatopica «sardo», «toscano», «siciliano», ecc., possono acquisire il solo valore di riconoscimento all’interno di una cultura e di una lingua ampiamente condivise e solide nel nucleo comune, la comune partecipazione a quanto dalle varietà dialettali entra nel nostro patrimonio. Anche per quello che non è entrato - cosa che conosciamo bene - ma che ancora può entrare per il citato “nuovo” rapporto dialetto lingua, per le spinte localiste e per quella che a tutti gli effetti sembra delinearsi come “promozione” nel patrimonio comune di parole e saperi tradizionali.

 

5. Se tutta l’esperienza Linci è da considerare un sondaggio e anche una verifica del modello d’indagine, a maggior ragione si può dire per la sezione morfosintattica che mira a investigare porzioni limitatissime di un’area assai complessa dell’italiano contemporaneo. Le domande sono perciò slegate fra loro e mirano ad affrontare un fenomeno all’interno di un contesto bloccato individuato come caratteristico per la tendenza standardizzante attuale, o passibile di diversa realizzazione diatopica, o suscettibile di differente giudizio e differente dichiarazione d’uso da parte del parlante. Il fenomeno da indagare è comunque sempre in stringhe fortemente condizionanti per la loro natura sintagmatica. L’attenzione rivolta all’uso di alcune preposizioni, ad esempio, fa proprio parte di questo orizzonte. Non interessava l’uso possibile, anche speciale, delle preposizioni - fatto salvo l’accusativo preposizionale -, ma piuttosto un uso ristretto a specifici contesti nei quali la selezione di una preposizione o di un’altra potesse avere valore diatopico o diastratico (per quanto si debba nel nostro caso prendere le giuste distanze da una vera e propria indagine sociolinguistica in area urbana, qui di fatto non realizzata se non in modo meramente indicativo)[25].

Traiamo pochi esempi da domande relative a fenomeni noti dei quali si voleva in certo modo saggiare la persistenza, osservare il possibile mutato orientamento. Il fenomeno indagato può appartenere: ad un già definito uso regionale, come nel caso dell’accusativo retto dalla preposizione a; ad usi la cui dimensione diatopica all’interno di una generica regionalità (talvolta puntualizzata come settentrionale, meridionale o toscana) risulta poco o nulla indagata, come nel caso dell’articolo davanti a nome proprio femminile o maschile e davanti ai nomi dei genitori; ad una riconosciuta tendenza al disuso in un italiano comune e corrente, come nel caso del pronome esso; ancora ad una tendenza ad usi di cui meglio verificare il giudizio del parlante. Dunque ci siamo mossi sia sull’italiano comune sia su quello regionale. Forniamo pochi esempi.

Il primo caso è costituito dai risultati a due domande complesse per le attese multiple: art./ø con nome proprio femm. e con nome proprio masch., complemento oggetto introdotto da a. La proposta è costituita da una possibile, comune frase della nostra lingua: Ho visto Maria, Ho visto Giovanni, con attese circa le diverse realizzazioni diatopiche in contesti di “normalità” quanto ai parametri formale/informale. Tanto la presenza/assenza della preposizione, quanto quella dell’articolo sono contemplate dai dizionari presi qui a riferimento. La preposizione, accanto ad usi non regionali, o solo oggi regionali in specifici contesti da noi non contemplati, è attestata di uso regionale centro-meridionale; i nostri dati confermano la meridionalità del fenomeno e includono la Sardegna. Si deve però sottolineare l’irrilevanza numerica dei reperti[26] e, pur rimandando l’analisi puntuale, dobbiamo ravvisare una censura ad ammettere l’uso. Ci chiediamo tuttavia perché questo e non altri fenomeni di regionalità “spinta”, centrifuga rispetto allo standard e da valutare secondo parametri diastratici, diafasici e diamesici, entri nel dizionario.

Quanto all’uso dell’articolo con nome proprio, chiosato come genericamente regionale dai dizionari[27], proprio perché fenomeno poco indagato nella sua distribuzione e vitalità, possiamo attingere dalla Linci alcuni dati utili pur nei limiti territoriali della scelta delle città campione. Rilevante la compattezza di certe realtà urbane (tutte le città sarde, le città indagate nel centro-sud della penisola, Roma, Latina, L’Aquila, Catania e Lecce con qualche scarto), nella concorde assenza dell’articolo. Risposta altrettanto compatta, ma di segno opposto in alcune città della Toscana. Contrariamente ad una certa idea di toscanità tanto diffusa e nota da essere cliché, l’uso dell’articolo è un evidente endemismo a Firenze, Prato, Arezzo alle quali si contrappongono Siena e Livorno con radicata assenza. La frammentazione all’interno di città come Milano, Verona, Genova, Carrara trova una motivazione nel diverso porsi del parlante davanti alle possibilità della lingua e al loro diverso grado di realizzazione pragmatica e formale. A Verona due informatrici, appartenenti a diversa classe d’età, selezionano il tratto confidenziale, amicale per l’impiego dell’articolo.

L’articolo con nome proprio maschile non trova consensi e «il Giovanni» di un anziano informatore milanese è da lui stesso avvertito come «la forma più antica». Non è sufficiente per ulteriori e diverse certezze per la lessicografia, ma dà comunque la misura di quanto sia necessario un approfondimento. Del resto altri ha già puntualizzato il disegno areale, citando la Lombardia e il Trentino per l’uso con femminile e maschile, e la Toscana e altre aree settentrionali col solo femminile[28].

Nel Disc, ai lemmi che (aggettivo interrogativo ed esclamativo) e cosa, si sottolinea la «semplificazione», per motivi eufonici, di che cosa in uno dei due elementi. Per quanto il fenomeno sia antico, in realtà si sottolinea l’impiego in letteratura del semplice cosa. La compattezza d’autore è riscontrabile presso i parlanti? Questa una possibile motivazione della presenza della domanda esplicitamente posta agli informatori della Linci con le possibili alternative: che fai oggi? Che cosa fai oggi? Cosa fai oggi?

Prevale che a Prato, Firenze, Siena, Arezzo, Roma, Latina, L’Aquila, Lecce, Catania. Prevale cosa nelle città sarde, a Genova, Milano, Verona, Carrara, Livorno. Il quadro si prospetta interessante con una prevalenza di cosa nelle città del Nord e in Sardegna, ma anche con oscillazioni che andranno meglio indagate e che mostrano in linea generale un comportamento ed un giudizio d’uso diversamente sfumato rispetto alle possibilità apparentemente neutre, equivalenti del sistema. Mentre si rimanda alla bibliografia[29], si sottolinea la possibile influenza del dialetto con forme corrispondenti a cosa a Nord. I dati della Linci confermano la situazione, ma dovremmo meglio indagare l’età dei parlanti per la situazione delle città allineate su che, seppur non compattamente.

 

6. L’apporto alla lessicografia di rilevamenti in ambito grammaticale sul terreno è dunque di natura puramente orientativa; tuttavia vista la proficua recente impostazione grammaticale - carattere dei dizionari di lingua di ultima generazione - i risultati della raccolta sul terreno mettono nella condizione di comprendere, tramite le dichiarazioni d’uso, le opinioni, le certezze “normative”, le incertezze e i dubbi espressi dai parlanti, il bisogno dell’utente di ritrovarsi e riconoscersi nel dizionario proprio in quelle forme anche naturali e quotidiane per le quali può valer la pena di rappresentare la variegatezza, in senso descrittivo e non prescrittivo, come utile cenno alla riflessione linguistica individuale. Va da sé che non stiamo sottolineando una carenza nel dizionario di lingua, ma piuttosto la carenza di indagini e studi ai quali il compilatore del dizionario di lingua può far riferimento per decidere le sue scelte e per affinare, fin dove possibile, la trattazione di certi lemmi.

 

 

 


[1] Torino [ecc.], Paravia 1965.

[2]  F. Sabatini-V. Coletti, DISC, Dizionario italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti 1997; seconda edizione:Il Sabatini Coletti, Dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli Larousse 2004 ; T. De Mauro, Grande dizionario italiano dell’uso, con la collaborazione di G. Lepschy e E. Sanguineti, Torino, Utet 1999-2003, 7 voll.

[3]  G. Nencioni, Vita nazionale dell’italiano, in «La Crusca per voi», n. 16, aprile 1998, pp. 1-6, alle pp. 5-6; rist. in Id., Saggi e memorie, Pisa, Scuola Normale Superiore 2000, pp. 357-64, alle pp. 363-64.

[4]  In questa sede ci si limita a una pura trascrizione ortografica delle forme attestate.

[5]  Ci siamo serviti di Liz 4.0, Letteratura italiana Zanichelli, a cura di P. Stoppelli  ed E. Picchi, Bologna Zanichelli, 2001.

[6]  Milano, Albrighi, Segati e C. 1898.

[7]  G. Francescato, Il dialetto muore e si trasfigura, «Italiano & Oltre», 1 1986, pp. 203-8.

[8]  Si cita appena il secondo e il terzo fra gli scenari possibili di Berruto, in parte ambedue realizzati (G. Berruto, Come si parlerà domani: italiano e dialetto, in  Come parlano gli italiani, a cura di T. De Mauro, Scandicci, La Nuova Italia 1995, pp. 15-24); da ultimo e per l’aggiornata bibliografia E. Pistolesi, Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms, Padova, Esedra 1994, in particolare pp. 112-14.

[9]  Si consideri la quantità di quesiti alla rivista «La Crusca per voi» e in genere le risposte ai lettori di quotidiani e settimanali.

[10]  Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, Torino,Utet 1961-2002: anche «castagne lessate e sbucciate».

[11]  In Toscana si distribuiscono in aree diverse, oltre al significato pascoliano, ‘castagna lessata senza buccia’ («toscano» Disc, «regionale toscano» Gradit) e ‘caldarrosta’ («versiliese»solo in N. Tommaseo, B. Bellini, Dizionario della Lingua Italiana, Torino, Pomba 1865-79).

[12]  B. Migliorini, La lingua italiana d’oggi, Torino,  ERI 1957, p. 50.

[13]  B. Migliorini, Che cos’è un vocabolario?, Firenze, Le Monnier 1961, pp. 42-45.

[14]  Ivi, p. 46.

[15]  T. Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Milano, Paravia 2000.

[16]  Il questionario ha le seguenti domande: 72. tarma, 98. piccione, 111. scarafaggio, 126. vermi del formaggio.

[17]  Cfr. Disc: «nome generico di numerosi insetti dell’ordine dei Blattoidei di abitudini notturne che presentano corpo piatto di colore scuro […]».

[18]  Da qui si impiegano anche a testo le sigle note per ciascuna città (ro per Roma) seguite dal numero delle attestazioni: blatta ca 7, nu 11, or 10, ss 6.

[19]  blatta car 2, ct 3

[20]  scarafaggio ar 9, car 10, fi 4, li 2, po 7, si 4.

[21]  Cfr. le risposte alle domande 230, 230a in G. Giacomelli et alii, Atlante Lessicale Toscano: Banca Dati, a cura di Regione Toscana, Roma, Lexis 2000.

[22]  Ad esempio ‘verme’ per il primo e ‘pidocchio del pube’ per il secondo.

[23]  Segnaliamo la competenza passiva: ro e po 2, aq e car 1 con competenza attiva di cocomero, ge 1 con pateca. Si affiancano alcune dichiarazioni di uso raro o di minor frequenza.

[24]  Alcuni giudizi di singole fonti: «so che si chiama anguria ma io dico cocomero»(Roma); «il nome italiano è anguria»(Latina e l’Aquila); «non è usato in Toscana»e «è parola dell’italiano settentrionale»(Prato); «troppo sofisticato, se vado in un’altra città per farmi capire»(Arezzo); «alla siciliana melone, anguria è all’italiana»(Catania).

[25]  Per l’impostazione della ricerca si rinvia a T. Poggi Salani, «La lingua delle città». Prima ricognizione su un progetto di ricerca nazionale, in Città plurilingui. Lingue e culture a confronto in situazioni urbane, a cura di r. bombi e f. fusco, Udine, Forum, 2004, pp.437-48, e a T. Poggi Salani, A. Nesi, Prime considerazioni sugli esiti della ricerca MIUR «La lingua delle città», in Il parlato italiano, a cura di F. Albano Leoni et alii, Napoli, M. D’Auria Editore 2004, cd-rom.

[26]  In totale si hanno 12 risposte su 296 per a + masch; 6 su 222 per a + femm.

[27]  Gradit chiosa «regionale lombardo» l’articolo col maschile e col femminile; Disc si limita a «usi regionali» o «d’ambito regionale» (s.v. il e la).

[28] Cfr. A. Masini in I. Bonomi et alii,Elementi di linguistica italiana, Roma, Carocci 2003, p. 28. Si veda, tra gli altri, L. Serianni, Grammatica italiana, Torino, Utet 1988, p. 146, che sottolinea l’uso nel registro affettivo e familiare, la popolarità col femminile solo in Toscana e in area settentrionale, col maschile nell'italiano regionale del Nord.

[29]  Cfr. comunque F. Sabatini, L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in AA. VV., Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, a cura di G. Holtus und E. Radtke, Tübingen, Narr 1985, pp. 154-84, p. 165; G. Berruto, La sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, NSI 1987, per la bibliografia contenuta e soprattutto per la valutazione delle diverse variabili nell’uso di cosa in Italia settentrionale (pp. 32, 34, 37, 79, 94).

 

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