Da intransitivo a transitivo: trauma della lingua o dei parlanti?

L'accademico Vittorio Coletti propone ai lettori una riflessione su alcuni casi di transitivizzazione attualmente riscontrabili in italiano.

Marzo 2019

Vittorio Coletti

 

Parlare di lingua per un linguista è oggi a rischio, specie tra i giustizieri grammaticali dei social e dei media, come per un medico parlare di vaccini. Siccome i figli da vaccinare sono i loro, molti pretendono di saperne più degli esperti. E così di lingua, visto che la usano tutti. Nondimeno, certo del desiderio di capire e documentarsi dei nostri lettori, riprendo qui l’argomento che ha suscitato tante polemiche e che di fatto riguarda la norma linguistica e la sua percezione, nella continua tensione tra conservazione e cambiamento. Mi scuso se questo “tema” sarà un po’ più lungo del solito.

È innanzitutto necessario ricordare che la lingua ha norme diverse o meglio: diversamente rigide a seconda dei modi e livelli di impiego, tipi di testo ecc. Ad esempio, come si è visto nel tema del mese scorso con “qual è”, nell’ortografia (che rappresenta al livello più rigido le esigenze della scrittura) una regola relativa alla presenza/assenza di un segno paragrafematico quale l’apostrofo è molto più restia ad essere modificata di una regola fonetica, tant’è che è tuttora un errore scrivere *igenico invece di igienico, anche se la sequenza ie rappresenta qui un dittongo puramente grafico, che non si pronuncia. La modifica di una norma, inoltre, è perlopiù prima accolta di fatto che coscientemente accettata, come ci ricorda Lorenzo Renzi (Come cambia la lingua, il Mulino 2012), quando scrive che l’innovazione di lui/lei con riferimento a un oggetto inanimato, in luogo dei tradizionali esso/essa, sarebbe probabilmente ancora respinta da non pochi parlanti che pure la usano comunemente.

La storia delle lingue ha mostrato quali sono le condizioni perché un’innovazione venga accettata, magari dopo una più o meno lunga resistenza della norma o della consuetudine che vengono modificate o annullate. L’ampiezza e/o l’autorevolezza dell’uso, un valore comunicativo aggiunto, compatibilità col sistema, sono condizioni che ricorrono frequentemente. Quando queste condizioni non si verificano o fino a quando non si verificano abbastanza ampiamente, le innovazioni sono rifiutate dall’utente o il giudizio su di esse resta in sospeso. Un buon esempio ci può venire dalla singolare vicenda della coniugazione del verbo fare e dei suoi composti soddisfare e disfare.  Questi verbi sono spinti a livello popolare e in toscano a conguagliarsi su quelli regolari in –are, formando così, poniamo, alla terza plurale del congiuntivo, invece di facciano, *faccino (come scriveva Machiavelli), soddisfino invece di soddisfacciano, disfino in luogo di disfacciano. Ma questa innovazione sta imponendosi per i derivati, anche perché grazie al loro prefisso, assomigliano più di fare a normali verbi in –are: soddisfino come sotterrino, disfino come distino, ma non si afferma per il comunissimo fare, che resiste nella sua coniugazione irregolare, ben padroneggiata, nonostante le (apparenti) anomalie di sistema, dai parlanti. Al contrario, il modello di fare rallenta all’imperfetto indicativo la deriva analogica dei suoi composti verso i verbi regolari in -are, tanto che le pur incombenti novità di *soddisfava e *disfava (su sotterrava e distava) sono ancora (giustamente) avvertite come erronee rispetto alle corrette ed etimologiche soddisfaceva e disfaceva, imposte dal verbo di partenza. Non è finita: i derivati in questione conservano e affermano nelle forme soddisfò e disfò (per altro oggi sostituite nell’uso, con crescente fortuna, da soddìsfo e dìsfo) una variante analogica e popolare del presente indicativo di fare: fo, che il verbo base sta (Toscana a parte) abbandonando. Ma il successo di fo nella coniugazione dei derivati non contribuisce alla resistenza di questa forma nel verbo generatore, quasi che le innovazioni possano essere ereditate dai figli, ma non risalire da essi ai padri.  Cosa ci dice questo caso? Ci dice che di fronte a varianti a basso valore aggiunto comunicativo, ancorché dentro paradigmi etimologicamente identici, uso e sistema possono prevalere alternativamente, sì che ora si impone l’autorità, in questo caso differenziante e conservatrice, dell’uno (come nel regolare facciano invece dell’analogico *faccino), ora la potenza (in questo caso) livellante e innovativa dell’altro (come negli analogici soddisfino e disfino in luogo degli etimologici soddisfacciano disfacciano).

Come abbiamo visto, dunque, in parole simili o addirittura identiche la spinta al cambiamento non si esercita uniformemente su tutto il paradigma che le riguarda, ma colpisce punti diversi e con diverso successo. È quello che possiamo osservare anche guardando i chiacchierati costrutti “siedi il bambino”, “esci il cane” ecc.

L’italiano popolare e regionale ci mette qui di fronte a un’innovazione di sistema, usando come transitivi dei verbi intransitivi. Per la verità, lo fa in maniera parziale (la verifica del passivo non è ancora né sempre valida), ma all’interno di un processo che coinvolge svariati verbi di moto e ha investito da tempo le lingue neolatine. In francese non c’è problema a asseoir l’enfant, sortir le chien, entrer la voiture, monter le courrier e in spagnolo il Diccionario della Real Academia classifica come prevalentemente transitivo sentàr, sedere, e riporta senza scandalo gli usi transitivi di entrar[1], nel senso di  “far entrare” (proprio anche del catalano) e di subir in quello di “portare qualcuno o qualcosa a un piano più alto” (registrato anche nel Novo dicionarìo compacto da lengua portuguesa di A. de Morais Silva): segno di una certa inclinazione al transitivo di questi verbi, e anche di altri, in verità, specie quelli già predisposti al costrutto dalla consuetudine col cosiddetto oggetto interno (da “vivere la vita” a “vivere la montagna”). Vale la pena ricordare, inoltre, che non sono pochi i verbi che da intransitivi, nella loro storia, sono diventati transitivi, con varie differenze, più o meno sensibili, di significato (abitare in montagna/ abitare la montagna, avanzare negli studi/ avanzare richieste); e ovviamente anche il contrario (gli aumentano lo stipendio/ i prezzi aumentano del 5 per cento). Data la parziale infrazione e deficit di sistema nella transitivizzazione dei suddetti verbi di moto (passivo problematico o mancante e quindi problematicità o mancanza del prezioso doppio punto di vista consentito dai normali verbi transitivi, che possono essere volti dall’attivo al passivo), l’uso più autorevole e formale (e in gran parte anche la coscienza comune) respinge l’innovazione, tanto che una nostra riflessione su di essa in rapporto ai vari livelli d'uso ha scatenato polemiche e sconcerto.

Ma perché l’uso, sia pure informale, familiare, poco consapevole, regionale, presenta sempre più spesso queste innovazioni, tanto che si moltiplicano le domande sulla loro liceità? Ricordando che Dante in Convivio I, 10 ammonisce che le novità debbono essere meglio e più motivate delle conservazioni ("vuole essere evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente"), proviamo a guardare dentro di esse, giuste o sbagliate che siano, e nelle loro motivazioni. Facciamoci subito una domanda. Perché queste novità si affacciano in frasi come siedi il bambino e non in *siedi il dottore *siedi l’avvocato, o, per prendere il caso più controverso, in esci il cane e non in *esci il dottore *esci l’avvocato?

In fondo la frase standard corretta è sempre la stessa, cioè il costrutto causativo “fare uscire, sedere x” quale che sia il soggetto x del verbo all’infinito. Ma l’innovazione comincia ad affacciarsi in quei casi in cui il soggetto grammaticale (il cane che esce, il bambino che [si?] siede) non è anche quello logico, perché il cane non può abitualmente uscire da solo di casa e il bambino non è ancora in grado di sedersi, come invece accade per il dottore o l’avvocato. Il cambiamento comincia cioè da un punto di “debolezza” del sistema, che propone lo stesso costrutto per casi e quindi significati diversi. La lingua sembra aver percepito, segnalandola con una forma differente, la scarsa autonomia logica del soggetto grammaticale del verbo all’infinito nella frase standard. L’innovazione si insinua, infatti - sia pure, al momento, solo a livelli popolari, regionali e pratici (in genere i primi a reagire) - con soggetti che non si muovono, per così dire, con le proprie gambe o autonomamente, e non si presenta invece, a nessun livello, con quelli che lo possono fare. In alcuni italiani regionali si dice scendi il cane, il pacco, ma non *scendi lo zio, a meno che questi non sia paralizzato su una carrozzina. Il fatto è che esci il cane corrisponde a un significato un po’ diverso dallo standard “fai uscire il cane” (dove in teoria potrebbe uscire solo il cane) e diventa “porta fuori il cane” (escono in due, padrone e cane!). Mentre *esci l’avvocato non sarebbe parafrasabile con “porta fuori l’avvocato” (a meno che l’avvocato non sia anche lui paralizzato), ma sempre con “fai uscire l’avvocato”, cioè proprio quella frase standard il cui eventuale cambiamento di costrutto, in questo significato, non produrrebbe alcun vantaggio comunicativo (e infatti la novità, con soggetti animati e autonomi, non si affaccia). Allo stesso modo, si sta diffondendo siedi il bambino ma non *siedi il dottore; la ragione è la stessa: in siedi il bambino il cambio di costruzione corrisponde a un cambio di significato (posalo, adagialo, mettilo…), che non ci sarebbe invece in *siedi il dottore, che si siede da solo, e quindi, è perfettamente detto dalla frase standard, che basta e avanza (“fai sedere il dottore”). Anche in scendi il pacco il significato non è “fai scendere il pacco”, ma “porta giù il pacco”, perché il pacco non scende da solo per le scale, come invece farebbe uno zio sano, che non “si porta giù” ma eventualmente “si fa scendere”, magari ubbidendo alla richiesta al citofono di chi è venuto a prenderlo e lo aspetta in basso (e quindi l’eventuale innovazione *scendi lo zio non serve e non attecchisce). Stessa cosa si potrebbe dire per salire. Insomma, può valere un po’ per tutti questi verbi l’impeccabile definizione dell’uso transitivo di sortir in francese (attestato dalla fine del Cinquecento) data dal Petit Robert: “portare fuori qualcuno che non può farlo da solo”.

Si vede allora che queste innovazioni, che forzano il sistema, hanno però, per così dire, un valore comunicativo aggiunto, perché al cambiamento di forma ne corrisponde uno di significato, che compensa, anche se solo parzialmente, la perdita della possibilità del passivo, in genere meno richiesta dai parlanti. Per questo, le novità in questione sono così diffuse, ma, ecco il punto, soltanto con quei dati tipi di soggetto. D’altra parte, lo abbiamo visto con gli esempi delle coniugazioni di fare e composti, le innovazioni non sono (almeno all’inizio) sistematiche, invasive, ma mirate, circoscritte.

Siamo dunque di fronte a innovazioni in incubazione, almeno a mio giudizio accettabili a livello pratico e familiare, soprattutto parlato (specie nel caso di sedere, che non a caso ha già un uso riflessivo, sedersi)[2], ma per il momento sconsigliabili o comunque ancora deprezzate (come si è ampiamente visto) nell’uso formale e scritto e nella coscienza riflessa popolare, perché pesano su di esse l’assenza di un uso autorevole e l’incoerenza di sistema, molto riprovata a scuola.

 

Note:

 


[1] Va ricordato che il Diccionario panhispànico de dudas precisa invece che l’uso transitivo di entrar, pur ampio, non è passato nella lingua colta.

[2] Il GRADIT di De Mauro non pone restrizioni all’uso transitivo di sedere, mentre restringe all’ambito regionale quello degli altri verbi qui esaminati.

 

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Marzo 2019
Anonimo
18 maggio 2019 - 00:00
Nella mia varietà (siciliana) l'oggetto della transitivizzazione deve per forza essere un oggetto inanimato! "Scendi il cane" o "siedi il bambino" non esistono, ma sì esistono "scendi la spazzatura" o "sali la spesa"; mi incuriosisce sapere dove si sentono i costrutti di cui si parla nel tema del mese. E' inevitabilemente più veloce come struttura ("entra la biancheria", se piove ad esempio), molto diffusa e in maniera incosciente (in realtà, l'alternativa intransitiva sembra non esistere proprio, se non nelle persone più colte o che sono state in contatto con varietà dell'italiano del nord)

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Romana Giaffei
01 maggio 2019 - 00:00
L' intervento del prof. Coletti risulta utile ed esauriente dal momento che le competenti delucidazioni sul tema sono rese ancor più apprezzabili dalla diffusa chiarezza espositiva. Sicuramente ne consiglierò un' attenta lettura a quei miei "famosi" colleghi che talora usano transitivamente i verbi intransitivi, persino ( incredibile dictu ) in contesti formali ! Grazie e lunga vita all'autorevole Accademia della Crusca ! Cari saluti a tutti.

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Luigino Goffi
03 maggio 2019 - 00:00
___Ho sempre creduto che l'uso transitivo di verbi intransitivi fosse proprio dei non acculturati. ___Ora scopro che lo fanno anche certi professori in contesti formali. ___E' evidente, allora, che c'è una motivazione, un bisogno alla base di tale uso. ___Il nostro compito è scoprirlo, altrimenti si rischia di rimanere in superficie.
scresti_redattore
19 aprile 2019 - 00:00

Cari lettori, siamo felici che il tema del professor Coletti susciti una così appassionata discussione. Vi preghiamo tuttavia di mantenervi aderenti al tema con i vostri commenti. Per non disperdere la discussione non verranno pubblicati gli interventi fuori tema.
Grazie,
La redazione

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Risposta
Ivana Gallo
24 aprile 2019 - 00:00
Gentile dottor Coletti, spesso mi capita di usare in senso transitivo, in contesto informale, proprio quei verbi di cui lei parla. Sono siciliana e nella mia Terronia è molto frequente. Forse proprio per l'influenza che le dominazioni, spagnola soprattutto, hanno lasciato alla nostra lingua. Adesso che abito a Torino, mi sono trovata più volte a disquisire sulla gravità dell'errore di usare la frase"esci la carne dal congelatore". Io evito di usarla perché sono un'insegnante di lettere e mi tocca prestare attenzione alla sintassi, ma mi rifiuto allo stesso tempo di dire "tira fuori dal congelatore" in uso nel nord Italia, che io trovo, se non grammaticalmente scorretto, semanticamente inappropriato, in quanto il verbo tirare presuppone l'esercitare una forza. Preferisco dire " prendo dal congelatore" , anche se mi sembra di tradire le mie origini. :). Mi piacerebbe sentire la sua opinione.
Luigino Goffi
18 aprile 2019 - 00:00
___Il Tema del mese verte sulla legittimità o no - per un buon italiano - di sdoganare espressioni come "esce il cane" (nel senso di "egli sta portando fuori il cane"), che cominciano ad avere, nel mondo di tutti i giorni, un certo successo. Abbiamo visto negli altri invii - e qui non possiamo ripeterci - che il bisogno di velocizzazione - il quale sta alla base, ad esempio, del successo dell'inglese - ne impone lo sdoganamento, ma la logica (cioè la chiarezza della lingua) permette tale sdoganamento solo a patto di introdurre nella nostra lingua la distinzione tra soggetto e complemento oggetto. ___Tale distinzione non è una mia fissazione, perché è presente nelle migliori lingue. Le lingue classiche, ad esempio, a tal fine, utilizzano il metodo delle desinenze, cioè dei casi. In latino, il nominativo "rosa" indica il soggetto e l'accusativo "rosam" il complemento oggetto. Il vantaggio lo conosciamo tutti, ma diciamolo con le parole di Umberto Eco: "La presenza dell'accusativo permette [...] di invertire l'ordine sintattico riconoscendo sempre chi fa l'azione e chi la patisce" (Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, ed. Laterza, 1993, pag. 354). ___Lungi dall'essere un tema marginale, "il problema di come identificare soggetto e predicato è un punto centrale della linguistica" (Andrea Moro, Breve storia del verbo essere, ed. Adelphi, 2010, pag. 87). Il Moro, in questo libro (pag. 86 e seguenti), descrive molto bene il fallimentare tentativo del linguista danese Otto Jespersen di individuare, per la lingua inglese (la quale, come l'italiano, non ha i casi), un metodo oggettivo per distinguere il soggetto dal complemento oggetto. E - aggiungo io - lo Jespersen non poteva trovarlo perché l'unico metodo valido per le lingue senza i casi è il raddoppio fonosintattico, il quale, però, presuppone vocali dal suono chiaro (come la "i" dell'articolo italiano "il"), mentre la "e" dell'articolo inglese "the" è indistinta, e pertanto darebbe luogo a un orribile glottal stop che neppure gli inglesi sopporterebbero. Non posso fare esempi per via del correttore automatico, ma chi ha letto tutti i miei interventi ha già capito. ___La velocizzazione della lingua italiana va operata non solo per motivi pratici e per la sua sopravvivenza, ma anche per rendere un ottimo servizio al mondo della creazione letteraria, che, a uno sguardo superficiale, sembrerebbe aliena a tali tematiche. Si intende, che coll'espressione "velocizzazione della lingua" non facciamo riferimento all'arte di fare riassunti, cioè di essere sintetici - arte, peraltro, indispensabile, assieme all'arte sua contraria, l'analisi, per una crescita culturale dell'individuo -, ma facciamo riferimento all'invenzione di parole più brevi, più corte di quelle attuali, perché si deve aver la possibilità - quando lo si vuole - di essere veloci non solo nella sintesi (cioè nel riassunto di un pensiero) ma anche nell'analisi. ___In questo scritto dimostreremo come l'introduzione di parole più brevi di quelle attuali renderà un ottimo servizio anche al meraviglioso mondo dell'invenzione poetica e della traduzione. ___1: Facciamo un esempio di miglioramento dell'invenzione poetica reso possibile dalla velocizzazione dell'italiano, considerando un passo dantesco. Nella terzina 16 e 17 del Canto 5° dell'Inferno, Dante scrive: ____________E come i gru cantando van lor lai _________facendo in aer di sé lunga riga, _________così vidi venir, traendo guai, ____________ombre portate dalla detta briga; _________perch'io dissi: "Maestro, chi son quelle _________genti che l'aura nera sì castiga?" ______Come si vede, Dante, sempre attento ad evitare gli inarcamenti, negli ultimi due versi vi cade pesantemente perché spezza e alloca in due diverse righe l'unitaria (e quindi indivisibile) locuzione "quelle genti". ______Come fare per eliminare il brutto inarcamento? Poiché "quelle" è inamovibile per motivi di rima, non resta che spostare al verso precedente la parola "genti"; e per far ciò bisogna assolutamente ridurre la voce verbale "son" a un monosillabo cominciante per vocale (in modo da farlo contare metricamente come zero). Ma come fare? Paradossalmente, la soluzione ce la fornisce lo stesso Dante, qualche verso più in su, quando scrive (verso 13 b): "ènno dannati i peccator carnali". Ebbene: "ènno" è il sinonimo veloce di "sono", "essi sono". Cominciando per vocale, infatti, "ènno" permette la sinalefe e dunque la diminuzione di una sillaba, e se, poi, lo tronchiamo (ottenendo "èn") lo riduciamo a zero sillabe, mentre "son" conta sempre una sillaba. A questo punto, con pochi ritocchi di facciata, che non modificano minimamente il senso del testo, risolveremo il nostro problema. ______Rileggiamo Dante come si deve: ____________E come i gru cantando van lor lai _________facendo in aer di sé lunga riga, _________così vidi venir, traendo guai, ____________ombre portate dalla detta briga; _________perch'io dissi: "Maestro, che genti èn quelle, _________che l'aura nera lì, così, castiga?". ______Come si può udire, rileggendo più volte quest'ultima versione (e confrontandola con la prima), l'inciampo cacofonico dell'inarcamento è totalmente sparito, e i due ultimi versi corrono veloci in una musicalità perfetta. ______Che cosa ha reso possibile questo grande risultato (il perfezionamento addirittura di Dante)?: la velocizzazione della lingua, cioè il fatto che non ho usato la parola lenta "son" ma il suo sinonimo veloce "èn". ___2: La velocizzazione delle parole italiane rende ottimi servigi anche ai traduttori, i quali, con una lingua dalle parole così lunghe come quella italiana, cascano veramente male. ______Vediamo, ad esempio, che cosa scrive, a riguardo dell'attività della traduzione, l'Ungaretti, nella propria prefazione alla bella versione poetica dell'Eneide di Virgilio ad opera di Cesare Vivaldi (editrice Edisco, Torino, s. d. ma 1981): "La parola d'un altro [...] è inimitabile, non può caratterizzare e definire se non la persona cui appartiene e che la esprime". E inoltre: "Una parola che appartenga a una lingua ha suono, cadenza, possibilità d'intreccio verbale che non possono trasferirsi in alcun modo ad altra lingua. [...] Tutte queste difficoltà Vivaldi le conosceva benissimo, e il suo primo merito è di avere ammesso con umiltà di non poterle risolvere e che nessuno mai avrebbe potuto risolverle. Quanto un traduttore scrupoloso possa fare, l'ha fatto". ______In queste parole c'è tutta l'arresa di chi ha alzato bandiera bianca e sta dicendo, in ultima analisi, che la lenta lingua italiana (lenta, ripeto, perché ha parole lunghe, non perché i suoi parlanti non siano capaci di sintesi) non riesce a tradurre metricamente il veloce latino. ______Con una premessa del genere non ci si può meravigliare se Ungaretti nelle proprie traduzioni dei Sonetti di Shakespeare sia costretto a quasi raddoppiare la lunghezza dell'endecasillabo. E' vero che qui il problema, più che la lingua italiana, è proprio Ungaretti: il conciso poeta del "M'illumino d'immenso" diventa irriconoscibile quando traduce, tanto che Gabriele Baldini (in Shakespeare, Sonetti, traduzione Darchini, cura di Baldini, ed. Feltrinelli, 2014, p. 180) non lo ritiene "possedere bene la materia" come, invece, Montale, che, con appena tre sonetti tradotti ha fatto scuola: si pensi a Elio Chinol, che, nel tradurre i Sonetti del Bardo ha ben presente la lezione montaliana (Shakespeare, Sonetti, cura di Chinol, ed. Laterza, 2012), e che, in uno scritto finale (pag. 178), definisce la versione di Montale del distico finale del sonetto 33 "un capolavoro di concisione", in un giudizio estendibile a tutta la traduzione del poeta genovese. E Montale non è solo conciso nei concetti, ma riesce a riportare il verso all'endecasillabo. E c'è di più: riescono a tradurre in endecasillabi rimati il Sanfelice (in fine '800), e, in tempi recenti, il Piumini (ed. Bompiani), il Colizzi (ed. Dante Alighieri), e la Franco (ed. La vita felice). Da tutti questi esempi sembrerebbe proprio di dover concludere che non sia la lingua italiana il problema, ma proprio certi autori come Ungaretti (un altro esempio è Palatroni) che non possiedono bene l'arte della sintesi. ______Sennonché, a parte il fatto che una lingua veloce (cioè con parole brevi) aiuta anche gli autori lenti, è decisivo constatare che chi ce l'ha fatta a tradurre in endecasillabi rimati non è riuscito, però, a fare di più. Nelle loro traduzioni, infatti, non sempre riescono ad essere fedelissimi; cadono, a volte, nell'inarcamento; e gli accenti non sempre sono nei punti giusti. ______L'italiano attuale più di tanto non riesce a fare. ______La sofferenza di chi deve tradurre da una lingua veloce (perché dotata di parole brevi) come l'inglese in una lingua lenta (perché avente parole lunghe) come l'italiano appare evidente in molti luoghi. _________1: Leggiamo il Piumini: ____________"La lingua inglese è notoriamente più densa dell'italiano: a parità di parole, di ingombro tipografico, corrisponde in inglese un materiale semantico maggiore, un maggiore "discorso". Pur con una sillaba in meno, il pentametro giambico [: dieci sillabe] contiene più enunciato, più informazione, rispetto all'endecasillabo [italiano] che, per prossimità formale e derivazione storica, si può fargli corrispondere" (in Shakespeare, Sonetti, traduzione di Roberto Piumini, ed. Bompiani, 2002, pag. 8). _________2: Ancora più esplicito è Edoardo Zuccato, professore universitario, che scrive: ____________"L'inglese, si sa, è lingua concisa e ricca di monosillabi, per cui nelle traduzioni parecchi dettagli dell'originale sono stati omessi[...]. Mi piacerebbe chiedere a linguista se esiste una lingua più ingombrante dell'italiano. Per quanto ne so io, ai nostri traduttori tocca il poco invidiabile primato di lavorare con l'idioma più elefantiaco del globo" (in Shakespeare, Sonetti, traduzione di Pino Colizzi, Società editrice Dante Alighieri, 2012, pag. xii-xiii). ______Da queste citazioni risulta evidente che il problema è proprio la lingua italiana attuale, colle sue lunghissime parole. L'italiano attuale, insomma, nel tradurre poesie dall'inglese, non riesce ad andare più avanti dell'endecasillabo rimato. ______Ebbene, ora dimostreremo che , coll'italiano velocizzato, sarà possibile tradurre il sonetto 71 di Shakespeare non solo in endecasillabi rimati, ma anche senza gli inarcamenti, con gli accenti nei punti giusti, e con una buona fedeltà testuale. _________1: Un'ottima traduzione del primo verso potrebbe essere questa: "Non piangere per me dopo la mia morte". Purtroppo, però, ha una sillaba in più. Per ridurlo all'endecasillabo basta sostituire l'articolo "la" con un articolo cominciante per vocale (per permettere la sinalefe). In italiano velocizzato, l'articolo "il" non è - come invece nell'italiano tradizionale - un articolo maschile singolare, ma - esattamente come l'articolo inglese "the" - è un articolo comune, utilizzabile, cioè, davanti ad ogni parola: maschile, femminile, singolare, o plurale che sia. Certo, ai tradizionalisti, questa regola potrà sembrare strana e inaccettabile, ma, ora, dimostreremo che si sbagliano, perché essa permette di migliorare anche i classici, i quali non sono riusciti a risolvere il problema dell'eccessiva lunghezza degli articoli femminili in caso di mancanza di spazio metrico. Facciamo un solo esempio, ma evidentissimo. Prendiamo i versi 261 e 262 dell'Aminta del Tasso. __________________Tu prendi a gabbo i miei fidi consigli _______________e burli mie ragioni? O in amore . ____________Chiediamoci perché nel primo verso il Tasso mette l'articolo ("i") e, invece, nel verso successivo non lo mette. La spiegazione è evidente: l'articolo "i", cominciando per vocale (e rendendo possibile, così, la sinalefe), permette, qui, di rispettare l'endecasillabo; l'articolo "le" ("le mie ragioni"), invece, cominciando per consonante, no. Ma l'articolo non è un pagliaccio che possiamo mettere o togliere come ci pare e piace. Davanti ai nomi l'articolo è obbligatorio perché è proprio l'articolo a distinguere i nomi dai verbi. Ad esempio: "canto" significa "io canto" (è, dunque, un verbo); ma se gli premettiamo l'articolo diventa un nome: "il canto". Altro esempio: "telefono" significa "io telefono" (è, dunque, un verbo); ma con l'articolo davanti diventa un nome: "il telefono". Gli esempi sono infiniti. L'articolo, dunque, davanti al nome va messo obbligatoriamente. Non si prenda - per l'amor di Dio! - l'errato vizio dei giornalisti di togliere gli articoli per guadagnare spazio nelle testate. D'ora in avanti tale spazio lo guadagneranno coll'italiano velocizzato, che permette di abbreviare le parole; ma l'articolo non si può togliere davanti ai nomi, pena la confusione linguistica. ____________L'articolo, dunque, nel secondo verso su citato del Tasso va messo obbligatoriamente, ma siccome quello femminile, cominciante per consonante è troppo lungo, esso va sostituito coll'articolo comune "il", più breve perché cominciante per vocale. Ciò, inoltre, permette, di usare la parola "i" non più come articolo (spreco inutile, perché, in italiano riformato, c'è già "il" come articolo comune), ma come velocizzazione della lenta preposizione "di". ____________Ecco i versi depurati - tenendo conto, inoltre, che, essendo entrambi dei complementi oggetti, l'articolo comune "il" viene modificato dal raddoppio fonosintattico, che, per evitare il correttore automatico, indicherò col simbolo "_": __________________Tu prendi a gabbo i_miei fidi consigli _______________e burli i_mie ragioni? O in amore . ____________Problema risolto. Ricordiamo, inoltre, che il raddoppio fonosintattico va letto senza arresto di glottide: se si scrive staccato è solo per motivi di immediatezza visiva, ma va letto come un qualunque raddoppio semplice. Chiediamoci: la parola "ammontare" è italiana? Si? Allora anche "i_miei fidi" è italiano, perché la pronuncia delle due "m" è identica. ____________Ritorniamo a Shakespeare: dopo quanto detto, il primo verso va tradotto così: "Non piangere per me dopo il mia morte": in cui l'articolo comune "il" ha preso il posto del lento "la" che non ci permetterebbe l'endecasillabo. _________2: Mentre i due versi successivi potranno essere scritti in italiano tradizionale, il quarto verso ha bisogno di una abbreviazione: "er" al posto di "nella". _________3: Nel quinto verso, l'articolo specificativo "questi" (qualcuno si ostina ancora a chiamarlo "aggettivo dimostrativo") va reso con "en" ("e" stretta, da non confondersi con "èn", larga, che significa, abbiamo visto, "essi sono"), Precisiamo, poi, che sarà modificato dal raddoppio fonosintattico, perché qui indicherà il complemento oggetto. Ho trattato a fondo del problema di questo terzo articolo (diverso da quello determinativo e quello indeterminativo) nel mio intervento del 13 maggio 2018, reperibile nel passato Tema "Ma siamo proprio sicuri che la lingua della ricerca sia solo l'inglese?". _________4: Nel nono verso, avrò bisogno di rallentare, e sostituirò l'articolo "il", troppo veloce qui, nel più lento "lo". _________5: Nei versi 12 e 13 la negativa "non", troppo lenta, subirà un'aferesi consonantica, diventando "on" (che non c'entra nulla coll'inglese di locuzioni tipo "on line"). _________6: Nell'ultimo verso, la preposizione "di", lenta da morire, si velocizzerà in "i"; come quando diciamo "chiaro i luna" per significare "chiaro di luna". ______Ecco dunque il testo della poesia reso non solo in endecasillabi rimati, ma anche privo di inarcamenti, cogli accenti nei punti giusti e con fedeltà testuale. Ripetiamo che a questo risultato l'italiano tradizionale, che tutti noi parliamo, non è assolutamente in grado di arrivare. _______________SHAKESPEARE, LA CAMPANA (SONETTO 71) (traduzione di Luigino Goffi) ____________Non piangere per me, | dopo il mia morte, _________oltre l'ultimo | rintocco di campana, _________nunziante al mondo vile, | tetra diana, _________che er andrò, | compiendo la_mia sorte. ____________Anzi, quando en miei versi | leggerai _________non ricordar | nemmeno la_mia mano, _________che pur li scrisse, | e lasciami lontano _________se solo al pensar me | tu soffrirai. ____________& lo_ mio nome più | non pronunciare _________quando sarò commisto | coll'argilla _________perché negli occhi tuoi | non voglio stilla, _________volendo che tu on debba | tribolare, ____________& perché il mondo, | ficcanaso on sia, _________& non si burli i te | per causa mia. ______Con questo meraviglioso sonetto, degno del miglior Shakespeare, l'autore prega la propria amante - donna altolocata - di non soffrire e di non farsi scoprire - dopo che lui sarà morto - con pianti o pronuncia di nomi, perché la gente maldicente potrebbe prenderla in giro per essersi lei, nobile, messa sentimentalmente con un teatrante (allora erano altri tempi!). ______Spero, però, che al lettore non sfugga la perfezione formale della traduzione, inattingibile col lento italiano di oggi. ______La lingua italiana deve velocizzarsi, infarcendo il vocabolario di parole brevi, soprattutto quelle semanticamente non piene, ad esempio con "il" al posto di "lo", "la", "li", "le"; "i" al posto di "di", "on" al posto di "non", "en" ("e" stretta) al posto di "questo", "questa", "questi", "queste", ecc. ______S'intende che ognuno parla come vuole, ma se voglio parlare veloce, la lingua deve essere in grado di permettermelo. Una lingua veloce permette di parlare lento, ma una lingua lenta non permette di parlare veloce. ______La lingua italiana, pur non cambiando sostanza, deve cambiare pelle, altrimenti - di fronte al travolgente inglese che avanza - farà la fine di Bendicò. ______Vogliamo questo?

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Marco Iudica
25 aprile 2019 - 00:00
Sono tre volte che cerco di risponderLe e per tre volte il mio commento non viene pubblicato. Nella speranza che questo passi, sarò più laconico sperando di non apparirLe più aggressivo. Il secondo verso è un dodecasillabo. Come vede è dura persino in frasi lineari perché andarsi ad ingarbugliare con il raddoppiamento sintagmatico? Pensi a far capire una regola come quella che vorrebbe far passare a chi non è avvezzo a scrivere italiano. Non piangere per me, | dopo mia morte, oltr'ultimo | rintocco di campana, nunziante al mondo vile, | tetra diana, che me ne andrò, | compiendo la mia sorte. Anzi, quando i miei versi | leggerai non ricordar | nemmeno la mia mano, che pur li scrisse, | e lasciami lontano se solo al pensar me | tu soffrirai. deh lo mio nome più | non pronunciare quando sarò commisto | coll'argilla perché negli occhi tuoi | non voglio stilla, volendo che tu non debba | tribolar, perché il mondo, | ficcanaso non sia, non si burli di te | per causa mia. Non c'è bisogno di ricorrere ad acrobazie metriche suvvia. L'italiano che conosciamo è sufficiente.... Cordiali saluti
Risposta
Marco Iudica
24 aprile 2019 - 00:00
Il secondo verso è un dodecasillabo sig. Goffi. Capita. Vede come è facile cadere nelle spire della metrica già senza problemi di raddoppiamenti? Figuriamoci se poi ci impantaniamo sul contraddittorio ossimoro del transitivizzare l'intransitivo. In-transitivo vuol dire che non può essere transitivo cosi come in-toccabile vuol dire che non si può toccare e in-frangibile che non si può rompere. E l'italiano non è fatto per tradurre le altre lingue. E' italiano e basta. Leonida direbbe: "Questo è l'italiano" Ad Majora
Anonimo
10 aprile 2019 - 00:00
Triste constatare come Gallagher e Traffic abbiano più commenti di quanti non ne esprima il presente tema, questo è l'interesse degli italiani per la propria lingua. Andrebbe alimentato.

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Vm
08 aprile 2019 - 00:00
"Esci l'avvocato" secondo me significa in ambito familiare, o meglio ancora "malandrino", tira fuori il contatto di un avvocato che risolve i problemi dei parlanti.

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Flavio Gagnor
24 marzo 2019 - 00:00
Ho letto il saggio di L.Renzi citato dal prof.Coletti : in sintesi, mi pare che il problema sia sempre lo stesso :è evidente che, finché si rimane ad un livello di esame storico o fenomenologico della lingua ( non del linguaggio : Heidegger avrebbe qualcosa da dire in merito) non potrà mai sussistere il concetto di "errore"e qualche testimonianza la si troverà sempre; ma ,se si parla ,invece, di livelli espressivi (e quindi anche di innovazioni "colte": un narratore di costume potrà usare l'espressione" escimi il cane " o l'accentazione"òmega" se descrive ambienti culturalmente consoni a questo livello culturale ), non si potrà certo mai prescindere dall'ampiezza di visione del mondo del parlante, e bisogna avere il coraggio di sottolinearlo , non trattando delle innovazioni dettate da un basso livello culturalei alla stregua di novità "onomaturgiche" .

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Luca Passani
23 marzo 2019 - 00:00
Noto con dispiacere che gli admin del sito non sono intervenuti per rimuovere i commenti di Iudica, che si permette impunemente di fare dell'ironia sul nome degli altri commentatori (il mio, in questo caso). Non solo, consentono a Iudica di imperversare con lunghi commenti senza senso in cui costui vorrebbe spacciare il suo antiquariato linguistico come cultura e conoscenza della lingua italiana. Non pago, il signore in questione vorrebbe anche che la Crusca si tramutasse in uno strumento a suo disposizione per randellare virtualmente chiunque non abbia le conoscenze pataccare acquisite con anni e anni di studi (sicuramente durissimi) chi cose di cui, francamente, nel 2019 non gliene frega più niente a nessuno. Davvero non si può dire "gli" al posto di "a loro"? Gli anglofoni ironizzerebbero sulla possibilità concreta che il tizio in questione sia stato rapito dagli alieni ottant'anni fa e che ce lo abbiano restituito (non richiesto!) solo di recente. Davvero l'Accademia percepisce come valide e non meritevoli di replica le posizioni di Iudica? Davvero la Crusca crede che ci sia valore in un tale ripiegamento culturale su se stessi? Se le cose stessero così (non voglio crederlo), la Crusca sarebbe parte del problema più di quanto essa potrebbe essere parte di una soluzione del rilancio culturale italiano, sia nazionale che internazionale. Luca Passani

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Marco Iudica
21 marzo 2019 - 00:00
Che peccato, ci stiamo perdendo l'occasione per confrontarci su un tema cruciale: cosa ci si aspetta dalla Crusca? Se si cerca su wikipedia, sono ben specificati obiettivi e finalità di questa antichissima istituzione che nasce a "difesa" dell'italiano e diventa ogni giorno che passa più tollerante rispetto all'italiano parlato dai più. E naturalmente questo comporta grossolane divergenze che configurano due posizioni principali: da una parte chi difende ad oltranza un italiano cristallizzato nella sua forma più pura perché la ritiene la più sistematica e ineccepibile, dall'altra chi invece ritiene che la lingua viva sia quella parlata dalla maggioranza degli italiani e che quindi meriti rispetto ogni forma di cambiamento e di diversità in quanto fonte di crescita e di perfezionamento. E' ovvio che in medio stat virtus: giusto difendere la lingua ma altrettanto giusto è tenere aperta la porta al perfezionamento e all'evoluzione della lingua. A me sembra opportuno che la Crusca accetti i cambiamenti ma con controlli e protocolli che siano rigorosi e attenti. Non può essere un criterio quello della diffusione di una novità. Nè quello del riscontro in grandi autori riconosciuti dai più come autori di prestigio. Nè la ricerca di passaggi etimologici suggestivi e intriganti. L'accettazione di un cambiamento non deve essere uno "sdoganamento" ma dovrà passare per una rigorosa analisi delle regole già esistenti che consentano o meno il passaggio fisiologico e non traumatico al nuovo. Si pensi alla scomparsa del Voi sostituito dal Tu e dal Lei. Nessuna regola è stata infranta. Però il cambiamento è stato radicale. Come riporta il Prof. Coletti "le novità debbono essere meglio e più motivate delle conservazioni ("vuole essere evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente"). Dover a tutti i costi far passare per buono quello che attualmente è considerato dalla maggior parte dei cultori della materia come un grossolano errore, a mio sommesso avviso, è assolutamente da evitare. Allora tra le funzioni della Crusca sarebbe auspicabile: una lotta all'ultima sillaba con la stampa e con chiunque scriva castronerie, nel senso di segnalarlo, metterlo all'indice. Non si deve accettare che giornali regolarmente pubblicati possano per esempio denominarsi "L'eco sportivo" e quando qualche sedicente giornalista usa eco al maschile deve essere messo all'indice. E' chiaro che questo è un lavoro impopolare e al limite del politicamente corretto. Un alunno di terza elementare può considerare eco un sostantivo maschile. Un giornalista no. Non voglio dire che andrebbe radiato dall'albo ma un medico che sbaglia paga per i suoi errori e un giornalista perché dovrebbe farla franca? Perché scrive cose interessanti? Questo non deve passare e penso che la Crusca debba intervenire in situazioni di questo tipo. Non può passare al festival di Sanremo il te usato per tu senza che nessuno lo censuri e spieghi che è un errore. I giovani corrono dietro a questi giovinastri acculturati che "scrivono" rap con rime improponibili. Sono diventati miti e c'e' gente che rischia la pelle per andarli a sentire in concerto (con annesso giro di droga ... ed istigazione a comportamenti antisociali). Questo perché anche la forma è sostanza. E' l'eterna diatriba tra forma e sostanza: è vero l'abito non fa il monaco. Posso scrivere in maniera corretta dicendo cose sbagliate. Ma il monaco vero deve portare l'abito. E non può esistere una buona sostanza che abbia una cattiva forma nello stesso modo in cui non può esistere una cattiva sostanza che abbia una buona forma. Quindi se scrivo cose giuste le devo scrivere correttamente, altrimenti questo deve essere sufficiente a inficiare il contenuto e la sostanza di quello che dico. E' il grande problema in estetica della definizione di arte: Hegel la definiva il giusto mezzo (guarda un po', di oraziana memoria) tra il contenuto (quello che scrivo, che musico, che dipingo, che fotografo) e la forma (quanto so scrivere, fare musica, dipingere fotografare, quanto so). E spero che nessuno se ne esca con Ligabue (il pittore non il musicista) o la pittura naif o le poesie dei bambini. Se uno dei giovani di cui sopra ascoltasse un'opera di Donizzetti o una sinfonia di Beethoven si annoierebbe a morte e continuerebbe a preferire Mahmod o Ultimo. Se conoscesse come la sinfonia o l'opera nasce, se conoscesse la vita degli autori, l'ambiente in cui sono state ideate l'opera e la sinfonia, se conoscesse, se capisse la forma, riuscirebbe a capire e ad amare i contenuti. Persino Picasso cubista sembra ridicolo se non si conosce la sua storia e se non si conoscono i suoi quadri giovanili. Sissignori sempre lì si torna, la cultura è conoscenza della forma e dei contenuti. Per troppo tempo una pseudocultura potente ha combattuto questi sentimenti con l'apoteosi della sostanza. Non si mette in discussione la sostanza. Ma solo che una buona sostanza per essere tale deve avere una buona forma. Chiedo di evitare commenti superficiali della zia o della signora della porta accanto. Dovremmo tutti essere stufi del solito discorsetto preferisco uno bravo anche se veste male e che le mani del lavoratore devono essere sporche. E' bene che uno bravo vesta meglio che può e il lavoratore, quando può, si lavi le mani. Chi ritiene di scrivere qualcosa che gli altri debbano/possano leggere, deve conoscere le regole che sono alla base della grammatica italiana. Se si vuole giocare ad un gioco bisogna conoscere le regole del gioco. Ecco la funzione di arbitro imparziale e affidabile, che mi aspetterei da un'istituzione come la Crusca promotorice della conoscenza della forma e dei contenuti. Le regole ci sono, se non soddisfano vanno cambiate, non perché chi non le conosce non le usa, per usare poi quelle che usa (aneddotiche e personalissime) chi non le conosce. Grazie per l'attenzione.

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Luigino Goffi
21 marzo 2019 - 00:00
____L'utilizzazione transitiva di un verbo intransitivo, come ad es. "esci il cane" o "siedi il bimbo", è, da un lato, necessaria per motivi di velocizzazione del parlato, ma, dall'altro, sembra proprio una forzatura linguistica. ____Eppure, il problema va affrontato senza preconcetti e risolto perché il bisogno di velocizzazione è molto sentito dai parlanti e il non soddisfarlo fa il gioco dell'inglese: una lingua che ha nella velocità l'arma vincente per fagocitare le altre lingue, soprattutto l'italiano, che se non si velocizzerà per tempo, verrà completamente esautorato dall'idioma di Shakespeare. ____Come dimostra la vicenda del Politecnico di Milano, il cui Senato accademico voleva che dal 2014 le lauree magistrali e i dottorati di ricerca fossero ESCLUSIVAMENTE in inglese, la lingua italiana è VERAMENTE in pericolo. A farci dormire sonni tranquilli non basterà la sentenza costituzionale 42 del 2017, sollecitata dalle forze più lungimiranti di quell'Università, perché tale pronuncia si oppone alla rimozione totale della lingua italiana, ma non a che il maggior numero dei corsi sia in inglese. E, inoltre, che cosa succederebbe se, tra qualche decennio, dovessero entrare in Consulta giudici inglesisti? ____Che il momento, per l'italiano, sia molto critico, Marazzini non lo nasconde, perché, nel suo appassionante libro (che, tra l'altro, riporta la vicenda del Politecnico: pag. 62 e segg.) intitolato "L'italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua", ed. Rizzoli (Mondadori), 2018, scrive (a pag. 225): ________"Nel 1995 avevo azzardato una previsione secondo la quale dal 2250 al 2300 l'italiano avrebbe cessato di esistere, perché tutte le nostre parole sarebbero state sostituite da parole inglesi". ________Questa previsione va presa molto sul serio, tanto che l'autore aggiunge (alle pagg. 7-8): ________"Dobbiamo prepararci a quanto accadrà, per affrontare un destino di cui già si intravedono i primi segnali. E' facile intuire che la lingua italiana, nel mondo globalizzato, andrà incontro a una crisi di cui si manifestano ora i primi sintomi allarmanti, sintomi che spaventano anche altre lingue d'Europa, soprattutto quelle latine. Abbiamo un grande passato [...], ma non siamo altrettanto certi di avere un grande futuro. O almeno, è probabile che per avere un futuro decente occorra cambiare strada e abbandonare alcuni luoghi comuni a cui ci si è affezionati in anni recenti ". ____Ora, questo cambiare strada altro non può essere - secondo me - che il migliorare la lingua italiana, riformandola in modo da renderla più veloce e più precisa, senza, al contempo, farle perdere la sua inarrivabile bellezza, cioè eufonia. Solo così l'italiano riuscirà a tener testa all'inglese e a salvarsi dall'estinzione. Replicare che non è solo una questione linguistica ma anche di potere economico, politico, militare e tecnologico è la scusa dei demoralizzati e dei perdenti. Dobbiamo, invece, creare un italiano talmente veloce (cioè con parole e frasi talmente brevi, ma pur sempre precise e belle) da fare in modo che gli italiani si chiedano: "Ma perché devo parlare e scrivere in inglese se in italiano faccio prima?". ____Per salvare la lingua italiana, non basta, dunque, esaltarne l'ovvia grande bellezza, perché i nostri tempi sono improntati alla velocità, come Marinetti e i suoi futuristi previdero benissimo. E non basterà neanche l'azione di sensibilizzazione politico-giuridica - anche se ciò può fare molto, come nel caso appena visto del Politecnico milanese. ____Queste azioni saranno ovviamente necessarie, ma non sufficienti perché, in ultima analisi, la lingua italiana non si salva se non rendendola più appetibile delle altre lingue, cioè rendendola più veloce e precisa dell'inglese, mantenendone, però, al contempo, la sua grande bellezza, resa possibile dalla sua anticonsonanticità - cioè dal fatto che le sue parole semanticamente piene terminano rigorosamente per vocale, e quelle non piene anche per "l" (elle), "n", "r" (e solo con queste) -. (Non potendomi qui dilungare, rinvio ai miei sei ponderosi interventi reperibili cliccando - in alto a destra della presente pagina - sul pulsante "Vai alla sezione" de "Gli ultimi temi del mese" e cercando il Tema di Marzo 2018 intitolato "Ma siamo proprio sicuri che la lingua della ricerca sia solo l'inglese?". In quegli invii (=post) ci sono anche le risposte alle possibili obiezioni). ____Che il bisogno di velocizzazione sia molto sentito dagli italiani lo si capisce dal loro uso massiccio dell'inglese, dei dialetti italiani, e di costruzioni italiane eterodosse, ma veloci, come appunto quelle in discussione ("esci il cane", "siedi il bimbo"). E che cosa l'inglese, i dialetti italiani, e l'italiano eterodosso hanno in comune, che l'italiano stàndaro (=standard) non ha? La velocità! ____I linguisti ingenui trascurano la legge fondamentale della linguistica pratica, e cioè che la parola breve, anche se straniera, scaccia quella lunga, anche se italiana, dalla circolazione. ________1: Ecco perché si preferisce dire "trend" piuttosto che "tendenza" (la soluzione al problema l'ho indicata nel mio intervento del 20 aprile '18 reperibile nel luogo sopra citato), oppure "hotspot" piuttosto che "centro di identificazione" (soluzione nel mio invio del 27 aprile '18). Ciò è tanto vero che in quei pochi casi in cui, al contrario, la parola italiana è più breve di quella straniera è quest'ultima a cedere il passo: chi dice più, ormai, "baby sitter"? Al suo posto si preferisce giustamente il brevissimo e italianissimo (finisce infatti per vocale) "tata". ________2: E come si spiega il successo dei dialetti in Italia? Solo col fatto che l'Unità del Paese è recente? Solo col fatto che il dialetto è l'idioma degli affetti? La verità è un'altra: la lingua e il dialetto soddisfano esigenze diverse ma entrambe sentite: la lingua è precisa e, dunque, non è veloce; il dialetto è veloce e, dunque, non è preciso. Un trattato scientifico non può venir scritto in dialetto: non sarebbe preciso; al contrario, nella vita di tutti i giorni, i tempi compressi spingono per la velocità linguistica, per cui il dialetto, ma anche l'inglese e l'italiano eterodosso rientrano in gioco. ____________Tuttavia, le mie ricerche (riportate in gran parte negli interventi sopracitati) dimostrano che quel "quindi" è sbagliato e che la lingua italiana non ha ancora raggiunto il livello critico superato il quale o si è precisi o si è veloci e non si può essere entrambi; l'italiano è molto al disotto di quella demarcazione, per cui tanto rimane ancora da fare per renderlo contemporaneamente più veloce e più preciso. ____________Rendiamo chiaro il discorso con un esempio. Consideriamo il dialetto di gran lunga più importante della penisola, che, come tutti i teatrali e cantanti (lirici e non) ben sanno, è quello napoletano. ____________Come mai la locuzione napoletana (tratta da una poesia-canzone di Salvatore Di Giacomo) "viento 'e maggio" è più musicale della traduzione italiana "vento di maggio"? La spiegazione è che il napoletano non usa, qui, la particella "de" (italiano: "di") in modo pieno, ma ne tronca l'inizio (aferesi consonantica) togliendo la "d", e, in questo modo, la "e" rimanente si lega in sinalefe colla "-o" di "viento" formando un'unica sillaba, col risultato finale che la locuzione napoletana ha una sillaba in meno della corrispondente locuzione italiana. E questa sillaba in meno fa la differenza, perché nel velocizzare ne migliora la bellezza e la musicalità. Ciò è tanto vero che se facciamo la stessa operazione colla locuzione italiana otteniamo lo stesso risultato ottimale; "vento 'i maggio", infatti, è incomparabilmente più veloce - e quindi bella - di "vento di maggio". Anche il calabrese usa "'i" al posto di "di": pensiamo al titolo della pluripremiata raccolta di poesie in dialetto del basso reggino ionico di Alfredo Panetta "Petri 'i limiti" (ed. Moretti & Vitali), che significa "Pietre di confine". Dire "pietre 'i confine" è molto più veloce che non dire "pietre di confine"; e lo stesso discorso vale per "chiaro 'i luna", "gioco 'i squadra", "maglia 'i lana", "libro 'i scienze", "sedia 'i legno", "colpo 'i mano", ecc.. Nella lingua italiana stàndara, però, la "'i" come velocizzazione della preposizione "di" non è riuscita a imporsi, non è diventata una parola autonoma, da vocabolario, ma è rimasta un'aferesi consonantica, una licenza poetica. Ciò, però, come vedremo, ha una sua spiegazione che non confuta la tendenza in atto verso la celerità linguistica. ____________A chi non fosse convinto del fatto che la lingua tende a velocizzarsi e che uno strumento molto utile in tal senso è la sinalefe, si può fare l'esempio del trionfo delle preposizioni zerosillabiche (le quali cominciando per vocale permettono la sinalefe con conseguente diminuzione di una sillaba) su quelle monosillabiche pure (le quali cominciando per consonante non permettono la sinalefe e dunque non permettono la velocizzazione). L'italiano ha solo quattro preposizioni zerosillabiche (e dunque veloci): "a", "al", "ai" e "in"; tutte le altre ("allo", "agli", "alla", "alle", "di", "del", "dello", "da", "dal", "dalla", "dagli", "con", "col", ecc.) cominciando per consonante (oppure (se comincianti per vocale) avendo due sillabe) sono lente. ____________Per dimostrare storicamente ciò, leggiamo quel che scriveva nel 1954 Fernando Palazzi nella sua "Novissima grammatica italiana": "Erroneo è dire, come molti dicono, "maccheroni al sugo", bistecca ai ferri", "cioccolata al latte", "corse al trotto"; invece delle espressioni corrette "maccheroni col sugo", "bistecca sui ferri", "cioccolata col latte", "corse di trotto" (pag. 210)". E raccomanda "insieme con noi" perché "sarebbe erroneo dire "insieme a noi" " (pag. 277). Ebbene, nel nuovo millennio, constatiamo che solo le costruzioni che Palazzi considerava errate si sono imposte, quelle correte sono sparite. Perché? Per la ragione che, essendo costruite su preposizioni zerosillabiche, sono più veloci, avendo una sillaba in meno per via della sinalefe resa possibile dall'inizio vocalico di quelle preposizioni. Come mai, però, la "'i" come velocizzazione della "di" non ha incontrato lo stesso successo? Eppure risale quantomeno al Settecento con Sant'Alfonso Maria de' Liguori che in napoletano scrive "no muorzo i Paraviso" per significare "un pezzo di Paradiso" (v. "La poesia in dialetto" a cura di Franco Brevini, Mondadori, I Meridiani, 1999, vol. 1, pag. 1272). La spiegazione è semplice: a differenza delle altre preposizioni zerosillabiche, la "'i" darebbe luogo ad ambiguità perché la parola "i" è già usata dall'italiano come articolo (ad es. "i libri", "i tavoli", "i vestiti", ecc.). ____Ciò dimostra che le velocizzazioni in lingua sono possibili solo se non creino ambiguità. E, se questo è vero, basta eliminare quell'ambiguità per poter sdoganare quelle espressioni veloci, solo originariamente ambigue. ____Espressioni come "esci il cane" o "siedi il bimbo" possono dunque essere accettate solo dopo che ne venga eliminata l'ambiguità. Le voci verbali "esci" e "siedi" sono ambigue perché (e questo è un mal comune a tutti i verbi) possono indicare sia il presente indicativo ("tu esci il cane") e sia l'imperativo ("esci il cane!"). ____Su questa ambiguità si può, però, anche sorvolare, essendo bassa, ma su un'altra nò. Una volta, infatti, introdotte nella lingua italiana voci verbali di seconda persona come "esci il cane" o "siedi il bimbo" - le quali hanno il vantaggio di essere molto più veloci delle corrispettive classiche "porta fuori il cane" e "metti a sedere il bimbo" -, bisogna logicamente introdurre anche le corrispondenti voci verbali di terza persona: "esce il cane" e "siede il bimbo". Qui però l'ambiguità sale a un livello inaccettabile perché non si riuscirebbe più a capire se il cane o il bimbo fossero soggetti ("il cane sta uscendo", "il bimbo si sta sedendo") o complementi oggetti ("egli sta facendo uscire il cane", "ella sta mettendo seduto il bimbo"). ____Per poter introdurre nella lingua le frasi in discussione, bisogna prima introdurre la distinzione tra soggetto e complemento oggetto. Come fare? Come ho descritto in modo più approfondito nel mio invio del 29 maggio 2018, reperibile nel luogo sopra citato, basta tenere "il" come articolo del soggetto, e modificarlo col raddoppio fonosintattico per indicare il complemento oggetto. Ad esempio: "il cane", "il bimbo", "il tavolo", "il pane" saranno sempre i soggetti; "ic cane", "ib bimbo", "it tavolo", "ip pane" saranno sempre i complementi oggetti. ____In questo modo l'ambiguità è eliminata perché "scende il cane" significa che è il cane che compie l'azione di scendere", mentre"scende ic cane" significa che il cane sta subendo l'azione", con la conseguenza che la frase significherà "lui (o lei) sta portando fuori il cane". Lo stesso discorso va fatto per l'altro esempio; "siede il bimbo" significherà che è il bimbo a compiere l'azione di sedersi, mentre "siede ib bimbo" significherà che il bimbo sta subendo l'azione. Eliminata, così, l'ambiguità, nulla osta all'introduzione nella lingua italiana delle locuzioni controverse. ____In conclusione, un verbo intransitivo deve poter essere usato transitivamente - visto che ciò velocizza la lingua - purché si introduca la distinzione tra soggetto e complemento oggetto. Pertanto, le proposizioni "esci/e il cane" e "siedi/e il bimbo" sono legittime a patto che si usi "esci/e il cane" e "siedi/e il bimbo" quando il cane e il bimbo sono i soggetti, e si usi "esci/e ic cane" e "siedi/e ib bimbo" per indicare che il cane e il bimbo sono i complementi oggetti.

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Marco Iudica
26 marzo 2019 - 00:00
Mi scusi sig. Goffi, sono molto interessato alla sua originalissima teoria, però chiedo venia ma temo di non aver ben compreso a fondo il senso del Suo discorso tanto che rischia di apparire bislacco. A me sembra che nella frase "Esci il cane" il cane sia palesemente complemento oggetto (incredibile dictu, in quanto come si diceva uscire è un verbo intransitivo ma questa è un'altra storia); mentre nella frase "Esce il cane" il cane sia palesemente soggetto senza bisogno di disturbare la geminazione sintagmatica. Dunque perché segnalare (in maniera casuale perché si potrebbe anche fare il contrario) "ic cane" come complemento oggetto e "il cane" come soggetto? PS: povera quella lingua che cambia le proprie regole per diventare più veloce e più precisa, nell'epoca dei fast food, per fortuna c'è ancora gente che si siede con calma nei ristoranti e gusta il cibo. Ritengo che il lettore meriti rispetto e tempo. Il paradigma velocità bellezza è un'opinione ed è assolutamente discutibile. Rispetto e tempo sono doveri dello scrittore e diritti del lettore. E poi scusate ancora ma uscire è intransitivo e la terra è rotonda, facciamocene una ragione. Ad Majora
Risposta
Anonimo
24 marzo 2019 - 00:00
Il rischio della mancanza di regole è proprio il florilegio di nuove regole, più o meno intriganti e suggestive che non risolvono ma complicano. Si pensi all'introduzione di "ib", "ic" e "it" nella lingua italiana. Regole complesse che inneggiano di volta in volta alla velocità (mordi e fuggi), alla comunicabilità, alla soggettività, alla emozionalità, scoperte e inventate dal grande linguista di turno. Ma una bella grammatica della Crusca no? Una sorta di Vocabolario della Crusca (per questo è nata la Crusca). Che raccolga le regole che ci sono e che funzionano, spiegandole bene a tutti quelli che non le trovano soddisfacenti e a tutti quelli che devono ricorrere a improponibili giochi di prestigio per innovare a tutti i costi un povero italiano che già è destinato ad innovarsi in maniera incontrollata e proprio per questo a sparire?
Risposta
Luca Passani
24 marzo 2019 - 00:00
Intervento dottissimo, che ho trovato per me molto istruttivo e con punti di riflessione di interesse assoluto. La notizia cattiva per chi lo ha scritto, il Dott. Goffi, è che ci troviamo davanti un'Accademia che per l'apostrofo del qual'è ora si nasconde dietro un dito, ora finge svenimenti, ora fa intervenire il presidente. In questa situazione si vorrebbe richiedere alla Crusca un qualche sostegno allo sdoganamento di una riforma della grammatica, del lessico e dell'ortografia tanto profonda come quella suggerita da Goffi? Gli anglofoni direbbero: "Good luck with that!" (un molto ironico 'in bocca al lupo'). Luca Passani
anonimo (Marco Iudica)
20 marzo 2019 - 00:00
Forse voleva dire essenziale? Una domanda essenziale? Non credo volesse dire esiziale, troppo forbito... ma esistenziale? Che c'entra? Ma che domanda è una domanda esistenziale? Essere o non essere? Boh! Qual'è il ruolo dell'Accademia nei (ai) giorni nostri? Domanda esistenziale, sull'esistenza o sull'essenza? Ciò che "è", l'"essere", effettivamente per "esistere" deve avere una storia, un principio e una fine.... E' Dio che si è fatto uomo proprio per esistere ed aggiungere l'attributo dell'esistenza a quello dell'essenza. Ma che c'entra il ruolo della Accademia con Dio? Forse la domanda (e la risposta) sono escatologiche? O scatologiche? Beh la differenza non è soltanto una "e"....

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Marco Iudica
18 marzo 2019 - 00:00
Buongiorno a tutti, prescrivere non vuol dire punire chi non segue le regole, prescrivere significa indicare una via che è opportuno seguire per parlare o scrivere un italiano corretto, colto medio (direbbe il Prof D'Achille). Non basta parlare italiano per essere autorizzati a inventare innovazioni. Il verbo transitivo è tale perché l'azione transita da un soggetto ad un complemento oggetto e chi ricorda il latino cum-prehendet la differenza tra nominativo e accusativo e tra casi diretti e indiretti. Se si sa tutto questo perché ostinarsi a trasformare un caso diretto in indiretto? Chi ha studiato nominativo e accusativo non direbbe mai esci il cane. Il complemento oggetto risponde alla domanda chi? che cosa? I verbi entrare ed uscire non consentono tale domanda ma dove? e da dove? Bon consentono tale domanda così come due pere più due mele non fanno quattro "qualche cosa" ma due pere più due mele. Chi non sa tutto questo entra il cane ed esce le tette. Allora potremmo dire che lo stupro della lingua (come tutti gli stupri) nasce dall'ignoranza e di ignoranza si alimenta. Allora sarebbe il caso che esistesse un'istituzione che PRESCRIVE (per chi vuole parlare e scrivere in italiano) che entrare e uscire e sedere sono verbi intransitivi, perché l'azione non può transitare dal soggetto al complemento se non in modo indiretto cioè mediato dalle preposizioni "di a da in con su per tra fra" e mai (prescrittivamente) MAI direttamente. Questo non lede i diritti di alcuno, non è razzista né totalitario. Nella storia della lingua italiana troppo spesso si è confusa la tolleranza con l'appiattimento e il risultato è appunto quello che viviamo, non si scrive più in italiano ma si usano faccine, allocuzioni improbabili, grugniti, bestemmie e volgarità, cinguettii e tvb e acronimi aneddotici (certamente molto espressivi ma da non accettare e proscrivere se si vuole scrivere e parlare un italiano corretto). Ho notato, invece con un certo disappunto, che la Accademia della Crusca vuole essere descrittiva e tende a "sdoganare" con una certa disinvoltura. Ora, per descrivere le castronerie che si leggono nel web non ci vuole l'Accademia della Crusca, ciascuno di noi legge e vede inquietanti e improponibili tentativi di scimmiottare poeti e scrittori. Se poi, per sdoganare si fa riferimento alla "moda" statistica, cioè la maggiore frequenza delle suddette castronerie, esse purtroppo tracimano e superano di gran lunga lo scrivere corretto, E' un po' come gli articoli che tendono a dimostrare che la terra è piatta: sono molto più numerosi di quelli che invece dimostrano che la terra è sferica. Questo non vuol dire che la terra sia piatta e se molti dicono "a me mi piace", "gli" per "le" o "a loro", "se potrebbe" invece di "se potesse", "te" invece che "tu" e altre meraviglie di questo tipo, beh, accademici della Crusca vi prego, non sdoganate con la spasmodica ricerca di esempi o di quanti casi riporta il web.... Se Voi sdoganate, ma chi deve difendere questa povera lingua? Censurate e prescrivete, non credo che abbiate mai messo sul rogo nessuno, dovete solo indicare la via corretta senza sentirvi in colpa verso i più. Non è possibile leggere libri e articoli privi dei fondamentali dell'italiano, anche cose interessanti perdono efficacia se scritte e dette male. E per questo che proliferano scrittori e poeti improbabili e inquietanti. Scrivere e poetare dovrebbe essere un atto di responsabilità perché chiunque scriva deve sapere qual è la forza e la potenza meravigliosa quanto pericolosa del LIBRO o della POESIA. Allora Vi prego, non sdoganate, mettete all'indice invece, censurate. Se non lo fate Voi ma chi lo deve fare? Grazie per questo luogo di confronto e perdonate l'impeto. Ad Majora

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Risposta
Luca Passani
18 marzo 2019 - 00:00
"gli" per "le" o "a loro" Sto ancora ridendo. Questa è lingua italiana usata tutti i giorni da libri e giornali. Non serve neppure scomodare il web (su cui comunque scrivono gli italiani). Se lei vuole parlare e scrivere una lingua aulica che non esiste più, prego. Ma la pretesa di imporla agli altri tirando per la giacchetta la Crusca è francamente ridicola. PS: "Te" come soggetto è usato in tutto il centro e nord Italia. Luca Passani
Pablo Gagliano
17 marzo 2019 - 00:00
Sono professore d'italiano a Buenos Aires. Vi seguo. Amo l'Accademia della Crusca. Cari saluti a tutti voi.

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Anonimo
16 marzo 2019 - 00:00
Posso accettare "esci il cane" o "scendi il bambino" come frasi idiomatiche dialettali, che tali sono e tali restano, ma volerle fare entrare nella lingua italiana come corrette è una cosa pazzesca! Povera Accademia della crusca! (Sembra rimasta solo la crusca, di Accademia non trovo traccia...)

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Luca Guerreschi
16 marzo 2019 - 00:00
A mio modestissimo parere, l'Accademia della Crusca (ma io non ne sono sicuramente l'interprete) è chiamata ai nostri giorni ad aiutare gli italiani a conoscere meglio e a usare consapevolmente la propria lingua. Descrivere o prescrivere? Non è questo il problema! Si può prescrivere o descrivere a seconda del tema affrontato. Ultima postilla: da sempre la grammatica italiana (una delle prime al mondo ad essere codificata qualche secolo fa) ha avuto un'impronta prescrittiva. E lo stesso accadde con quelle poche raccolte di principi grammaticali che segnarono il passaggio dal latino (classico e volgare) alle lingue romanze. La nostra storia della lingua, inoltre, ha sempre risentito prevalentemente dell'influenza del canale della lingua scritta. La logica conseguenza di tutto ciò è stata una forte resistenza ai cambiamenti, cambiamenti e innovazioni che nascono (e premono) soprattutto nel campo dell'uso orale. Insomma, la lingua viva è eminentemente quella orale. Prima che anche nello scritto, o nei parlanti dall'uso formale o molto controllato, ci si apra al cambiamento, il fronte del dibattito sarà indubbiamente e quasi inevitabilmente molto ampio. Ben venga, a mio parere, il contributo dell'Accademia della Crusca e di altri esperti.

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Jessica
16 marzo 2019 - 00:00
In qualità di linguista, la ringrazio per questo intervento. Parlare di evoluzione della lingua con chi non è del settore risulta sempre un argomento spinoso, ma con le direttive dell'Accademia confido in un approccio più disteso da parte dei parlanti.

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Anonimo
16 marzo 2019 - 00:00
Temo che il ruolo dell'Accademia sia quello suggerito in ultimo da Luca Passani, decidere di giorno in giorno in base agli umori. E anche di dare spazio a linguisti con qualche problema di sintassi. "Parlare di lingua per un linguista è oggi a rischio, specie tra i giustizieri grammaticali dei social e dei media, come per un medico parlare di vaccini", che italiano è?

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Luca Passani
15 marzo 2019 - 00:00
L'approccio descrittivista della Crusca su "scendi il cane" e altre amenità ci può stare. La stonatura si ha con il caso del qual'è, il tema precedente a questo, in cui la Crusca ha preso una posizione nettamente prescrittivista. E allora non saprei più rispondere ad una domanda esistenziale. Qual'è il ruolo dell'Accademia nei giorni nostri? Descrivere, prescrivere o decidere di giorno in giorno in base agli umori del presidente Marazzini? Saluti Luca Passani

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anonimo (Marco Iudica)
19 marzo 2019 - 00:00
Ma che cos'è la "domanda esistenziale"?

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