L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
Scrivo queste pagine mentre i telegiornali rilanciano il 58° Rapporto Censis, dal quale apprendiamo che il 30% degli italiani non sa chi è Mazzini, il 32% afferma che la Cappella Sistina è stata dipinta da Giotto o da Leonardo, e non tutti sono convinti che Dante abbia scritto la Divina Commedia. Dunque “gli italiani sono ignoranti”: constatazione che fa serie con “gli studenti non capiscono quello che leggono”, come ci ripetono ogni anno tanto le rilevazioni nazionali Invalsi quanto le rilevazioni internazionali Ocse-Pisa; e con “gli studenti non sanno l’italiano”, come denunciava sette anni fa la cosiddetta Lettera dei seicento (ma vedi risposta di M.G. Lo Duca), con tutta la polemica scaturitane, dalle vaste implicazioni ideologiche, sociologiche, politiche e linguistiche.
Qui mi limito invece a toccare un argomento scolastico molto circoscritto: cioè se la grammatica che “si fa” – o forse “non si fa” – nella scuola secondaria abbia o non abbia conseguenze sulla migliore o peggiore comprensione dei testi: abilità, quest’ultima (Reading literacy), senza alcun dubbio di capitale importanza nei sistemi educativi di tutto il mondo.
Il tema è limitato, ma è un tassello tutt’altro che irrilevante di una questione educativa e sociale di ampia portata e, comunque la si valuti, piuttosto grave. Tutt’altro che irrilevante, perché sull’analfabetismo di ritorno agiscono tutti i fattori sociologici che conosciamo a iosa, ma conterà anche qualcosa come vengano spese le due o tre ore di scuola dedicate alla lingua, sulle sei complessive riservate all’“Italiano”, ogni settimana, da due milioni e mezzo di adolescenti nel pieno del loro sviluppo intellettuale, e replicate per tre anni (alle medie) più due (al biennio) della loro vita. Si tratta di una montagna di tempo e di energie, degli adolescenti e dei loro insegnanti. Se tutto questo tempo e tutte queste energie vengono messi a frutto meglio o peggio può fare una bella differenza, per la vita futura degli studenti e per la frustrazione o soddisfazione degli insegnanti.
Le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, varate dal MIUR nel 2012, non danno tanta importanza alla grammatica, né in generale né in particolare per servire a comprendere i testi. Mettono giustamente in primo piano, nelle finalità dell’educazione linguistica, le “quattro abilità” – saper ascoltare, saper parlare, saper leggere, saper scrivere – che la scuola deve far acquisire agli studenti, all’insegna dell’inclusione sociale e della cittadinanza consapevole. Sulla grammatica, invece, nelle Indicazioni nazionali arriva l’onda lunga di una svalutazione iniziata cinquant’anni fa. Gli “Obiettivi di apprendimento al termine della classe terza della scuola secondaria di primo grado” (pp. 34-36), dopo aver elencato tutti gli obiettivi relativi ad “Ascolto e parlato”, “Lettura”, “Scrittura”, “Acquisizione ed espansione del lessico ricettivo e produttivo”, da ultimo arrivano a “Elementi di grammatica esplicita e riflessione sugli usi della lingua”. E qui sono elencati dieci obiettivi, evidentemente in ordine di importanza, il primo dei quali è “Riconoscere ed esemplificare casi di variabilità della lingua”, seguito da altri obiettivi pure afferenti ai vari ambiti d’uso della lingua e ai vari tipi di testo, oltre che alla struttura del lessico, finché solo al sesto posto, a poche righe dalla fine del capitolo “Obiettivi”, compare “Riconoscere l’organizzazione logico-sintattica della frase semplice”.
L’interesse per i traguardi e gli obiettivi dati come prioritari ha preso un po’ la mano agli estensori delle Indicazioni, e li ha indotti a magnificare gli uni e gli altri in termini non molto realistici. Chi legga le pp. 34-36 delle Indicazioni converrà che una percentuale molto piccola della popolazione italiana adulta sa fare anche solo una parte di tutte le cose che queste e questi quattordicenni dovrebbero saper fare alla fine della terza media: dall’Ascolto e parlato (“Narrare esperienze, eventi, trame selezionando informazioni significative in base allo scopo, ordinandole in base a un criterio logico-cronologico, esplicitandole in modo chiaro ed esauriente e usando un registro adeguato all’argomento e alla situazione”) alla Lettura (“Leggere testi letterari di vario tipo e forma (racconti, novelle, romanzi, poesie, commedie) individuando tema principale e intenzioni comunicative dell’autore; personaggi, loro caratteristiche, ruoli, relazioni e motivazione delle loro azioni; ambientazione spaziale e temporale; genere di appartenenza”), alla Scrittura (“Scrivere testi di forma diversa (ad es. istruzioni per l’uso, lettere private e pubbliche, diari personali e di bordo, dialoghi, articoli di cronaca, recensioni, commenti, argomentazioni) sulla base di modelli sperimentati, adeguandoli a situazione, argomento, scopo, destinatario, e selezionando il registro più adeguato”). E queste sono solo un assaggio di tutte le competenze elencate.
Viceversa, le competenze grammaticali sono poca cosa. Dopo “Riconoscere l’organizzazione logico-sintattica della frase semplice”, visto sopra, e prima di “Riconoscere in un testo le parti del discorso, o categorie lessicali, e i loro tratti grammaticali” (all’ottavo posto: ma non era più logico metterlo prima?), al settimo posto c’è “Riconoscere la struttura e la gerarchia logico-sintattica della frase complessa almeno a un primo grado di subordinazione”. Cioè possiamo immaginare un’insegnante o un insegnante delle medie che dice alla classe: “Prendiamo la frase Ha detto che ci va perché ne ha voglia. Ragazzi, perché ne ha voglia è troppo difficile per voi: questo lo studierete alle superiori”. Evidentemente, le Indicazioni nazionali assumono che anche se non sanno riconoscere frasi subordinate ardue come perché ne ha voglia i ragazzi di terza media saranno capaci di “padroneggiare e applicare in situazioni diverse le conoscenze fondamentali relative al lessico, alla morfologia, all’organizzazione logico-sintattica della frase semplice e complessa, ai connettivi testuali; utilizzare le conoscenze metalinguistiche per comprendere con maggior precisione i significati dei testi e per correggere i propri scritti” (p. 34), ecc. ecc.
Rileggendo quanto ho scritto finora sento il bisogno di dire subito, a scanso di equivoci, una cosa, che riprenderò meglio alla fine: non sono affatto un laudator temporis acti. Andiamo avanti.
Per verificare se le competenze morfologiche, sintattiche e attinenti alla linguistica del testo siano più o meno utili a comprendere testi, le prove Invalsi ci mettono a disposizione un materiale eccellente, cioè le 349 domande, molto ben strutturate, relative alla “Comprensione del testo” alla fine della secondaria di primo grado, e le 381 alla fine del primo biennio della secondaria di secondo grado, erogate a circa mezzo milione di studenti delle medie e altrettanti del biennio ogni anno fra il 2010 e il 2017. Il tutto consultabile nel portale Gestinv 3.0. Archivio interattivo delle prove Invalsi.
Per fare un’indagine abbastanza contenuta sulle domande delle medie, ho selezionato tre campioni, di una trentina circa di domande ciascuno, in base alle percentuali di successo nelle risposte: a un estremo quelle che hanno ottenuto più del 90% di risposte corrette; all’estremo opposto quelle che hanno ottenuto meno del 50% di risposte corrette; e in posizione intermedia quelle che hanno ottenuto fra il 65 e il 70% di risposte corrette. Sono tre campioni che ciascuno può ricreare nel portale Gestinv > Prove di Italiano > Ricerca guidata, selezionando Grado = 08 (cioè 8 anni di scolarità = 3a media); poi Tipologia sezione = Comprensione del testo; poi Perc. risposte corrette > 90, ovvero > 65 e < 70, ovvero < 50.
Ho classificato le 87 domande così ottenute in funzione del fatto che, per rispondere correttamente: A) non fosse necessaria nessuna particolare competenza metalinguistica; B) fosse necessaria una competenza lessicale; C) fosse necessaria una competenza morfologica, sintattica e/o linguistico-testuale. Naturalmente la classificazione in A, B o C ha un margine di soggettività; ma non, credo, un margine ampio, come chiunque può verificare, o falsificare, rifacendo da sé l’esperimento.
Così, incrociando le tre fasce per percentuale di successo con le tre colonne per tipo di competenza, ho ottenuto una tabella a 9 caselle, che a me risulta popolata con questi numeri:
La distribuzione dei valori nella tabella è talmente sbilanciata che ci basterà la sua auto-evidenza. Ma se, per scrupolo, richiedessimo una conferma statistica, il test del Chi-quadro ci direbbe che questa distribuzione ha una probabilità di essersi prodotta per caso molto inferiore a una su mille. Dunque deve esistere una ragione che spieghi perché si è prodotta.
E la ragione è che le competenze metalinguistiche, e in particolare grammaticali in senso lato, discriminano molto la popolazione studentesca: le domande a cui praticamente tutti gli studenti sanno rispondere sono tutte domande che non richiedono nessuna competenza metalinguistica. Ma chi si trova in questa condizione deve accontentarsi di cogliere solo ciò che il testo dice esplicitamente, direttamente e a chiare lettere, anzi a lettere cubitali. All’opposto, le domande a cui pochi studenti (addirittura meno della metà) sanno rispondere sono in grande maggioranza domande che richiedono competenze metalinguistiche, e in particolare grammaticali in senso lato. In altre parole, la mancanza o scarsità di competenze metalinguistiche limita drasticamente la capacità di comprendere i testi in modo preciso e approfondito, di cogliere informazione implicita, di trarre inferenze, di focalizzare quale sia l’intenzione comunicativa. E con ciò, possiamo dire, limita drasticamente la possibilità di godere di cittadinanza linguistica piena.
Ma gli esempi faranno percepire meglio. Di ciascuno do, tra parentesi, la percentuale esatta di risposte corrette: che da sola basta a ritrovare l’esempio nel corpus consultabile online, per chi desideri farsi la propria idea direttamente sui dati. Chi invece vuole esimersi dalla documentazione minuta può saltare alla pagina successiva.
Competenze lessicali
Casella II.B. 1) Scegliere l’espressione equivalente al rumorino di cui parla il racconto (66,9%). 2) Scegliere l’espressione equivalente all’espressione intero sensato del racconto (69,6%). 3) Scegliere l’espressione equivalente alla frase L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci del racconto (69,5%). 4) Significato dell’aggettivo facoltoso usato nel racconto (69%). 5) Significato dell’espressione barcolliamo usata in senso figurato (69,1%). 6) Scegliere l’aggettivo che definisce un racconto in cui, come in questo, “io narrante” e autore sono la stessa persona (autobiografico) (69,2%). 7) Scegliere quali frasi del testo hanno una funzione regolativa (67,5%).
Casella III.B. 1) Trovare nel racconto due sinonimi di destino (Sorte e Fato) (32%). 2) Riconoscere due sinonimi fra i quattro aggettivi presenti nel racconto arguto, gioviale, estatico e rapito (36%). 3) Significato dell’espressione torva spazzola rossa del testo (40,4%). 4) Significato della coppia di aggettivi rustica ma linda attribuita alla cucina dove avviene l’incontro descritto dal racconto (44,8%). 5) Spiegazione della definizione della pubblicità come ossigeno del capitalismo (significato figurato di ossigeno) (46,4%). 6) Perché l’ora legale si chiama così? (47,7%).
Competenze morfologiche, sintattiche e/o linguistico-testuali
Casella II.C. 1) Scegliere l’espressione equivalente al participio adattatisi nell’espressione adattatisi a ruoli molto particolari al r. 5 del testo (possibili valori delle frasi participiali) (67,1%). 2) Rispondere a una domanda che implica aver capito esattamente il significato, veicolato dalla sintassi, di un capoverso costituito da due frasi complesse (67%). 3) Rispondere a una domanda che implica aver capito esattamente il significato, veicolato dalla sintassi, di un capoverso costituito da tre frasi complesse (66,9%). 4) Significato del connettivo mentre al r. 19 del testo (69,6%). 5) Giudicare se sono vere o false, sulla base del testo espositivo e della relativa illustrazione, otto affermazioni (capacità di gestire informazione combinata testuale e grafica) (68,3%). 6) Abbinare 4 titoli ai 4 capoversi del testo, rispettandone la successione logico-cronologica (68,6%). 7) Scegliere tra 4 frasi quale definisce le caratteristiche del racconto in esame (65,5%).
Casella III.C. 1) Esempio molto significativo. È richiesto di individuare le tre parti, “corrispondenti a momenti diversi della vita del protagonista”, nelle quali è suddiviso il racconto (le tre parti sono di per sé facilmente individuabili). Con l’aggiunta: “Ciascuna parte si distingue anche per l’uso di un tempo verbale prevalente: indica quale”. I tre tempi sono, con grandissima evidenza, imperfetto, passato remoto e presente, e la loro successione esemplifica perfettamente i valori aspettuali di imperfetto, tempo dello sfondo, e passato remoto, tempo degli eventi, costitutivi dei testi narrativi. Ma sembra che l’ulteriore indizio non abbia facilitato, bensì reso più difficile, la risposta (impressionante la percentuale di risposte corrette: 12,24%). 2) Individuare i rapporti logici in sequenze di affermazione - obiezione - risposta alla obiezione (capacità di padroneggiare meccanismi argomentativi che implicano l’adeguata comprensione di una serie di frasi) (37,8%). 3) Individuare l’antecedente di ne nella frase nel contempo non ne ha stimolato… al rigo 8 del testo (39,7%). 4) Scegliere quale di 3 frasi spiega perché le piante tropicali sono sempreverdi sulla base dell’informazione veicolata dalla frase complessa dei righi 6-11 (43,7%). 5) Scegliere quale di 3 frasi individua a che momento del passato si riferisce l’espressione fino all’altro ieri (rigo 5), il che implica l’esatta comprensione del significato della frase complessa dei righi 5-8 (47,2%). 6) Scegliere quale di 4 frasi spiega perché una decisione del New York Times è definita saggia (rigo 12), il che implica l’esatta comprensione della gerarchia e dei rapporti logici fra le tre frasi dei righi 10-15 (48,3%). 7) Individuare il tempo verbale (l’imperfetto) che il testo usa per narrare di “situazioni e fatti che si ripetono più volte nel passato” (48,8%). 8) Dire se il protagonista del racconto e chi l’ha scritto sono la stessa persona, il che richiede una pur minima attitudine ad accorgersi di segnali testuali evidenti (abbastanza impressionante la percentuale di risposte corrette, 25,2%, visto che il protagonista è un ragazzo algerino e l’autrice che si firma è una donna italiana). 9) Domanda di carattere interpretativo che richiede di aver capito l’intenzione comunicativa implicita del narratore (31,6%). 10) Domanda che richiede capacità di interpretare congiuntamente testo e grafica di un testo espositivo (35,5%). 11) Collocare quattro sintagmi nominali, che identificano quattro fenomeni attinenti allo sviluppo demografico, al punto giusto in uno schema che visualizza le relazioni logiche che li collegano (35,8%). 12) In un testo espositivo corredato da illustrazione sul confronto fra lettura a stampa e digitale, abbinare correttamente operazioni mentali e corrispondenti caratteristiche del libro cartaceo (36,3%). 13) Scegliere tra quattro frasi quella che definisce la finalità comunicativa del narratore (39%). 14) Trovare nel testo espositivo la frase che risponde alla domanda che il testo si poneva all’inizio (non sorprendentemente, è l’ultima frase del testo) (45,4%). 15) Completare con le parole appropriate tre frasi che dichiarano punti di vista diversi sul confronto fra lettura a stampa e digitale (49%). 16) Individuare, sulla base di precisi indizi, a quale anno del ginnasio-liceo si colloca il protagonista-narratore del racconto (42%).
Conclusione, dal mio punto di vista. Sono convinto che le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL (1975) avessero ragione a criticare severamente la “pedagogia linguistica tradizionale”, cioè la grammatica che si insegnava allora a scuola. Ed era anche molto difficile, allora e diciamo nei venti anni successivi, individuare un paradigma grammaticale sostitutivo e riuscire a farlo accettare dal mercato scolastico, come alcuni tentarono generosamente di fare senza successo. Ma il risultato di questa lunga storia è che la grammatica scolastica, per quanto migliorata nella capacità di descrivere finemente la norma e l’uso, è rimasta immutata – a parte limitate iniezioni di grammatica valenziale – nell’impostazione teorica sottostante, cioè nella obsoleta routine di analisi grammaticale, analisi logica, analisi del periodo, e annesse inerti tassonomie. Appunto il tipo di grammatica che non serve granché a capire i testi. E le parti aggiuntive al corpo centrale della grammatica (comunicazione, quattro abilità, varietà della lingua, ecc.), che all’inizio si erano prese il 40% dei manuali (rendendoli ipertrofici, perché la grammatica non era dimagrita), negli ultimi anni si stanno riducendo a zero. Cioè, dopo cinquant’anni, l’educazione linguistica, nei manuali, torna a identificarsi totalmente nella grammatica, che nell’impianto teorico è la stessa di allora. Noi docenti universitari di Linguistica italiana abbiamo la responsabilità di non aver insegnato ai futuri insegnanti istituzioni di grammatica italiana scientificamente aggiornate. Sarebbe ora, finalmente, che riuscissimo a mettere a loro disposizione uno strumento didattico che rendesse possibile fare le cose fondamentali che andrebbero fatte a scuola, come la linguistica moderna ci ha insegnato da almeno trent’anni, e che costituirebbero anche l’introduzione ottimale alla comprensione dei testi. E cioè, in discontinuità con il conformismo mimetico dell’editoria scolastica, analizzare la frase in sintagmi (davvero, non per finta), distinguere il livello sintattico dal livello semantico e dal livello informativo, riconoscere la struttura argomentale non solo dei verbi, far vedere cosa è la deissi, ecc. ecc. Il tutto partendo, come nessun manuale ha mai fatto, dalla competenza nativa degli studenti, dalla lingua italiana funzionante nelle loro menti, facendoli passare davvero dalla “grammatica implicita” alla “grammatica esplicita”, cosa che le Indicazioni nazionali raccomandano agli insegnanti di fare (p. 30) senza dare loro la minima indicazione su come farlo.
Se riuscissimo a fare questo avremmo finalmente voltato pagina.
L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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Commento di chiusura di Mirko Tavoni
Ringrazio i numerosi autorevoli intervenuti, che confermano quanto il tema sia sentito, ricco e variegato – e con ciò rendono difficile una sintesi conclusiva. Vado subito all’essenziale.
L’essenziale è: che cosa possiamo fare oggi di fronte al fatto che il sistema scolastico lascia una percentuale inaccettabile di giovani nella condizione di non capire, se non a un livello troppo superficiale, un testo di media complessità scritto in italiano standard? Né un testo informativo né un testo argomentativo né un testo narrativo né di qualunque altro tipo. Una percentuale inaccettabile in termini etici, di dovuto rispetto per i giovani che abbiamo la responsabilità di formare, di mancata mobilità sociale, di qualità della democrazia, di spreco di capitale umano e di freno a mano tirato a danno dello sviluppo, o meglio del progresso, in tutti i sensi possibili, del paese.
Comprendere in modo approfondito un testo di media complessità in italiano standard, infatti, non è una “prestazione di diretta utilità applicativa subito spendibile in pratica”. È piuttosto il coronamento dello scopo profondo e globale di tutta l’educazione linguistica, che certo deve sviluppare altrettanto il saper ascoltare e il saper parlare: ma una verifica intelligente, com’è quella dell’Invalsi (come confermano Cristiana De Santis e Maria Pia Lo Duca), operata ogni anno sulla totalità degli studenti italiani di vari gradi scolastici, del loro sapere o non saper leggere, ci dice già moltissimo sul successo o l’insuccesso di anni e anni di scuola.
La domanda che mi ponevo nel titolo – se la competenza grammaticale serva alla comprensione dei testi – non è affatto ovvia. Infatti: a) il movimento dell’educazione linguistica democratica, il cui spirito è stato recepito dalle indicazioni ministeriali dal 1979 a oggi, ha svalutato l’utilità della grammatica tradizionale, senza peraltro proporne una migliore, ai fini dello sviluppo delle abilità linguistiche; b) all’opposto, l’intera manualistica scolastica dedica amplissimo spazio alla grammatica tradizionale; e presumibilmente la grande maggioranza dei docenti, non lambita dal movimento dell’educazione linguistica democratica, seguendo i manuali vi dedica del tempo, anche se forse con scarsa convinzione: e con quanto costrutto? c) diversi linguisti avveduti, pur convinti (come sono anch’io) dell’importantissima potenzialità formativa che avrebbe una grammatica “intelligente”, sono al tempo stesso scettici sulla sua utilità per potenziare le abilità linguistiche.
Alla domanda del titolo ho risposto affermativamente sulla base di un campione di domande Invalsi sulla comprensione del testo. Le risposte, infatti, mi hanno convinto che non si può capire puntualmente una testualità abbastanza complessa (né si può arrivare a produrne di altrettanto complesse) se non si è acquisita una consapevolezza esplicita del valore, o meglio dei valori, delle strutture sintattiche.
Sono felice che commenti autorevolissimi – dall’Italia e dall’estero, dall’università e dalla scuola – abbiano condiviso appieno questa convinzione. In particolare, mi riconosco perfettamente nelle parole di Michele Prandi: da una parte “la grammatica ha un valore formativo paragonabile a quello della matematica, delle scienze o della musica”; dall’altra “lo studio della grammatica aiuta il parlante a raggiungere la consapevolezza di ciò che fa per diventare un soggetto responsabile”, sia sul piano delle regole sia ancor più sul piano delle scelte: qui “la consapevolezza non è dispensabile: una scelta non consapevole della posta in gioco non è una scelta ma una routine più o meno riuscita”.
E quale grammatica è più adatta a sviluppare la consapevolezza, ovvero la competenza metalinguistica, suddetta? Su questo punto cruciale la discussione ha prodotto un risultato nuovo, originale e a mio giudizio decisivo, cioè la convergenza fra due massimi studiosi di sintassi e didattica: Giorgio Graffi, di larga e aperta ispirazione generativista, e il già citato Michele Prandi, che nel suo progetto comprensivo di grammatica accoglie la teoria della valenza. Il primo ha manifestato la convinzione, raggiunta “con l'aiuto dell'indimenticabile Adriano Colombo”, che “bisogna adottare una prospettiva ‘ragionevolmente eclettica’, che quindi unisca nozioni di grammatica valenziale ad altre di grammatica generativa… con un'imprescindibile attenzione anche al testo”. Il secondo “che i tempi siano davvero maturi per superare gli steccati tra le scuole che hanno caratterizzato il Novecento e per accogliere dai diversi approcci ciò che sono in grado di offrire, collocando i risultati duraturi di ciascuno all’interno dei suoi limiti di competenza in un progetto unitario e inclusivo… La sintassi della frase semplice nasce dal contributo congiunto della grammatica generativa e della teoria della valenza”, e su su fino alla dettagliata prospettiva di come “lo studio delle frasi complesse non argomentali offre una via d’accesso intuitiva e preziosa allo studio del testo”, ecc.
Non mi stupisco che Alvise Andreose, filologo romanzo e grammatico illuminato come il suo maestro Lorenzo Renzi, approvi in pieno questa convergente linea di pensiero.
Sono stato criticato, anche qui, e prima nella discussione seguita al mio articolo La grammatica a scuola serve? pubblicato a settembre nella rivista online il Mulino, per non aver citato illustri grammatiche scolastiche degli anni Ottanta e Novanta. A parte l’espressione “senza bisogno di fare terra bruciata”, priva di senso, mi sfugge la logica di questa critica. Non ho citato nessuna delle grammatiche che conosco e studio da molti anni perché non avevo a disposizione 50 pagine per storicizzare le grammatiche scolastiche e il movimento dell’educazione linguistica democratica dal 1975 a oggi, ma 5 pagine per porre il tema del mese, del mese di dicembre 2024, oggi: e cioè il fatto che oggi gli studenti capiscono così poco sia la struttura delle frasi sia i significati dei testi.
Per ironia, una delle grammatiche innovative che avrei occultato sarebbe la mia L’italiano di oggi. Educazione linguistica & grammatica, Le Monnier 1999, che attraversò il firmamento scolastico come una meteora, rivaleggiando in velocità con quelle di Adriano Colombo (Pensare le parole, Bruno Mondadori 1988) e di Maria G. Lo Duca – Rosaria Solarino (La città delle parole. Grammatica italiana per il biennio, La Nuova Italia 1990). Donatella Lovison, colonna del Giscel Veneto, la descrive così (bontà sua): “Dal 1999 in poi ho avuto un valido strumento di consultazione e di appoggio alla mia attività didattica nel manuale per la scuola media (si chiamava così) L’italiano di oggi di Mirko Tavoni. A me è sembrato di trovarvi tutto il necessario per insegnare la grammatica secondo i principi del Giscel e secondo la prospettiva sostenuta da Colombo stesso, da Lorenzo Renzi, da Maria Pia Lo Duca, da Cettina Solarino, da Valter Deon ecc. di una grammatica ragionevole, una grammatica per l’intelligenza, basata su conoscenze tratte da modelli diversi, da quello valenziale a quello generativo, passando per qualche criterio nozionale e usando anche classificazioni legate alla grammatica tradizionale”.
Comunque, quando qualcuno scriverà la storia dell’educazione linguistica, non potrà certo mettere Maria Luisa Altieri Biagi fra i simpatizzanti delle Dieci Tesi: “Non ho fatto parte in passato (quando ciò era produttivo di facile popolarità e di credibilità ‘ideologica’) delle squadre di assalto alla ‘grammatica’, anche se condividevo largamente le critiche al modo in cui si faceva grammatica nella scuola… Oggi che il fiume trasporta i cadaveri di a-grammaticalisti, di anti-grammaticalisti, di ‘spontaneisti’ ecc. dovrei stare sulla riva del fiume a vederli passare; ma è uno spettacolo che non mi dà alcuna soddisfazione”, ecc. (in Italiano lingua selvaggia, numero monografico di “Sigma. Rivista di letteratura” promosso da Gian Luigi Beccaria, XVIII/1-2, 1985, pp. 99-102).
Non ho citato nessuna grammatica scolastica anche perché non intendevo minimamente esprimere opinioni sull’una o sull’altra, né impigliarmi nella discussione di dettagli. Ma Vittorio Coletti mi richiama alla proposta di grammatica valenziale che un altro maestro, Francesco Sabatini, porta avanti da quattro decenni, e quindi non posso non rispondere. Che la struttura argomentale dei verbi, pur importantissima, non sia la chiave di volta della sintassi della frase, lo ha scritto qui ben più autorevolmente di me Michele Prandi: “Dalla grammatica generativa, che a sua volta eredita e completa la tradizione distribuzionale, il modello che propongo prende l’analisi in costituenti immediati – il sintagma nominale con funzione di soggetto e il sintagma verbale con funzione di predicato – che razionalizza la partizione tradizionale in soggetto e predicato, e le nozioni di sintagma, di costituente e di gerarchia”. Da Prandi apprendiamo inoltre che è meglio parlare di “teoria della valenza” che di “grammatica valenziale” – differenza non da poco. Quanto mai opportuno anche il riferimento alla “tradizione distribuzionale”: i sintagmi non li ha introdotti nella linguistica mondiale Chomsky, ma Bloomfield (Language, 1933), e prevedo che compiranno il loro primo secolo di vita prima di entrare (senza essere svuotati di senso) nelle grammatiche scolastiche italiane. Quanto agli “schemi radiali”, sì, sono d’accordo con le critiche di Colombo-Graffi (Capire la grammatica. Il contributo della linguistica, Carocci 2017, pp. 183-185) e di Emilia Calaresu (2019): ritengo anch’io che la nozione martinettiana di “frase minima” non sia la più indicata (litote) per muovere dalle intuizioni linguistiche del parlante per farle evolvere. Perché il parlante, se vuol dire che la casa di sua zia è andata a fuoco, se ha in testa questo referente, ha in testa tutto il sintagma che lo designa, e non viene particolarmente illuminato quando lo informiamo che la casa fa parte della frase minima, di mia zia no, come se lui avesse pensato prima la casa e poi, per rifinire l’informazione con una specificazione di qualche utilità, anche se non necessaria, avesse pensato di aggiungere di mia zia. Coerentemente, l’analisi logica che continuiamo a propinare dice che il soggetto della frase è la casa e basta, e non la casa di mia zia come ovviamente è.
Tornando all’oggi, dice benissimo Graffi che “è necessario superare la contrapposizione tra ‘scuole’ accennata prima, e soprattutto la scomunica contro la grammatica generativa, che in passato ho sentito emanare da studiosi anche illustri e seriamente impegnati nel campo dell'educazione linguistica. Non sarà forse questa scomunica ad aver ostacolato la diffusione della Grande grammatica italiana di consultazione curata da Renzi, Salvi e Cardinaletti tra molti insegnanti seriamente motivati?”. Quest’opera, pubblicata fra il 1988 e il 1995 e definita da Giulio Lepschy “una pietra miliare nello studio della grammatica italiana”, conteneva e contiene una miniera di idee illuminanti, che già trent’anni fa avrebbero potuto sostanziare il programma di partire dalla “grammatica implicita” per farla evolvere in “grammatica esplicita”.
È stata un’occasione persa ̶ finora. Per responsabilità di chi? Be’, certamente anche per precisa scelta intellettuale dei linguisti in primissima fila nel movimento dell’educazione linguistica democratica. Questa è una verità evidente, un dato di fatto, e non capisco perché i militanti storici del movimento non vogliano sentirlo dire. Ma soprattutto è per responsabilità di tutti noi linguisti italiani, cioè storici della lingua, che non abbiamo mai voluto uscire dalla comfort zone della nostra formazione, mentalità e strumentazione professionale storico-filologica, e spingerci a curiosare se fuori da questo perimetro non ci fosse qualcosa magari di molto interessante con cui far interagire il nostro modo abituale (certo sempre fondamentale) di vedere le cose.
Stefano Gensini “dubita che le difficoltà dell’insegnamento grammaticale possano essere isolate da un quadro più generale”: p.es., cito, dal fatto che l’analfabetismo funzionale nel 2012 dilagava fra gli adulti, e più al Sud e nelle Isole che al Nord; che la scuola è bistrattata, screditata, malpagata e iperburocratizzata; che le biblioteche e i centri di lettura sono precari e inesistenti; e che il mezzo televisivo ha una gestione da terzo mondo. Tutte cose generiche e fuori dalla nostra portata e responsabiità. E sull’insegnamento grammaticale, che invece è interamente alla nostra portata e sotto la nostra responsabilità, abbiamo qualcosa da dire, qualcosa di preciso? A quanto pare no, niente.
Il mio vivo ringraziamento va a Bernhard Huss, Gerda Hassler e Letizia Lala, che hanno inviato i loro commenti dall’estero, tutti in sintonia con l’urgenza di rilanciare scientificamente la grammatica a scuola. Letizia Lala dall’importantissimo centro di linguistica testuale guidato da Angela Ferrari a Basilea. E, a proposito di Svizzera, la Repubblica e Cantone del Ticino ha pubblicato un ottimo “manuale di riflessione sulla lingua in prospettiva valenziale” (di 167 pagine! un quinto della paginazione dei manuali italiani): Per fare il punto, di Alessandra Moretti, Nicola Selvitella, Nicodemo Cannavò. Il comune interesse di Bernhard Huss e Gerda Hassler, illustri romanisti di Berlino e Potsdam, mi fa pensare quanto potrebbe essere istruttiva una ricerca comparativa sull’insegnamento della L1 nei paesi dell’Unione Europea.
A questo proposito, segnalo la tesi di dottorato di Jimmy H.M. van Rijt, Understanding Grammar. The Impact of Linguistic Metaconcepts on L1 Grammar Education (2021), con ampia bibliografia soprattutto di area anglofona e germanofona, dalla quale si evince che “grammar or knowledge about language more broadly has (once again) taken up a central position in L1 language education, sometimes after years of (partial) absence from the curriculum” (p. 10).
Infine, il ringraziamento più sentito a Carmen Quadri e Federica Gara, le due docenti di scuola che sono intervenute con commenti. La seconda testimonia, sulla base della sua più che trentennale esperienza di insegnamento, che una precisa consapevolezza sintattica è necessaria per comprendere e comporre testi adeguati. E la prima affianca alla necessità il fascino, testimoniando che la grammatica “per così dire profonda della lingua… è uno degli aspetti che più affascinano e appassionano” i suoi studenti.
Gli insegnanti bravi, nei quali dobbiamo riporre tutte le nostre speranze, non vogliono sentirsi dire che se la scuola va come va non è colpa loro. Vogliono avere strumenti avanzati che li mettano in condizione di ricavare soddisfazione dal lavoro che hanno scelto. Strumenti che, per funzionare, devono mettere a loro disposizione il meglio della grammatica scientifica, e al tempo stesso rimediare al fatto che, colpevolmente, non glielo abbiamo insegnato quando avremmo dovuto, cioè quando erano studenti universitari.
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In zona Cesarini, mi inserisco in questo dibattito ispirato dallo stimolante intervento di Mirko Tavoni. Molto, forse tutto, è già stato detto. Mi limiterò ad aggiungere alcune considerazioni basate sulla mia esperienza professionale come professore nei licei e docente universitario.
Un dato che mi colpisce nella mia attività di formazione degli insegnanti è che, quando vado ad affrontare il tema delicato dell’insegnamento grammaticale, non pochi si mettono sulla difensiva, rifiutando di mettere in discussione le proprie conoscenze tradizionali, spesso risalenti ai tempi della scuola media, per ragionare sulla lingua tramite categorie concettuali meno vaghe e arbitrarie. Quali siano le ragioni del conservatorismo (o conservativismo) di certi insegnanti e aspiranti tali faccio fatica a capire. Certo, la componente nostalgica ha il suo peso. Un altro ostacolo è rappresentato dalla difficoltà di accettare l’idea che la lingua non sia così semplice ed elementare come la rappresenta la ‘buona vecchia’ grammatica scolastica, che, nonostante la pletora dei complementi, ci trasmette pur sempre l’idea rassicurante che sussista una corrispondenza esatta tra strutture del pensiero e strutture del linguaggio. La complessità della lingua, cerco di spiegare, richiede un apparato concettuale adeguato, che può essere semplificato solo entro certi limiti. Oltrepassarli significherebbe cadere nel semplicismo, ritornando al punto di partenza. (Parentesi. Qui emerge il grande problema della formazione universitaria dei futuri insegnanti. Chi andrà a insegnare la lingua italiana deve, a mio parere, sostenere almeno un esame di grammatica italiana, oltre a quelli di linguistica generale e italiana, di glottologia e sociolinguistica, di didattica dell’italiano e stilistica e metrica...)
Forse, la cosa più difficile da far capire a chi frequenta i corsi di formazione e i percorsi abilitanti per l’insegnamento è che l’armamentario grammaticale tradizionale non è utile a migliorare la capacità di decodificare i testi, né serve a potenziare le abilità espressive, nell’orale come nello scritto, di un parlante nativo (si veda sopra l’analisi di Tavoni). Nei miei corsi, comincio di solito consigliando la lettura di un libro di Laura Vanelli, uscito nel 2010 e oggi introvabile, in cui si prendono in esame alcune grammatiche di impostazione tradizionale per metterne in luce i limiti. Il volumetto mostra, partendo da esempi concreti, come un elemento caratteristico dell’approccio ‘scolastico’ sia il rilievo attribuito, nell’analisi della frase e dei suoi elementi costitutivi, ai criteri semantico-concettuali piuttosto che a criteri di tipo distribuzionale o morfologico. Un altro tratto tipico è quello di fornire definizioni spesso inadeguate sul piano descrittivo perché enunciano condizioni che non sono necessarie o non sono sufficienti a identificare in maniera univoca la categoria o la funzione che ambiscono a definire. Un’altra tendenza della grammatica scolastica è la sua natura essenzialmente nomenclatoria e classificatoria. Il suo difetto più macroscopico è l’inclinazione intrinseca a produrre analisi fini a se stesse o, nel migliore dei casi, finalizzate a fornire qualche rudimento per l’apprendimento delle lingue classiche, ma del tutto inadeguate a riflettere sulla lingua “vera”, quella dei testi.
Quando poi mi azzardo a dire che i nostri studenti (italofoni) possiedono già una grammatica implicita e che il compito dell’insegnante è principalmente quello di esplicitarla, colgo spesso un senso di smarrimento in molti dei presenti.
Passo ora alla pars construens. Mi riconosco in molti contributi di coloro che hanno partecipato al dibattito. Vorrei in particolar modo riprendere alcune parole di Michele Prandi, che rimarca come, grazie ai risultati conseguiti dalla ricerca linguistica della seconda metà del ‘900, «disponiamo degli strumenti concettuali per costruire una grammatica ragionevole, e quindi per porre le basi di un insegnamento ragionevole della grammatica nella scuola». Considerazioni pienamente condivisibili, tanto più che l’aggettivo «ragionevole», riferito alla grammatica, mi è particolarmente caro, perché mi ricorda un saggio pubblicato dal mio maestro, Lorenzo Renzi, che negli anni Settanta, forse in controtendenza rispetto a certe tendenze iconoclaste, proponeva di cercare una sintesi, appunto, ragionevole tra il metodo tradizionale e le modalità di analisi della lingua ispirate alla riflessione linguistica novecentesca: "Una grammatica ragionevole per l'insegnamento" in ‘Scienze del linguaggio ed educazione linguistica’, a cura di G. Berruto, Torino 1977. Il saggio è stato ripubblicato in una versione più breve nel 2009 (L. Renzi, ‘Le piccole strutture. Linguistica, poetica, letteratura’, Bologna).
Sottoscrivo, infine, l’idea di Giorgio Graffi secondo cui nell'insegnamento grammaticale «bisogna adottare una prospettiva "ragionevolmente eclettica", che quindi unisca nozioni di grammatica valenziale ad altre di grammatica generativa», nonché il suo invito a non demonizzare la grammatica generativa, che tanto ha contribuito all’avanzamento delle ricerche sulla sintassi. La difficoltà, in questo momento storico, mi sembra consista nell’individuare un nucleo di concetti e nozioni basilari, condivisi dalla maggioranza delle scuole linguistiche, che possano essere posti a fondamento dell’insegnamento grammaticale dell’italiano nelle scuole di ogni ordine e grado. Impresa improba, dirà qualcuno. Suggerisco di partire dai «capitoli centrali di un’ideale grammatica scolastica» proposti da Prandi. Se fossi il ministro, li inserirei subito nelle indicazioni nazionali. Inoltre, a spese del ministero, regalerei una copia della ‘Grande grammatica’ di Renzi, Salvi, Cardinaletti a tutti gli insegnanti di italiano del Regno…
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