Il nome (improprio) della cosa: quella artificiale non è intelligenza

di Lorenzo Tomasin

"Se abbiamo stabilito che quella che chiamiamo intelligenza artificiale di fatto non è una forma d’intelligenza, perché di essa le mancano alcune caratteristiche fondamentali, è chiaro che l’artificiosità che ne caratterizza le tecniche non si applica a nulla di intelligente, né potenzia o migliora alcuna prestazione intellettiva. Perché, semplicemente, non sono intelligenza": l'Accademico Lorenzo Tomasin invita a confrontarsi sull'uso dell'espressione intelligenza artificiale.


All’alba della scienza moderna, Galileo Galilei – che fu anche accademico della Crusca – affermava che “i nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza ai nomi” (Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, 1613). Concretamente, uno dei compiti della scienza, a partire dallo stabilimento di quel principio, consiste nell’adeguare – anche modificandolo a più riprese – il proprio linguaggio e la propria terminologia alla descrizione più corretta e meno ambigua possibile delle cose, la cui conformazione e le cui proprietà si rivelano sempre più distintamente con l’avanzare delle conoscenze. Movendo da quella frase di Galileo, nel secolo scorso un fisico italiano, Giuliano Toraldo di Francia (Le cose e i loro nomi, Laterza, Roma-Bari 1986), sviluppò un’articolata riflessione sulle nuove sfide poste dallo studio della fisica atomica e subatomica, con i suoi paradossi, al linguaggio della scienza. Tra le sue conclusioni, la constatazione che “non si possono studiare prima le cose e poi i nomi. Per parte nostra, ci azzarderemmo a dire che le cose e i loro nomi entrano insieme nel problema, in modo inestricabile”. Simili riflessioni sollecitano chi, nella prospettiva dello studio sui nomi delle cose, cioè nella prospettiva del linguista, s’interroghi sulla locuzione che, provenendo dal linguaggio dei tecnici, ha invaso oggi il dibattito scientifico e quello sociale, imponendosi come un concetto di cui varrà la pena di mettere in discussione lo stesso nome, o meglio il rapporto che il nome ha con la cosa che descrive: l’intelligenza artificiale.

Vari motivi che rendono (o renderebbero) improprio o sconsigliabile l’uso di questa denominazione sono già stati avanzati da più parti, da specialisti di varia formazione e di diverso orientamento (ben nota, ad esempio, è la contro-definizione di pappagalli stocastici introdotta da Bender, Gebru, McMillan-Major, Mitchell nel 2021 in un articolo sui Large Language Models di cui diremo tra poco). E in un bel libro recente (Le macchine del linguaggio. L’uomo allo specchio dell’intelligenza artificiale, Einaudi), l’informatico Alfio Ferrara ha spiegato bene al pubblico italiano come anche gli esperti di questo campo di studi considerino l’etichetta in sostanza impropria, sebbene la utilizzino negli ultimi anni con sempre maggiore frequenza (lui stesso la impiega sulla copertina del suo libro!) essenzialmente per “un problema di marketing”. Cioè perché si tratta di una formula che oggi vende. E sulla riflessione suscitata da Ferrara è tornato lo storico della lingua Giuseppe Antonelli in un acuto articolo per “la Lettura”, il 10 agosto scorso.

Da parte nostra, possiamo interrogarci sull’appropriatezza di questa denominazione a partire dal nostro specifico – e in sostanza unico – campo di competenza, cioè dal punto di vista di ciò che sappiamo sul linguaggio da un lato (inteso come manifestazione tipica dell’intelligenza nella forma che essa ha per la specie umana), e dall’altro sulle lingue e sulla loro storia e uso. Ci sembra un punto di vista non peregrino, dato che intelligenza artificiale è, prima di tutto, un unico lessema, o come dicono i linguisti, una polirematica, cioè un elemento lessicale formato da più di una parola, come ferro da stiro o anima gemella. Oltre che una cosa, insomma, essa è un nome, di cui si può valutare l’appropriatezza.

Una locuzione come illuminazione artificiale indica un sistema che, costruito dall’uomo, produce luce; ancora, fecondazione artificiale indica una tecnica per cui la fecondazione è procurata con mezzi tecnologici. Così, illuminazione in senso proprio (cioè radiazione luminosa) è quella prodotta dalla prima, fecondazione in senso proprio (cioè l’incontro di due gameti) è quella cui fa riferimento la seconda. Bisognerà dunque assumere che nella locuzione intelligenza artificiale i processi di quella che chiamiamo intelligenza si realizzino in una forma mediata de una macchina.

È noto che una fase importante nella storia dell’informatica – e della sua antenata, la cibernetica – è stata guidata dall’idea che gli elaboratori elettronici possano simulare i procedimenti del cervello umano, potenziandone le prestazioni. Che una parte cospicua degli sforzi della ricerca tecnologica sia mirata a riprodurre non solo nei risultati, ma anche nei procedimenti operativi le computazioni della mente umana, è suggerito non solo dalla comune diffusione di termini come cervello elettronico o cervellone riferiti appunto a macchine, ma anche dallo sviluppo di ambiziosi progetti scientifici. È il caso, ad esempio, dell’enorme sforzo di ricerca dispiegato dal programma Human Brain Project (2013-2023), un progetto che impegnò per anni alcuni dei migliori centri di ricerca europei e americani con l’obiettivo dichiarato di riprodurre, attraverso una rete di elaboratori elettronici, la struttura delle reti neurali del cervello umano. Il progetto in questione, come è noto, raggiunse risultati importantissimi nello sviluppo di nuove tecnologie, ma dovette riconoscere l’impossibilità di arrivare all’obiettivo che si era prefisso, cioè di riprodurre tecnologicamente e interamente le strutture dell’encefalo della specie umana. Ciò che sarà forse possibile un giorno, probabilmente a partire da diverse basi teoriche e tecnologiche, è risultato al momento irrealizzabile.

Analogamente, i Large Language Models, tra i prodotti principali  della cosiddetta intelligenza artificiale, muovono dal principio che le cosiddette reti neurali artificiali realizzate con strumenti informatici siano in grado di riprodurre vari ambiti cognitivi degli esseri viventi, e in particolare quello – associato alla specie umana – della facoltà di linguaggio. Tale assunto sembra confortato dal fatto che, poiché i testi prodotti dalla cosiddetta Intelligenza artificiale sulla base di prompt – cioè di impulsi degli utenti – sono essenzialmente indistinguibili dagli enunciati prodotti dall’intelligenza umana, si può appunto parlare di una intelligenza artificiale capace di modellare – cioè di riprodurre artificialmente – il linguaggio come facoltà tipica dell’intelligenza umana.

Studi e argomenti messi in campo recentemente da alcuni linguisti (in particolare Andrea Moro, Matteo Greco e Stefano F. Cappa in un articolo su Cortex del 2023, nonché, più sinteticamente, Johan J. Bolhuis, Stephen Crain, Sandiway Fong e Andrea Moro in una breve Corrispondenza su Nature del 2024) hanno messo in chiaro che i Large Language Models, pur producendo testi simili a quelli generati dalla facoltà di linguaggio, non possono essere considerati un modello o una riproduzione del linguaggio (naturale), per varie ragioni. Il linguaggio, in effetti, è in grado di produrre (di generare) un numero infinito di frasi sintatticamente strutturate; esso viene acquisito dagli umani indipendentemente dall’acquisizione di un numero immenso di dati, come invece accade necessariamente nel caso dei procedimenti di machine learning: i bambini acquisiscono il linguaggio in tempi abbastanza rapidi e con un’esposizione relativamente contenuta al linguaggio stesso, cioè con l’acquisizione di una quantità di dati immensamente inferiore a quella necessaria per allenare una macchina. Ancora, gli esseri umani non sono in grado di produrre linguaggi impossibili, cioè non governati da quelle che sono state individuate come condizioni vincolanti e universali della sintassi. A differenza di un umano, che non può – nemmeno se istruito – parlare in un linguaggio che vìola i principi che governano la sintassi di tutte le lingue umane (perché per farlo deve attivare aree cerebrali distinte da quelle destinate al linguaggio propriamente detto), una macchina è in grado di acquisire e applicare qualsiasi istruzione sintattica, producendo automaticamente enunciati anche in lingue impossibili.

Sebbene, dunque, esistano forme di intelligenza non umana, come quelle di altre specie animali, nonché forme di intelligenza, come l’umana, che includono il linguaggio e le sue proprietà fondamentali (come la ricorsività e la dipendenza dalla struttura, due concetti chiave della teoria sintattica odierna), è evidente che quella prodotta dalle tecniche di cui stiamo parlando può forse assomigliare all’intelligenza, ma non ne ha quelle che le conoscenze scientifiche attuali considerano le caratteristiche distintive dell’intelligenza stessa.

Come il prodotto delle macchine sembra linguaggio, ma non ne ha i caratteri costitutivi, anche la cosiddetta intelligenza artificiale somiglia nei suoi prodotti all’intelligenza quale la conosciamo, ma non lo è nel senso più pregnante.

Non si tratta di una pura e oziosa questione terminologica, perché la parola intelligenza (e l’inglese intelligence, che impernia originariamente la polirematica in esame, il cui primo significato è “the faculty of understanding intellect”) e il suo campo semantico sono indubitabilmente dotati di una connotazione generalmente positiva: dire che una persona è molto intelligente significa, in linea di massima, esprimere un apprezzamento. E l’aggettivo intelligente riferito a pratiche (partenza intelligente) o a oggetti (semaforo intelligente) ne indica generalmente una qualità positiva e desiderabile, che li rende migliori rispetto a ciò che essi sono in assenza di quel requisito specifico.

Quanto all’aggettivo artificiale, esso è riferito spesso a manufatti che potenziano o perfezionano (o tutt’al più surrogano) le caratteristiche dei loro corrispondenti non artificiali, quasi che l’artificialità implicasse un perfezionamento o un orientamento puntuale delle prestazioni o di alcune caratteristiche: fuochi artificiali, pioggia artificiale. Anche le lingue artificiali, come l’esperanto o il volapük (che sono appunto artefatte, ma ovviamente non impossibili, perché costituite di fatto dall’innesto di parti diverse di lingue naturali, che non violano i principi generali del funzionamento del linguaggio) sono lingue inventate nel generoso, se pur illusorio intento di ottimizzare alcuni aspetti della comunicazione umana, favorendo pace e fratellanza ed evitando la supremazia di singole lingue naturali su altre.

Ora, se abbiamo accertato che quella che chiamiamo intelligenza artificiale di fatto non è una forma d’intelligenza, perché di essa le mancano alcune caratteristiche fondamentali, è chiaro che l’artificiosità che indubbiamente ne caratterizza le tecniche (o meglio le tecnologie) non si applica a nulla di intelligente, né potenzia o migliora alcuna prestazione intellettiva. Perché, semplicemente, non sono intelligenza.

Continuare a impiegare la locuzione intelligenza artificiale, particolarmente in ambito scientifico, dove la terminologia s’impegna a un continuo adeguamento, in termini galileiani, di nomi e attributi all’”essenza delle cose”, è dunque improprio. Che tale improprietà non consista in un semplice e veniale uso verbale approssimativo, magari estensivo o metaforico, ma influisca decisamente sulla percezione, sulla valutazione e quindi sull’uso che facciamo di quella cosa, appare tanto più evidente a chi abbia chiaro quanto l’intelligenza delle cose sia fondamentale in ogni onesto discorso scientifico.

Per il momento, sarebbe dunque forse giudizioso abituarsi a parlare di “cosiddetta intelligenza artificiale”, di cosiddetta IA (mentre la sigla AI sarebbe comunque da evitare in italiano, come peraltro nelle altre grandi lingue romanze, ad esempio in spagnolo e in francese, nelle quali pure si usa normalmente la sigla IA). In seguito, starebbe – o starà – ai tecnici e agli esperti della materia di elaborare e cercar di affermare nell’uso parole più adeguate alle cose. Il già citato Ferrara suggerisce che la denominazione più adatta sarebbe forse “simulazione artificiale di comportamento umano”: formula adeguata, ma senza dubbio difficile da diffondere nell’uso. Magari, perché no?, sulla base della stessa sigla e sviluppandola diversamente si potrebbe partire dal principio che intelligence in inglese significa anche ‘informazione’, concetto dalle implicazioni ben diverse rispetto a intelligenza, e si potrebbe parlare di Informazione Artificiale. Una simile denominazione è forse meno impegnativa circa i modi nei quali le nuove tecnologie estraggono dati dal mare magnum dei materiali presenti nella rete, modi peraltro spesso abusivi o lesivi di diritti come quelli d’autore, e sovente assai opachi nei loro percorsi e nelle loro processi: tra i principali problemi dell’IA c’è la questione civile dei diritti dei suoi utenti e dei suoi inconsapevoli fornitori: problema giuridico immenso. Oppure, se si volesse mettere in valore la fondamentale importanza che le prompt, cioè gli stimoli degli utenti, hanno nei prodotti della tecnologia di cui stiamo parlando, si potrebbe discorrere di Interazione artificiale. Si tratterebbe di un’Importante Acquisizione (sigla: IA, permetteteci di scherzare…) per la coerenza tra il metodo scientifico e le parole che ne illustrano i risultati.

Anna-Maria De Cesare
11 settembre 2025 - 00:00
Grazie per queste importanti riflessioni e proposte. Durante la redazione di un volumetto per la collana “L’italiano di oggi” (Cesati) sulla “qualità” e sulla natura della lingua italiana generata dai modelli linguistici, mi sono posta domande simili, a cominciare dal nome da dare all’italiano prodotto dalla cosiddetta IA generativa. Alla fine ho deciso di intitolare il volume (che sto per chiudere) “L’italiano sintetico dell’intelligenza artificiale generativa”. Premetto che, a mio avviso, le proposte terminologiche andrebbero fatte anche da chi – o, idealmente, assieme a chi – opera nel campo della linguistica e conosce bene, per riprendere uno degli esempi citati nel testo, la differenza tra lingua e linguaggio. La scelta (quando c’è) di un termine dipende poi da molteplici fattori, tra cui la sua monosemia, la sua trasparenza denotativa e l’auspicata assenza di connotazioni valutative. Come vogliamo chiamare, appunto, l’italiano prodotto dalla cosiddetta IA generativa: italiano “sintetico” (come ho scelto, anche per analogia con il tecnicismo della chimica), “artificiale” (però già usato per riferirsi a un italiano “artificioso”, lontano dall'uso quotidiano) o ancora “algoritmico”? E come denominare, quando ci interessa fare un confronto, l’italiano che abbiamo conosciuto finora, quello proprio della comunicazione umana? Italiano “naturale”, “autentico”, “normale” o magari anche, allargandone il significato, “italiano senza aggettivi” – sulla scia della proposta di Arrigo Castellani? Un divertimento a margine: per la cosiddetta IA, “l’italiano senza aggettivi" ha un altro significato ancora: si tratta di “una varietà di italiano caratterizzata dall'assenza di aggettivi o da un uso molto limitato di questi ultimi”; “il termine è stato coniato dal linguista Alfredo [sic] Castellani per descrivere un ipotetico italiano in cui gli aggettivi qualificativi sono assenti o ridotti al minimo, evidenziando un uso più diretto e conciso della lingua” (cito da un testo generato il 7.9.2025 nella cosiddetta “AI overview” di Google). La ridefinizione semantica del sintagma ‘italiano senza aggettivi’ poggia su un contento inventato dal modello linguistico e suggerisce che non sono disponibili, o facilmente reperibili, informazioni rilevanti sulla varietà in questione… Come è facile capire, siamo arrivati al problema delle cosiddette “allucinazioni”, un altro termine già ripetutamente oggetto di critiche e per il quale sono state formulate varie controproposte (“confabulazione”, “contenuto non verificato”). Per una discussione critica rinvio al contributo di A. Gerstenberg (2024), “Hallucinations in automated texts – A critical view on the emerging terminology“, pubblicato nella rivista “AI-Linguistica. Linguistic Studies on AI-Generated Texts and Discourses“ 1/1. Bisogna anche riflettere sul termine più appropriato per riferirsi, in italiano, alla specifica tecnologia alla base di ChatGPT, cioè al “large language model”. Per prima cosa va notato che, come nel caso di moltissimi altri termini relativi all’ambito che ci interessa (“benchmark”, “prompt”, “output”…), si usa spesso e volentieri la polirematica inglese sotto forma di prestito. Ma quando si ‘traduce’ il tutto in italiano, è meglio usare la polirematica “modello linguistico di grandi dimensioni” (titolo della voce dedicata al concetto nell’enciclopedia Wikipedia) oppure è più precisa (perché più trasparente) la formulazione “modello di linguaggio” (di cui si trovano molte occorrenze in rete)? E perché va evitato “modello di lingua” (che in italiano si riferisce già a ben altro)? Nel formulare una risposta è sempre interessante considerare anche le scelte fatte dalle altre lingue romanze. Sempre stando a Wikipedia, in francese si usano (in ordine) “grand modèle de langage“, “grand modèle linguistique“ e “grand modèle de langue“, mentre per lo spagnolo si cita “modelo extenso de lenguaje” e “modelo lingüístico grande”. A prima vista (ma il tutto andrebbe verificato con cura su corpora di dati reali) sembra dunque che in italiano stia entrando in modo stabile il termine più ambiguo (“modello linguistico”) mentre nelle altre due lingue romanze considerate si preferisca il termine che fa esplicitamente riferimento al linguaggio – in linea con quello che lo strumento riproduce, o imita. Sempre per trasparenza denotativa, e per coerenza con quanto detto sopra, suggerirei di compiere un passo ulteriore: estendere le riflessioni relative al prodotto generato dalla cosiddetta IA (il testo, la varietà di lingua) e al contenuto veicolato (la veridicità delle informazioni trasmesse) alle forme che compongono i testi ‘sintetici’. Limitandoci al lessico, in particolare alle forme create a partire dalla lingua inglese, proporrei di parlare di “prestito sintetico”, di “calco sintetico” ecc. Il vantaggio è che questi termini mettono immediatamente in luce la natura statistico-probabilistica del processo che ha dato vita alle forme in questione.

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Antonio Zoppetti
09 settembre 2025 - 00:00
Fuori dalla terminologia (ma nel caso di “intelligenza” una definizione univoca e condivisa mi pare ardua) la lingua è metafora, e oltre all'esempio di “cervello elettronico” (o di “memoria” del pc) lo stesso riferimento si ritrova nelle “macchine pensanti”, come si diceva una volta. La questione è sorta quando i programmi per giocare a scacchi, per esempio, hanno cominciato a battere gli scacchisti di professione. Il calcolatore, da macchina per i calcoli, si trasformava in qualcosa di apparentemente intelligente che veniva definito anche elaboratore: “È dal mio elaboratore che Skiller aspetta una risposta, non da me” scriveva Calvino nel racconto “L'incendio della casa abominevole”, distinguendo l'elaborazione meccanica dei dati dal pensiero in senso umano. Negli anni '60, stando ad alcuni sondaggi statunitensi, davanti alle macchine pensanti nell'opinione pubblica prevaleva il senso di inquietudine: erano qualcosa di perturbante e frankensteiniano come nei film “2001 Odissea nello spazio” o “Il mondo dei robot” in cui le macchine si ribellavano al creatore in una rivisitazione del mito del Golem o dell'homunculus alchemico, dove la tecnologia sostituiva la magia. In seguito l'accettazione del fatto che la macchina sia sottomessa all'uomo è diventata di massa, e oggi il concetto di intelligenza artificiale che rimpiazza la macchina pensante ha assunto una connotazione positiva, e aiuta a vendere, certo. Verissimo è poi che questo uso ci arrivi d'oltreoceano, con un'accezione più legata al concetto di informazione che ultimamente sta prendendo piede e si è estesa per esempio all'ambito vegetale, visto che fioriscono gli studi e i documentari sulla cosiddetta intelligenza delle piante. Se però non si vuole accettare questo nuovo concetto di “intelligenza” che si fa strada nell'uso – o comunque lo si critica – invece che guardare solo all'anglosfera anche terminologicamente (machine learning, prompt...) – dovremmo guardare alla nostra storia – italiana ed europea – e ancorarci a una riflessione che oggi sembra finita sotto al tappeto, visto che tutto viene dagli Usa (soprattutto la tecnologia), e nel farlo spazza via ogni altro precedente (e così le ricostruzioni storiche dell'ipertesto all'americana ignorano che il primo ad avvalersi del calcolatore per le analisi linguistiche e a creare di fatto ipertesti è stato l'italiano Roberto Busa). Nel caso delle applicazioni dell'IA alla scrittura – per concentrarci sugli aspetti linguistici – potremmo parlare più onestamente di “scrittura automatica” o “combinatoria” (in futuro forse anche “oralità”) i cui fondamenti sono antichi, mentre più in generale converrebbe riprendere il concetto di elaborazione automatica, anche se l'elaboratore è stato sepolto dall'affermarsi del “prestito sterminatore” computer. Nel De Arte Combinatoria Leibniz aveva consapevolmente ponderato la possibilità di costruire delle macchine di calcolo per riprodurre il ragionamento dell’uomo, in una visione dove lingua e pensiero tendevano a coincidere, che si trova nella parola “ragionar” che usava Dante come nella filosofia di Wittgenstein. Forse per mettere alla berlina Leibinz, Swift (nei Viaggi di Gulliver) immaginava un congegno a dadi di legno su cui erano impresse tutte le parole, flesse e declinate, governato da “rematori” che ne muovevano gli ingranaggi e ne determinavano le combinazioni, per poi raccogliere le poche sentenze dotate di significato che annoverano nei libri. Sembra una caricatura di Chatgpt che non fa altro che incarnare ciò che Borges aveva immaginato nella Biblioteca di Babele, anche se al caso è stato sostituito l'algoritmo basato sulle frequenze, in modo da escludere tutto ciò che è privo di significato. Passando dalla fantasia agli esperimenti concreti ricordiamoci dell’OULIPO (OUvroir de LIttérature Potentielle) di Queneau e del matematico Le Lionnais che proponeva nuove strutture di natura matematica per comporre testi “e nuovi procedimenti artificiali e meccanici” che – più che sostituire l'uomo – potevano essere “un aiuto alla creatività”. Nei suoi Cento miliardi di poemi Queneau aveva elaborato una serie di versi che si potevano combinare tra loro generando infinite poesie, e Le Lionnais lo aveva definito “letteratura combinatoria”. Successivamente questo programma si è avvalso anche dei calcolatori, e uno dei bracci italiani del movimento (Teano) ha prodotto una ricombinazione delle ricette dell'Artusi attraverso un algoritmo di sostituzione di parole omologhe (L'Artusi S+n), mentre altri autori patafisici hanno prodotto analoghi componimenti ludici. Sulla traduzione e scrittura automatica, in Italia, andrebbe rivalutata anche la figura di Silvio Ceccato, trascurata da tutti ma pionieristica, benché foriera di risultati poco brillanti. Sono questi modelli culturali a cui potremmo ancorarci anche dal punto di vista linguistico per definire l'elaborazione automatica nelle sue tante sfaccettature che hanno poco a vedere con l'intelligenza in senso stretto.

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Nicola Annunziata
08 settembre 2025 - 00:00
Mi sembra che nell’introduzione al tema rimanga sfumata una duplice differente accezione del termine IA, che da un lato è una disciplina, dall’altro ha preso anche a designare i sistemi sviluppati con tecniche della disciplina stessa. La prima accezione è senz’altro più antica, pare sia stata coniata (in inglese ovviamente) da John McCarthy nel seminario di Dartmouth del 1956, che in definitiva è l’atto di nascita dell’IA. La seconda accezione è molto più recente e sicuramente attualmente in voga anche per ragioni di marketing, come suggerito nel tema. In definitiva mi sembra un po’ tardi per pensare a ribattezzare una disciplina che anche in italiano porta questo nome da molti anni: uno dei primi manuali tradotti in italiano credo sia quello di Elaine Rich, la cui edizione italiana è del 1986 e porta proprio il titolo “Intelligenza Artificiale” (parlo di un manuale interamente dedicato a questa disciplina). Viceversa, trovare un modo di ribattezzare la seconda accezione potrebbe essere un’impresa difficile ma feconda.

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Luca Passani
04 settembre 2025 - 00:00
Mi sembra un punto di vista un pò pignolo. Se applicassimo la stessa logica agli aerei, il professor Tomasin ci spiegherebbe che è improprio parlare di volo perché gli aerei non sbattono le ali? Dobbiamo dire che gli aerei non stanno veramente volando, e sarebbe meglio che trovassimo un altro nome? Che poi… qual’è la definizione di intelligenza negli umani che ci permetterebbe di dire che quella dei computer è cosa così diversa?

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Luca Fiocchi Nicolai
02 settembre 2025 - 00:00
L'adeguamento progressivo delle parole alle cose, la precisione terminologica e descrittiva si addicono forse meglio alle scienze esatte, in cui la formula matematica a rigore può sostituire l'enunciato verbale di una legge fisica. Vero anche che il discorso scientifico soggiace alle regole della retorica, per poter persuadere. Azzerare l'ambiguità è sconsigliabile oltre che vano quando il destinatario di un messaggio dalle implicazioni filosofiche, etiche e giuridiche è l'intera umanità. Il concetto di intelligenza certo non è privo di vaghezza. Ma si usa a tutti i livelli. Intelligente non è solo l'uomo ma il gatto, le bombe, Dio o la Natura. Ciò che è artificiale non è a sua volta Natura ? L'espressione "intelligenza artificiale" è meravigliosamente incerta e ambigua come le singole parole che la formano. Perfettamente adeguata. Ha un seguito universale e rende bene l'idea al poeta come al fruttivendolo, al ragioniere come all'italianista. L'Accademia sa di restare inascoltata; il contributo del Prof. Tomasin va interpretato come un dovere d'ufficio. Quanto al merito, trovo insoddisfacenti le risposte di Google alle mie ricerche (spesso esigenti risposte dettagliate), ottenute coll'ausilio dell'IA: paiono una rifrittura o un cieco assemblaggio inespressivo e sovente fuori bersaglio ricavato da varie fonti, inducendomi ad ignorarle; meglio per chi sa cosa vuole attingere a fonti primarie autorevoli e accreditate. Ma da chi si accontenta, sapendo di non potersi raccapezzare nel mare magnum della biblioteca universale, esiti di tal fatta sono giudicati più che buoni, "intelligenti". E il riconoscimento del vulgo è decisivo nel destino di un vocabolo. Ecco, l'intelligenza è questione di gradi.

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