Enfasi ed eufemismi negli usi linguistici attuali

di Vittorio Coletti

L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.

"Tanto è diffusa la sottolineatura di ciò che è o appare grande e straordinariamente positivo,
altrettanto lo è o lo sta diventando la riduzione a misure non eccezionali di ciò che è grandemente, fortemente negativo"


Con buona pace di quanti credono che per cambiare, migliorare il comune sentire e l’atteggiamento pubblico nei punti socialmente più riprovevoli o discutibili basti modificare la lingua, interdicendo questa o quella parola o quella costruzione, sono molto meglio dimostrabili e più evidenti i casi opposti, in cui sono una diversa sensibilità sociale e nuovi comportamenti a spingere la lingua a cambiare. Lo possiamo vedere osservando due fenomeni linguistici, riflesso di due tendenze simmetricamente opposte e coesistenti nella cultura popolare odierna: quella all’enfasi e quella all’eufemismo.

Partiamo dalla prima. Oggi si sa, la propensione per le taglie grandi, dalle automobili agli occhiali, è molto diffusa. Da tempo la pubblicità ha chiesto alla lingua risorse per esprimere lo smisurato per quantità e per qualità. Si è passati da grande a grandissimo a enorme a ingente e, ahimè, anche a più ingente (un recente documento della Commissione europea in italiano suona così: “Il bilancio a lungo termine dell’UE… costituisce il più ingente pacchetto di misure di stimolo mai finanziato in Europa”) e le misure quantitative eccezionali hanno indotto a innovazioni semantiche come le locuzioni “una valanga di (problemi, persone), un diluvio/ profluvio di (fischi, applausi, improperi), una montagna di (debiti, menzogne)” e altre espressioni attinte al lessico dei fenomeni meteorologici estremi (uragano, tornado, tsunami). Si sono attivate risorse da sempre disponibili, come il superlativo assoluto sintetico, caro al linguaggio sportivo, esteso dagli aggettivi (classicissima) anche ai sostantivi (campionissimo, finalissima, ragionissima) e perfino ai participi passati con funzione verbale (il sindaco è stato fischiatissimo) o il superlativo analitico ottenuto con avverbi diversi da molto, come immensamente: su Google si aprono migliaia di pagine se si digita immensamente ricco o immensamente bello, varianti di recente fortuna di ricchissimo/ molto ricco e bellissimo/molto bello. Soprattutto è stata ampliata la gamma dell’enormità metaforica, qualitativa, di ciò che desta ammirazione, meraviglia, consenso, desiderio ecc. Per quanto l’italiano sia da tempo ben fornito di aggettivi o lessemi in funzione aggettivale adatti a comunicare un grandissimo apprezzamento, uno stupore ammirato (emozionante, fantastico, sbalorditivo, straordinario, eccezionale, entusiasmante, meraviglioso, strabiliante, stupendo, magnifico ecc.), a volte provenienti dai gerghi (bestiale, uno schianto, fico/fichissimo), nella comunicazione pubblica si è andati oltre, innovando il vocabolario, sia per evitare parole non tutte familiari alla gente comune, sia per impacchettare nella novità e nel potenziamento della forma un messaggio il cui contenuto vorrebbe trasmettere meraviglia, valori qualitativi altissimi, pregi inusuali. Ecco allora le più o meno recenti locuzioni aggettivali da urlo, da brivido, e l’aggettivo composto verbo + nome mozzafiato (probabile calco dell’inglese breathtaking), che affidano interamente alla (supposta) forte reazione emotiva del destinatario la descrizione della mirabile qualità della cosa o dell’evento di cui si parla: “un concerto da brivido, un abito da urlo, una vista mozzafiato”. È interessante osservare come la novità linguistica delle dimensioni e dei valori di qualcosa o qualcuno riguardi soprattutto il loro lato positivo, degno di apprezzamento, meritevole di essere desiderato, e meno il loro lato negativo, riprovevole, da rifiutare. La nostra lingua, naturalmente, è ben attrezzata a esprimere anche la disapprovazione o la negatività di un fatto o di una persona (terribile, scioccante, sconvolgente, impressionante, assurdo, delirante, tremendo, ai quali di recente si è aggiunto imbarazzante), ma è stata sollecitata all’innovazione lessicale per esprimerle meno di quanto lo sia stata per dar maggior colore ai tratti positivi. Segno che ciò che colpisce favorevolmente agisce con più forza sui parlanti e li spinge, per comunicarlo, persino all’innovazione lessicale, al neologismo semantico, come se le parole già disponibili non fossero sufficienti a rendere il concetto eccezionale che si vuole trasmettere.

Occupiamoci ora dell’atteggiamento linguistico opposto, volto alla minimizzazione di qualcosa, all’eufemismo, parenti stretti di quella che la pragmatica ha chiamato mitigazione, cioè la ricerca da parte del parlante di accordo ed empatia con l’interlocutore. Tanto è diffusa la sottolineatura di ciò che è o appare grande e straordinariamente positivo, altrettanto lo è o lo sta diventando la riduzione a misure non eccezionali di ciò che è grandemente, fortemente negativo. Lo si osserva nel frequente ricorso, da parte dell’autore di un delitto, di un omicidio, di un atto altamente riprovevole, a espressioni come “ho fatto una cavolata”, “ho fatto una cazzata”: strategie linguistiche che attenuano la gravità del gesto compiuto nel momento stesso in cui lo confessano, comunicandolo in una forma che ne riduce la negatività. Naturalmente, in parte, questa sconcertante forma di mitigazione è da attribuire alla povertà lessicale di molti parlanti, che non hanno il vocabolario per dire il loro crimine e si muovono per di più in una gamma di parole della riprovazione più ristretta, come si è appena visto, di quella dell’apprezzamento. Si potrebbe osservare che l’opzione per la cazzata, ma anche per la meno espressiva cavolata, è pur sempre segno di maggior consapevolezza della gravità del messaggio che se si usasse sciocchezza o stupidaggine: il registro popolare e addirittura volgare delle due parole convoglia sul loro significato un tasso di negatività superiore a quello della veniale fesseria o cretinata. Ma sono sfumature. Perché il tratto che colpisce è la comunicazione di un gesto negativo in una confezione linguistica che, mentre lo ammette, sembra già predisporre gli interlocutori alla comprensione, all’indulgenza e quindi fare tutt’uno di confessione e perdono, come se di qualsiasi errore, anche il più grave, ci si potesse sempre assolvere limitandosi a chiedere scusa. Una manifestazione linguistica del cosiddetto perdonismo o forse soltanto della diffusa autoindulgenza?

LUCA FIOCCHI NICOLAI
02 dicembre 2024 - 00:00
Certo, se nessuno lascerà oltre me un briciolino di commento, il Prof. Coletti dovrà di necessità riferirsi al mio intervento, e di tale onere a cui fosse costretto mi dolgo anticipatamente. Ne approfitto, ovviamente, per dire che gli scrittori e la gente comune hanno sempre fatto uso di derivativi per dare un'idea fantasiosa della grandezza. Ad esempio io ho spesso sentito usare la parola "vagonata" che trovasi nel GDLI con citazioni da Panzini ("carrate (altro esempio) e vagonate di bestialità") e Arbasino ("vagonate di struzzi"); l'enfatico dilagare odierno della resa verbale dello smisurato sarà allora imputabile e all'inondazione quantitativa (mi ci metto pure io, ma qui come in tutti i casi è in gioco il ricorso alla metafora) di testi dal web e alla lingua sempre più smaliziata e popolare del messaggio pubblicitario televisivo e non (vedasi la cartellonistica) che si rivolge alla "gente" col linguaggio della gente. Del resto oggi anche gli insospettabili pubblicizzano la loro "merce", gli Atenei i corsi, gli scrittori, saltando la seccatura della sparita critica letteraria, i loro annuali romanzi, le case editrici, sui loro caleidoscopici e sfavillanti siti, le novità librarie ecc.. In TV sei obbligato a dire "pazzesco" se vuoi risultare in sintonia cogli ascoltatori. Mettendo a confronto una telecronaca o un servizio sportivo degli anni settanta con quelli attuali sembra di essere passati dal salotto al bar, con ciò che ne consegue in termini di stile comunicativo. Ho la sensazione quindi che la vera novità consista nell'appropriazione da parte dei media di un uso espressivo e creativo della lingua orale del popolo in perenne attività di servizio. Gli scrittori più "espressionisti" ci avevano già pensato.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
13 novembre 2024 - 00:00
Va di moda nel giornalismo usare il prestito "choc" o "shock" (si vede qui bene il passaggio di testimone dal francese all'inglese!) come aggettivo in locuzioni come "frase shock" o "dichiarazioni shock" o "immagini shock" per far credere all' ascoltatore o lettore che intorno a lui tutti sono traumatizzati da contenuti inauditi. L'insincerita' e vacuita' di questa come altre parole del registro enfatico è resa palese dalla sua ripetizione meccanica ogni qual volta occorra riportare affermazioni politicamente poco gradite all'emittente del messaggio, che si fa portavoce della comunità. Guai a non provare shock! Vi è poi l'estensione alla politica di termini di ambito estetico, portato della spettacolarizzazione dell'informazione, che si giova di tecniche pubblicitarie (cui contribusce nella carta stampata lo strabordare da decenni dell'apparato iconico a fini di drammatizzazione) per cui una legge, un governo, un programma sono immancabilmente bellissimi. L'enfasi è prodotta anche quando la parola prescelta per esagerare una qualità è usatissima, come "straordinario" o "meraviglioso" ma la si adopera con calcolo per simulare una stima che non si ha per il destinatario del complimento, come quando, dico per dire, un conduttore televisivo elogia con tali aggettivi il concorrente di un quiz, anche se fa errori marchiani o dice banalità. Alla faccia del merito. Quanto alla minimizzazione di un misfatto tramite uso di espressioni attenuanti, che cerchino la comprensione di chi ascolta, se provengono da chi quel misfatto ha compiuto ci dicono solo che nel contesto umano in cui vive la violenza privata è considerata non solo da lui l'ordinario modo per risolvere i problemi. Con le espressioni citate dal Prof. Coletti il criminale parla in realtà ai suoi simili. Abbiamo ancora la patetizzazione burocratica quando si inventano le categorie dei "fragili" (ora "vulnerabili") o di governo ("non lasceremo indietro nessuno"), e l'eufemismo burocratico coll'uso strategico e inespressivo del termine "operatore" seguito dall'aggettivo che indivuidua molto vagamente il settore lavorativo (ecologico, scolastico, sanitario) in genere per indicare qualifiche basse. Infine, una considerazione: la sobrietà nell'uso delle parole è il riconoscimento della complessità delle cose che le parole vogliono significare o descrivere e richiede un'attitudine alla prudenza di giudizio, a un sano distacco critico e al senso delle proporzioni. Forse viviamo nuovamente nel Barocco. Un Barocco sguaiato.

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