"Che tipo di italiano è quello che tutte le domeniche i cattolici usano in chiesa?". L'accademico Vittorio Coletti propone una riflessione sulle particolarità dell'italiano usato durante il rito della messa.
Marzo 2015
Cinquant’anni fa, esattamente il 7 marzo, papa Paolo VI celebrava a Roma, nella chiesa di Ognissanti, la prima messa in italiano. Dopo essere stata la prima istituzione pubblica a ufficializzare la pratica delle lingue locali nella predicazione (Concilio di Tours dell’813), la Chiesa dì Roma è stata l’ultima ad adottarle nei suoi riti, dopo essere stata a lungo restia ad usarle anche per la conoscenza delle Sacre Scritture. Come si sa, quello delle lingue fu uno dei punti di contrasto tra protestanti (che immediatamente adottarono le lingue materne) e cattolici (che rimasero fedeli al latino) e uno degli argomenti di più appassionata discussione al Concilio di Trento.
La questione era eminentemente dottrinale, teologica e pastorale, tanto nel XVI secolo, quando la Chiesa romana si schierò con i vescovi spagnoli contro quelli tedeschi e disse di no alla messa nelle lingue locali, quanto nel 1963, quando, al Concilio Vaticano II, ne permise l’adozione. Da allora anche l’italiano è diventato lingua del rito centrale del cristianesimo, non senza rammarico, nostalgia e polemiche dei vari tradizionalisti, che ora, grazie a un decreto di Benedetto XVI, possono, se le circostanze lo consentono, celebrare di nuovo la messa anche in latino. Ma si tratta di casi limitati, anche se potenzialmente destinati a crescere, specie se dovesse diffondersi un’interpretazione distintiva, grintosamente difensiva del cattolicesimo, magari sotto l’incalzare di altri estremismi religiosi.
Ma a noi qui interessa la lingua. E la domanda allora è: che tipo di italiano è quello che tutte le domeniche i cattolici usano in chiesa durante la messa? Bisogna dire subito che non coincide precisamente con la lingua comune, e non c’è da stupirsene, vista (è il caso di dirlo) la funzione. Intanto, ci sono costrutti preposizionali o inusuali o letterari tipo “per Cristo” col valore di mezzo, tramite, che la lingua ordinaria non prevede se non con nomi comuni (“per posta”) e che con nomi propri ha valore diverso (“per Marco” vale “a giudizio di Marco”). Allo stesso modo “in Gesù Cristo… canteremo la tua gloria” è ai limiti della grammatica (si canta qualcosa non in ma con). Il “sacrificio.. preparato nel tuo santo nome” potrebbe significare “per conto tuo” e invece ritengo (ma chiedo soccorso ai teologi) voglia dire altra cosa, tant’è vero che Antonio Rosmini aveva suggerito di tradurre “preparato al tuo santo nome”. La reggenza “nell’unità dello Spirito santo” è, per la norma, incongrua, perché l’italiano accetta solo “in unità con”, tanto che il card. Tamburini aveva saggiamente suggerito, già nel ‘700, “in unità di essenza collo Spirito santo”, chiarendo il senso e rispettando la grammatica. Nel Credo si dice “credo la Chiesa una, santa, cattolica” e già Manzoni aveva qualche dubbio al proposito, che però Rosmini gli chiarì ricordandogli che qui credo vale professo e attesto, con un valore perciò diverso dal precedente (nella stessa preghiera) “credo in un solo Dio”. Anche “comunicando al santo mistero del corpo e sangue…” prevede una reggenza anomala del verbo comunicare, che in italiano corrente vuole con. Certe espressioni poi sono molto particolari. Ad esempio, la risposta all’augurio del sacerdote, “Il Signore sia con voi”, “e con il tuo spirito” non è affatto perspicua e sarebbe più chiara se fosse “”e (anche) con te”, come suggeriva Franco Fochi, se non addirittura “abiti egli ancora nel tuo spirito”, come proponeva Ludovico A. Muratori. Certe invocazioni sono circondate da una serie di apposizioni, ma non si distingue più tra il vocativo (Gesù Cristo) e i suoi titoli in “tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo”, tanto che ancora Muratori aveva pensato di metterci davanti un oh: “Oh Signore, Figlio unigenito, Gesù cristo. Oh Signore Iddio, Agnello di dio, Figlio del Padre”, per distinguere i vocativi dai loro attributi teologici.
E che dire poi del valore che a messa assumono parole come sacrificio o vittima, usate con una valenza positiva che certo non hanno nella lingua comune, o passione usato non come attrazione ma come sofferenza: si pensi come, nell’italiano corrente, la frase “Egli, offrendosi liberamente alla sua passione” potrebbe avere un senso completamente diverso da quello che assume nella messa. Per non dire dell’uso della parola “memoriale”, che evoca diari, retroscena, e che invece è stato a volte introdotto, come opzione dotta, per tradurre un ben più semplice “memores” latino (cioè: ricordando, memori). E così “ministri”, scelta colta per servi e/o sacerdoti. Ci sono in effetti nobilitazioni varie del linguaggio, come in “rendere grazie” per “ringraziare” o sottili ritocchi per non abbassarlo, come quando “dopo la cena, allo stesso modo” (che sostituisce un precedente “dopo aver cenato”) isola con l’articolo quella cena speciale, evitando la banalizzazione del “dopo cena”. Ma la traduzione in italiano del latino della vecchia messa è stata ovviamente anche un’occasione per aggiustamenti teologici, come quando il Deus Sabaoth, cioè “degli eserciti”, è diventato “Dio dell’universo” o il sangue, che in latino era versato “pro multis”, in italiano è stato offerto “per tutti”. Ma questa ovviamente non è più questione di lingua.
L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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Intervento conclusivo di Vittorio Coletti
Vorrei ringraziare i molti e spesso molto autorevoli intervenuti nella discussione che ho proposto sull'italiano della Messa (la scrivo maiuscolo come qualcuno ha fatto osservare che si dovrebbe, ma non è certo obbligatorio a norma di regole ortografiche). Quasi tutti mi fanno osservare che in quella situazione comunicativa l'italiano è sotto pressione di ben altre ragioni che quelle della sua grammatica corrente: insomma, l'italiano della Messa è una lingua, se non speciale, settoriale, per di più con incidenze, diversamente dal solito, non meno sulla grammatica che sul lessico. Cioè, l'italiano della Messa ammette costrutti e valori semantici, più ancora che parole (come accade nelle altre lingue speciali), decisamente non comuni, e a volte ai limiti della norma. Non ho voluto dire che fa male a fare così o che non lo dovrebbe fare. Mi sono limitato a registrare da linguista lo stato delle cose, che mi pare nessuno abbia seriamente messo in dubbio, pur variamente e dottamente giustificandolo o spiegandolo, ora dal punto di vista delle varietà del linguaggio ora da quello teologico-liturgico-esegetico, come esemplarmente hanno fatto gli interventi più articolati di Fabio Marri, padre Eugenio Costa, Antonio Bonomo e, nella ripresa del tema su Avvenire, mons. Lameri. Proprio con una piccola replica a mons. Lameri chiudo questa discussione. A un certo punto il Monsignore mi fa osservare che “in unità di”, da me eccepito, è un costrutto ammesso dall'italiano e che io quindi faccio male a sospettare della sua grammaticalità. In realtà, il costrutto, è italiano, ma se segue di (“nell'unità di intenti, metodi, interessi, spirito ecc.”, “nell'unità della squadra”, “nell'unità di Carlo e Giulia, di nonno e nonna”), significa unione, comunanza e la preposizione (di) introduce un complemento di materia o di specificazione. Se invece segue con introduce un complemento di compagnia o unione. Ora, nella Messa si dice “nell'unità dello Spirito Santo” e mi pare che, secondo la teologia cattolica, lo Spirito santo dovrebbe essere una Persona che si unisce alle altre due appunto in un particolare complemento di compagnia, non che specifica su cosa si basa l'unione: quindi qui, a rigore, potrebbe essere discutibile, oltre che la grammatica, anche la teologia. Ma non sono sicuro.
Grazie a tutti
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La decisione ecclesiastica (Concilio Vaticano II e disposizioni successive) relativa all’introduzione delle lingue parlate nelle celebrazioni liturgiche è stato un evento, culturale e religioso, di grande peso. Nella storia bimillenaria della Chiesa cattolica, i due passaggi importanti, sulla questione delle lingue cultuali, erano stati: nei primissimi secoli, in Europa occidentale, quello dal greco al latino e, nel sec. IX, quello dal latino alle lingue slave nei paesi omonimi. L’avvento della riforma protestante ha indotto le autorità cattoliche, nel sec. XVI, a non cedere sul latino. Tra ‘700 (reazioni dei giansenisti italiani; traduzione ufficiale della Bibbia in italiano, dell’abate Martini) e ‘800 (proposte di Rosmini) alcuni aspetti del tema in qualche misura si ripresentano, ma è soprattutto nella prima metà del ‘900 che il problema viene segnalato in modo sempre più insistente da parte sia degli studiosi che dei pastori.
Mentre la predicazione, la catechesi e le pratiche devozionali erano sempre avvenute nella lingua parlata, ora si trattava di leggere nella liturgia stessa i testi biblici, e di pregare (e cantare) i testi di origine ecclesiastica, impiegando la lingua in uso nei diversi paesi e culture. Nelle chiese presenti nei diversi continenti si è messo in moto, nel corso degli ultimi cinquant’anni, un enorme cantiere di traduzioni dagli originali ebraico-greci (libri biblici) e latini (preghiere) nelle lingue di comunicazione. L’operazione ha messo a dura prova la preparazione scientifica e le capacità creative di cui ogni chiesa locale dispone, con inevitabili luci e ombre. Attualmente la liturgia ‘latina’ viene celebrata in più di 400 lingue.
In Italia, gradatamente fra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70, i libri liturgici (in particolare il Messale, i Lezionari biblici, gli altri riti sacramentali e la Liturgia delle Ore) sono stati approntati nella nostra lingua sotto la responsabilità della Conferenza Episcopale italiana (CEI), che ha fatto ricorso a centinaia di esperti e collaboratori, con frequenti controlli e ripetute revisioni. La situazione, in queste proporzioni, è storicamente inedita e le soluzioni adottate possono essere considerate durature, sì, ma non intoccabili: il cantiere rimarrà inevitabilmente aperto, anche se l’esperienza insegna che non è bene ritoccare troppo spesso espressioni e diciture che diventano patrimonio spirituale dei fedeli. In questo momento sono in atto la terza revisione ufficiale del Messale e la seconda della Liturgia delle Ore.
Le sfide davanti a cui si trovano i traduttori sono molteplici e non sempre facili da far convergere. Nel valutare il lavoro compiuto, è indispensabile tener presenti i diversi fattori con cui essi hanno dovuto fare i conti: il rigoroso rapporto con i testi originali (in ebraico, in greco e in latino); i termini-chiave acquisiti nel linguaggio cristiano; le esigenze tipiche della pratica liturgica; la tradizione catechetica e teologica del mondo italiano; il traguardo di una lingua italiana comunicativa, media ma non banale, di livello accettabile ma non sciatta, se possibile non priva di una certa quale bellezza; una fluidità di eloquio che consenta una buona leggibilità e cantabilità. È quindi arduo raggiungere un amalgama equilibrato, sempre impeccabile, senza svarioni o cadute di stile.
Le annotazioni del prof. Coletti sono tutte puntuali e centrate. Su diversi punti vi sono state, e permangono, tensioni e incertezze. La discussione rimane aperta e non può che portare a ripensare le soluzioni adottate, per un continuo miglioramento dei testi.
P. Eugenio Costa S. J.
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