La letteratura a scuola, oggi

di Vittorio Coletti


L’affermazione di Susanna Tamaro, secondo cui a scuola bisognerebbe leggere gli scrittori contemporanei e lasciar stare i noiosi classici, ha suscitato scalpore sui media, sconcerto tra insegnanti e studiosi (la Presidente e il Vicepresidente della Fondazione Verga hanno prontamente replicato), ma anche una discussione che forse ne riscatta il dubbio gusto di base. La riprendiamo dalla nostra Accademia, dove l’attenzione alla letteratura va, più che altrove, collegata a quella per la lingua. 

Da questa prospettiva, l’attenzione ai nostri classici non è solo giustificata dal loro valore letterario e dalla loro rinomanza internazionale, ma anche dal filo di continuità con cui nei secoli essi hanno costruito l’italiano ben prima che la politica facesse l’Italia. A tacere della stoltezza che mostrerebbe la scuola italiana trascurando i grandi autori del passato, come Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, Tasso, Goldoni, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Verga, che sono da tempo “scrittori mondo”, punti stabili del canone internazionale delle lettere, resterebbe l’insensatezza di una cultura che spezzasse il legame con la propria storia e con una tradizione di linguaggio che ha formato, anticipato la comunità nazionale organizzata e ha dato voce e rinomanza planetaria al Paese in cui viviamo. 

Ma Tamaro ha sostenuto che i giovani hanno bisogno di contemporaneità, di attualità, di trovare anche in letteratura le sensibilità e i problemi loro e del presente. C’è un’esigenza giusta in questa richiesta, ma anche un grossolano errore, da secoli confutato, che consiste nel credere che l’attualità artistica sia rappresentata solo dall’arte contemporanea e non capire che il tasso di modernità è proporzionale al valore dell’opera, alla sua resistenza al tempo, tant’è vero che oggi le tragedie greche (pur di altra lingua e di ben maggiore antichità) sono comunemente usate e studiate da storici e giuristi per affrontare problemi politici e giuridici strettamente attuali, e i recenti anniversari di Dante e Manzoni hanno mostrato la vitalità del loro insegnamento per la conoscenza e la critica del carattere degli italiani e per un ripensamento della concreta dimensione umana al tempo della sua temuta evaporazione nell’universo virtuale. Gli interventi del Presidente della Repubblica, al riguardo, sono stati emblematici. Il riferimento specifico di Susanna Tamaro a Verga è stato particolarmente ingiusto e sbagliato: lei si sarà pure annoiata leggendo i Malavoglia, ma credo che sia un problema suo, perché si tratta, per riconoscimento universale, di un romanzo che sta tra i grandi capolavori della narrativa europea dell’Ottocento: una straordinaria invenzione linguistica, tra il poetico e il realistico, ritratto epico e tragico di un’Italia umile e onesta, che ha cercato di affermarsi con la fatica del lavoro e ha trovato nello Stato un potere lontano e sordo. L’attualità del capolavoro verghiano resta fortissima, anche se i poveri non commerciano più nei lupini e sono emigrati all’estero.

Naturalmente, la letteratura italiana conta anche grandi autori del nostro tempo. Il Novecento ne ha avuti alcuni all’altezza dei maggiori più antichi, come Svevo, Calvino, Primo Levi, Montale, Caproni, Gadda, Pasolini, e Tamaro ha ragione se lamenta una troppo scarsa attenzione della scuola alla letteratura più recente. Questo è certamente un limite del nostro sistema scolastico, che, invece di percorrere il passato passando solo per le principali vette, e dedicare parecchio tempo anche al presente (o al passato prossimo), si attarda su percorsi e autori antichi meno rilevanti, arrivando tardi o poco a quelli contemporanei. Il solido, tradizionale binomio scolastico di storia e testi consentirebbe di unire la sintesi dei secoli con la selezione dei testi. Purtroppo, oggi non è più usato. Ma anche la letteratura contemporanea ha il suo canone, la sua gerarchia di valori, ed è fatta di autori maggiori (da studiare) e minori (spesso da dimenticare). La prospettiva linguistica serve bene a fare una cernita nella sua foltissima produzione. 

Come si sa, la letteratura (narrativa e in versi) è il luogo in cui una lingua si manifesta nella sua forma più consapevole e personalizzata, dotata, cioè, di uno stile. Lo stile è un tratto differenziale soggettivo, ma anche un elemento linguistico oggettivo, percepibile, misurato dal lettore, per cui, se uno ha uno stile anonimo o sciatto o impersonale o impalpabile, si dice, giustamente, che non ha uno stile e il lettore non lo vede. La personalità stilistica non significa, però, solo stravaganza o originalità linguistica più o meno vertiginosa, che pure sono possibili e spesso auspicabili in letteratura, quasi necessarie in poesia (Ungaretti, Montale), gradevoli in prosa (Camilleri), a volte mirabili (Fenoglio, Gadda, Pasolini). Significa anche un perfetto controllo della lingua, il suo uso per dire ciò che si vuole nel modo più semplice e preciso possibile, un dosaggio accurato e limpido delle parole (Calvino, Levi, Sciascia, Caproni). Ma uno stile, alto o basso, dosato o esuberante, non si dà senza idee, senza ragioni forti per cercarlo, senza una passione intensa per comunicarle. 

Ora, il vero guaio della letteratura del nuovo secolo sta proprio nell’assenza di uno stile, nell’adozione di una lingua senza qualità perché banale, povera di idee, o, all’opposto, molto esibizionistica, più impegnata a sfoggiare la propria estrosità che a esprimere idee. Non è il caso di fare nomi. Lo stile zero (che non è quello semplice, ma quello assente) lascia vedere una lingua gremita di stereotipi, luoghi comuni, frasi fatte oppure segnata da un narcisismo verbale che parla troppo e sopra le righe per le povere cose che ha da dire. L’esatto contrario di quello che servirebbe a un giovane, cui si propone, attraverso la letteratura, un approccio più meditato, autentico e originale alla realtà. Questo limite riguarda soprattutto la nostra narrativa, dove, dopo Calvino, Levi e Sciascia e tolti pochi autori di particolare pregio, l’offerta più recente non è purtroppo quasi mai all’altezza di quella di altre culture coeve (anche quella, vicinissima, francese), nelle quali, forse, latitano come da noi i capolavori, ma la media è alta e di grande valore intellettuale e linguistico, attestato dal grande successo delle traduzioni. Le cose, in Italia, vanno meglio in poesia, che ha ritrovato nel XXI secolo la responsabilità della parola e non si compiace più della propria impoeticità, di un’esibita sciatteria, come nel tardo Novecento, ma scava liberamente e altamente nella lingua per dire qualcosa che sempre e dolorosamente sfugge.

Perciò, quando suggerisce di sostituire i contemporanei con i classici, Tamaro dovrebbe nominare, più che sé stessa, gli scrittori del grande stile novecentesco, sui quali è giusto richiamare maggiore attenzione. Ma non a scapito dei grandissimi del nostro passato, che sono i protagonisti della galleria planetaria dei letterati e sarebbe bene che gli stessi scrittori oggi leggessero di più, per farsi anche loro uno stile. 

C’è, infine, una potente ragione pedagogica a far risultare discutibili le affermazioni di Susanna Tamaro: l’idea della scuola e della letteratura come doppio o specchio del presente. Il ruolo della scuola, invece, non è quello di rispecchiare o di annullare le differenze tra i giovani e il loro mondo, ma di aiutarli a capirle, a misurarle con linguaggi diversi, più ricchi o più precisi del loro, come, appunto, quelli della letteratura. La letteratura, da parte sua, aiuta il lettore a capire il proprio tempo non solo quando gli è cronologicamente contemporanea, ma anche e soprattutto quando gli fornisce mezzi potenti e di lunga durata, testati da decenni o secoli di attenzione e consenso, per capirlo da solo. Letteratura e scuola non sono luoghi in cui si deve riflettere la realtà circostante, già troppo misera di suo per auspicarne dei duplicati, ma quelli in cui si riflette su di essa e si cerca di capirla, di rapportarsi consapevolmente ad essa e, quando possibile, di migliorarla.

LUCA FIOCCHI NICOLAI
31 maggio 2023 - 00:00
Non darei eccessivo clamore alle parole della Tamaro; si sa, gli scrittori esprimono apertamente le loro idiosincrasie e la storia ce ne dà gli esempi. Ma essi non necessariamente sono buoni critici o pedagoghi. Proprio perché ogni scrittore ha il suo stile, frutto prima di emulazione, in seguito di selezione di personali modelli, che ne escludono altri, anzi, proprio perché ha la sua poetica, per contrapposizione potrà dare giudizi impietosi verso quelli che egli vedrà come antimodelli per eccellenza. Se non dei rivali (Pascoli vs. D'Annunzio). Il Prof. Coletti ci propone senza titubanza il suo canone, che in una certa armonia, non totale del resto, con le indicazioni ministeriali sul Liceo Classico escludono recisamente certo Della Casa, Guarini, Marino, ma anche, incredibilmente, Parini (come Anselmi-Chines) Alfieri e Carducci, non menzionano (per brevità immagino) Pascoli e d'Annunzio, sacrificano Pavese (cui Sapegno preferì appunto Fenoglio, e con lui conveni' all'ultimo Segre) e Vittorini, Moravia (come Ossola) e Morante (come Contini). Manganelli non c'è, forse per aver affermato il primato di letterarieta', artificiosita' e falsità (ispiratrici della Fondazione Bembo) sui contenuti. Come si vede il canone ESCLUDE. La Tamaro odia Verga, Pasolini riteneva stupidi Tommaseo (il grande Tommaseo) e Carducci, Fontanini "odiava" Muratori, Maffei odiava Fontanini ecc. ecc.. Chi decide quali modelli di scrittura proporre a scuola? ma il lettore, ovviamente. Perché la Crestomazia del Leopardi non fu gradita? perché invece degli Esempi di bello scrivere del Fornaciari (padre e figlio) sono attestate decine di edizioni? L'editore o il direttore di una collana propone una novità (Garzanti Pasolini, Calvino la Ceresa) poi le generazioni di lettori stabiliscono che Pasolini dice loro qualcosa, meglio spiega il mondo, la mutazione antropologica, ecc. e la Ceresa meno. La scuola è responsabile verso le nuove generazioni, da cui si formeranno le classi dirigenti del Paese. Perché un autore contemporaneo diventi un classico, possa fungere da modello, possa essere presentato agli allievi come auctor, eccellente, esemplare per la scrittura e per i contenuti, deve passare le forche caudine delle riedizioni. Occorre valutare la sua resistenza nel tempo. Ci sarà un motivo se il volgarizzamento della Poetica proposto dal Segni abbia immediatamente e per sempre lasciato il posto a quello del Castelvetro, rievendo nuova attenzione erudita solo cinque secoli dopo?

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Loredana Mascia
31 maggio 2023 - 00:00
L'articolo del prof. Coletti sul tema " La letteratura a scuola oggi", è molto interessante e offre degli spunti di riflessione importanti.

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Chiara Pierini
31 maggio 2023 - 00:00
Mi preoccupa e rattrista di più l'assenza nei programmi di studio, oltre che in questo articolo, per il resto di buon senso, di (grandi) scrittrici, che progetti come "Mis(S)conosciute" cercano di sottrarre all'invisibilità o alla sottoesposizione. Che ne è di Grazia Deledda, Lalla Romano, Antonia Pozzi, Lorenza Mazzetti, Goliarda Sapienza e di tutte le altre? Non è monco uno studio della letteratura che riconosce e celebra Pasolini ma non Anna Banti?

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Maria zioni
31 maggio 2023 - 00:00
Gentile professore, il suo articolo mi ha scaldato il cuore. Grazie, e grazie ancora

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Flavio Bettanin
31 maggio 2023 - 00:00
Il tema mi pare molto semplice e didatticamente assai noto: a chi non è mai stato in montagna e conosce forse solo di nome l’Everest e il K2, non è direttamente e immediatamente proponibile un viaggio in Nepal per scalarli. Si comincia con le gitarelle sulle colline dietro casa, poi si passa a qualche piccola e impegnativa passeggiata in montagna, poi una piccola ferrata, stando tutti assieme, e poi e poi… magari si fa vedere un bel documentario, o ascoltare la testimonianza di uno scalatore che ha scalato il K2. Magari poi qualcuno si fermerà al livello di uditore di racconti e magari alcuni davvero prenderanno l’aereo per il Nepal…. Però probabilmente tutti avranno imparato ad apprezzare le salutari passeggiate all’aria aperta. Che è in sostanza il fine collettivo maggiormente auspicabile. Per cui tra i molti che rimangono sul divano e i pochissimi che scalano il K2 preferisco i ‘tutti’ che di ritrovano all’aria aperta. Si può e si deve partire dalla Tamaro (o dal Baricco, o dalla Ferrante …) di turno per arrivare a Verga & C. Non vi sono altre strade. E poi parliamoci chiaro e fuori da facili ipocrisie: chi ha mai letto Verga fuori da qualche pagina alle Superiori? Quanti lo tengono sul comodino (e idem per il solito Leopardi etc.)? Siamo anche noi innamorati ‘per udita’ e il K2 non lo abbiamo mai scalato….

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Giuseppe Celano
31 maggio 2023 - 00:00
Gran parte del problema si risolverebbe se si cominciasse a riconoscere la musica italiana come parte della letteratura e questa entrasse nei curricula scolastici a pieno titolo, accanto ai classici. Non c’è dubbio che, a parte qualche eccezione, è proprio la musica a rappresentare il meglio della letteratura italiana contemporanea.

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