Il presidente onorario dell'Accademia, Francesco Sabatini, apre un dibattito con i lettori sulle possibili ripercussioni della riforma riguardante i titoli di accesso alla Pubblica Amministrazione.
Settembre 2015
Nella legge di riforma della Pubblica Amministrazione (legge delega al governo, approvata definitivamente da Camera e Senato il 4 agosto del corrente anno, alla quale seguiranno i decreti attuativi) si incontrano enunciazioni che riguardano i requisiti culturali dei futuri aspiranti ai posti statali. Nell’art. 17, il comma d) stabilisce la «soppressione del requisito del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi»; il comma e) istituisce la «previsione dell’accertamento della conoscenza della lingua inglese e di altre lingue, quale requisito di partecipazione al concorso o titolo di merito valutabile dalle commissioni giudicatrici, secondo modalità definite dal bando anche in relazione ai posti da coprire».
Le considerazioni che seguono non vogliono affatto essere una semplice, ennesima tirata contro l’imposizione della lingua inglese. Qui intendiamo: rilevare gli effetti che produce l’accoppiamento delle due enunciazioni; segnalare altre garanzie che invece vengono del tutto ignorate; far conoscere scenari retrostanti a talune prescrizioni.
Annullando il «requisito del voto minimo di laurea» lo Stato disconosce tutto il lavoro che compiono la Scuola e l’Università, in Italia massicciamente di Stato. Sappiamo che entrambe le istituzioni funzionano, qua e là, piuttosto male e che le valutazioni in esse compiute possono essere poco attendibili: ma cancellarne del tutto il peso è un pessimo segnale, che va contro tutte le proclamazioni di impegno dei governi nel “migliorare la Scuola e l’Università”. Vi sono Paesi (Gran Bretagna; USA) in cui i titoli di studio sono rilasciati da istituzioni scolastiche di varia matrice e per questo hanno di per sé scarso valore legale; perciò in tali Paesi funziona una rete di “agenzie di accreditamento” che tarano il valore dei titoli. Ma in Italia i titoli di studio sono rilasciati, dallo Stato o da istituzioni riconosciute dallo Stato, “in nome della Repubblica Italiana”. Per giunta, sta entrando sempre più in vigore la pratica della “valutazione” di tutto il nostro sistema d’istruzione e di ricerca. Come si fa a disdire tutto ciò e a prefigurare un sistema dell’altro tipo?
E comunque, se s’intendesse introdurre un meccanismo del genere nei concorsi per entrare nella nostra Pubblica Amministrazione, la competenza primaria da sottoporre a verifica, e quindi da enunciare chiaramente fin dalla legge delega, dovrebbe essere la padronanza della lingua italiana, orale e scritta, nella misura adeguata al grado del posto a cui si aspira. Non solo come principio che s’impone automaticamente, ma come risposta alle ormai inveterate denunce del caos linguistico che pervade l’intero nostro apparato amministrativo e forense-giudiziario (le denunce vengono proprio dagli Ordini professionali e dalla Magistratura). Ebbene, di questo grave problema nessuna traccia nella freschissima legge di riforma della nostra PA. Eppure, il 21 gennaio 2010 fu consegnato al Presidente del Senato (allora Renato Schifani) un documento di giuristi e linguisti che illustrava anche questa specifica esigenza (documento pubblicato in varie sedi e anche nella “Crusca per voi”, num. 38, aprile 2009, pp. 1-8).
Va da sé che anche la conoscenza dell’inglese, di cui non vogliamo contestare affatto l’opportunità negli ambienti della Pubblica Amministrazione (con opportune gradazioni secondo i posti occupati), dovrebbe far parte del pacchetto di competenze assicurate dalla scuola e risultare nei certificati del curricolo scolastico: altrimenti, perché tanto sfoggio di prescrizioni ministeriali per allargare e potenziare questo studio in ogni ordine e grado di scuola e nelle Università?
È qui che affiora un dubbio, ispirato da altre situazioni analoghe. Non è un mistero il fatto che, accanto alle prescrizioni o martellanti suggestioni di dover correre a imparare sempre meglio l’inglese per far carriera, fiorisce una selva di corsi, di ogni tipo, che si propongono di far raggiungere questo scopo. Fenomeno fisiologico, certo, ma che diventa altro quando emerge la richiesta di una competenza “certificata” con attestati e diplomi di alta garanzia. È ben noto che le certificazioni costano molto, tanto più se vengono collegate alle garanzie che offrono i principi rigorosi delle grandi centrali estere e se comprendono soggiorni all’estero. È qui che ci si chiede: con le nuove norme per accedere ai posti di dipendente pubblico, lo Stato italiano toglie valore ai propri “certificati” (i diplomi scolastici e le lauree) per lasciare campo libero al mercato privato delle lingue, finendo per sottostare anche ai criteri di valutazione di centri di studio di altri Paesi? Si diventerà impiegato al catasto o alle ASL solo con il beneplacito di Cambridge? E, naturalmente, solo se avrai abbastanza soldi per pagarti “quel” corso e “quel” soggiorno all’estero. In tal caso, si tratta di una vera tassa, un’imposta indiretta (o “accisa”) accollata ai cittadini che non hanno mezzi finanziari di famiglia.
Per arginare le distorsioni sopra indicate, occorre dunque vigilare, ora, sui decreti attuativi della legge delega. Sia chiaro: l’insegnamento dell’inglese generalizzato è oggi una necessità nella nostra come in altre società. Ma non è l’unica misura da prendere: si ottimizzi l’istruzione scolastica su tutti i fronti disciplinari e sia data precedenza assoluta a una salda padronanza dell’italiano, ancor più se si è dipendenti dello Stato e se si esercitano professioni di largo interesse pubblico; si lasci spazio per lo studio di altre lingue oltre all’inglese, forse altrettanto utili agli individui in svariati casi (francese, tedesco, sloveno per territori di confine e aree bilingui; altre per i rapporti con comunità di lingua orientale ben presenti tra noi); per il miglioramento successivo di alcune competenze siano valorizzati comunque i servizi (meno costosi) dello Stato o interni alle istituzioni interessate.
Poiché l’eliminazione del requisito del voto minimo di laurea è indicazione vincolante già inserita nella legge delega, per rimediare al guasto già prodotto restano solo le strade ora indicate: battersi in tutti i modi per migliorare i percorsi di istruzione pubblica preuniversitaria e universitaria, per non trovarsi di fronte a una frana del sistema educativo istituzionale (senza illusioni su un più ampio ricorso a un presunto, e comunque costoso, miglior sistema privato); vigilare su leggi e decreti per non demandare (senza accorgersene) parti sempre maggiori di formazione a sistemi successivi di integrazione, con sempre nuove accise a carico del cittadino non abbiente.
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Intervento conclusivo di Francesco Sabatini
Ringrazio i 18 frequentatori del sito della nostra Accademia che sono intervenuti (fino al giorno 21 settembre) con commenti sull’argomento della legge delega del 4.8.2015, che nulla dice dei requisiti dei futuri dipendenti dello Stato in fatto di competenze linguistiche in italiano e prevede invece accertamenti della loro conoscenza dell’inglese. In larga maggioranza i loro commenti sono di pieno consenso alla mia critica di questo testo legislativo: un commento è di sostanziale dissenso, qualche altro sposta la questione su un altro piano.
Tra i pareri concordi ne distinguo subito due. Michele Gazzola dà forte rilievo a tutta la questione e insiste sul “cattivo esempio” offerto da quelle nostre istituzioni scolastiche e universitarie (peraltro private) che puntano a un’anglificazione integrale e rapida di tutti i corsi: in mancanza di una direttiva di politica linguistica a livello governativo, tali iniziative non possono che creare disparità sociali e confusione sul funzionamento della lingua nazionale. Questa disamina di Gazzola trova conferma puntuale nel commento di Marisa, «dipendente pubblica», che testimonia della grande sregolatezza linguistica delle carte che passano sotto i suoi occhi in ufficio, provenienti dall’interno o da uffici anche ministeriali, con la conseguente «immane fatica» per interpretarli e si dice anche disorientata dal parlato. Aggiungo io che le testimonianze del genere emergono dappertutto e per questo una legge che ci passa sopra tranquillamente va considerata una cattiva legge.
Fanno corona a questi due commenti altri 10 – di Massimo, Maria Carolina Campone, Aldo, Marco, Giancarlo, Tonia, Teresa (che in primo momento aveva frainteso il senso del mio titolo ironico), Serena, Agostino Venturini, Maria – che appoggiano il loro consenso anche a considerazioni su una generale tendenza al disordine nella nostra società e nella scuola. Massimo fa presente, in particolare, che in Messico, dove si trova da due anni, l’amministrazione pubblica pretende che il cittadino le si rivolga in spagnolo e non fa concessioni ad altre lingue. Serena segnala le condizioni particolarmente critiche della Campania, dove l’italiano a volte non sembra nemmeno una L2 (ma nel contempo Serena ritiene che si debba dare risalto ai dialetti).
Un commento di linea diversa è quello di Daniele Serra, che condivide «alcuni spunti» del mio commento e riconosce che il dipendente pubblico deve conoscere bene l’italiano, e andrebbe perciò esaminato in materia; ma sostiene che la correlazione con l’eliminazione del voto minimo di laurea non sussiste e che il conoscere bene l’inglese è un fattore decisivo: come si evince dalla situazione di un Paese come la Svezia (dove egli vive) nel quale l’inglese entra un po’ dappertutto e arricchisce la comunicazione. Si oppone direttamente a questa parte delle sue tesi Marco (di Trento), che ritiene improponibile il confronto tra l’Italia e la Svezia, per le dimensioni diverse dei due Paesi, e comunque ritiene in decadenza, per effetto della penetrazione dell’inglese, la lingua svedese (come accadrebbe anche in Olanda per l’olandese). Per parte mia osservo che il caso di Paesi con molto minore numero di abitanti (rispetto a noi), le cui lingue sono pochissimo note fuori del territorio nazionale, non è direttamente comparabile con il caso italiano e che, comunque, proprio in quei Paesi il livello di istruzione, e di padronanza della lingua nazionale, è ben più elevato che da noi. In sintesi, noi dobbiamo ancora far bene affermare l’italiano in casa! Questo, però, non vuol dire che non si debba promuovere al più presto in Italia anche una buona conoscenza dell’inglese. A questo proposito, il commentatore propone che, per evitare sperequazioni tra chi ha mezzi e chi non li ha per studiare ulteriormente l’inglese, lo Stato dovrebbe predisporre molte forme di aiuto diretto. Osservo subito che di un aiuto del genere ci sarebbe bisogno altrettanto … per l’italiano (vedi anche l’osservazione di Serena Vultaggio, di cui più avanti).
Quanto alla correlazione tra la conoscenza dell’italiano e il voto di laurea (ritenuta incongrua da Daniele e svalutata anche da Antonio), nonostante l’evidente (e già da me segnalata) poca affidabilità dei voti di laurea attribuiti dalle nostre Università, osservo che il principio di massima di riconoscere una qualche differenza tra chi prende il minimo e chi è parecchio più su nel voto di laurea non dovrebbe essere cancellato e basta, altrimenti demotiviamo sempre più in generale lo studente a perseguire una buona preparazione complessiva. E poi, visto che anche l’inglese è materia lungamente presente nel curricolo scolastico, perché non dare per scontato anche che il laureato “sa l’inglese” (quanto l’italiano) senza chiedergli un certificato aggiuntivo? Resta il dubbio che proprio questo sia uno scopo del comma della citata legge.
Valga, sull’ultimo aspetto, l’opinione di Serena Vultaggio, docente d’inglese, che afferma coraggiosamente che chi non conosce l’italiano, conosce male anche l’inglese; sicché, dice lei, «l’approssimazione viaggia su entrambi i fronti».
Segnalo, infine, una posizione che porta in altra direzione. Domenico sostiene che le carenze linguistiche delle nuove generazioni dipendono dal mancato studio del latino, e non da una revisione del curricolo d’italiano, come io personalmente (mi cita specificamente) vado affermando quando illustro gli apporti della linguistica moderna e in particolare della “grammatica valenziale”: un modello, questo, che, secondo lui, insieme con «le competenze e la certificazione delle competenze» favorirebbe «la materialità delle cose … il pragmatismo … l’atto pratico … il capitalismo sfrenato …» e « la meta del cellulare ultimo modello» o della «vacanza in posti esotici». Che l’ombra dell’aziendalismo gravi pesantemente, da una ventina d’anni, sulla nostra scuola, è purtroppo vero. Ma per quanto riguarda la “grammatica valenziale” devo segnalare al gentile visitatore del nostro sito che tale modello è nato sulla base della didattica del latino e si ritiene lo strumento principe per studiare proprio la grammatica del latino, come di ogni altra lingua (a cominciare dall’italiano), se si riconosce importanza a questo tipo di studio. Circa le competenze, non rappresentano affatto un traguardo fuorviante: tutto dipende dai percorsi di studio che si compiono per raggiungerle.
A conclusione di questo dibattito così serrato, credo che si riconosca da parte di tutti che il punto grave di questa nuova legge non è l’apertura all’inglese, ma l’omissione totale di ogni riferimento esplicito alla necessità di ottenere e verificare la buona padronanza dell’italiano nei dipendenti pubblici. Di qui la necessità di impegnarsi a porre rimedio a questa omissione in qualsiasi modo e momento possibile.
Francesco Sabatini
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