L'accademica Rita Librandi, docente presso l'Università di Napoli "L'Orientale" e presidente dell'Associazione per la Storia dell lingua Italiana, propone una riflessione sui problemi legati alla divulgazione in ambito linguistico e storico-linguistico.
Giugno 2017
Le discussioni sulla lingua appassionano di solito qualsiasi interlocutore, forse perché la lingua costituisce il primo tramite della nostra socializzazione, o forse perché diviene molto presto parte integrante di noi stessi, intrecciandosi con le emozioni, la conoscenza, il sentire e dunque con la vita stessa. Facile pertanto coinvolgere i pubblici più disparati parlando di lingua, ma facile anche essere coinvolti in conversazioni generiche sulla lingua che, al pari dello scambio di opinioni sulle condizioni atmosferiche, tendono a un’eccessiva semplificazione. È infatti usuale che gli argomenti più frequentemente discussi si leghino con facilità a opinioni diffuse e non accertate, opinioni che, nel caso delle lingue, divengono spesso di difficile rimozione, anche di fronte al parere dell’esperto. Spetta ai linguisti, d’altro canto e a tutti coloro che si occupano in modo scientifico della lingua e della sua storia contrastare, ogni volta che sia possibile, i luoghi comuni, le verità fondate sul sentito dire o le rigidità di chi si lega, a volte per personale affezione, a ferrei convincimenti su norme ormai in disuso. Il parlante, tuttavia, è spesso poco disposto a cambiare un’idea di lingua che è andato consolidando nel tempo: si tratta di una disposizione d’animo diffusa soprattutto tra gli italiani, la cui convivenza antica con le tante lingue della penisola e la storia linguistica assai particolare continuano a generare sentimenti alterni e convinzioni irremovibili sia nei confronti del rapporto tra italiano e dialetti sia sull’applicazione delle norme.
Succede, per esempio, a molti linguisti di avvertire la delusione dell’interlocutore quando, rispondendo a una richiesta di quest’ultimo se sia meglio dire o scrivere in un modo piuttosto che in un altro, ammettono come possibili entrambi i modi, sia pure in dipendenza dalla situazione, dal registro o dal contesto. Un disappunto ancora maggiore può capitare di osservare quando si cerca di spiegare le relazioni che intercorrono non solo tra italiano e dialetti ma anche tra dialetti di aree differenti: il parlante medio, infatti, tende ad appassionarsi soprattutto a questo tipo di discussioni, anche per il legame affettivo che lo stringe alla lingua del proprio territorio e che lo induce a rivendicarne orgogliosamente la superiorità di usi e di storia. Complice la nostra tradizione antica di denominare dialetto ogni sistema linguistico presente in una certa area e adoperato in ambiti e contesti ristretti, pochi sono coloro disposti a riconoscere, per esempio, che tutti i dialetti (e non solo alcuni) sono da considerarsi lingue. Molti stentano ad accettare che il discrimine tra dialetti e italiano sia segnato solo da criteri spaziali e da possibilità di impiego (la lingua si distribuisce su tutto il territorio nazionale e si può adoperare in ogni ambito e situazione) e, considerando restrittiva la denominazione dialetto, vorrebbero assegnare il primato di lingua solo ad alcuni idiomi, come, per esempio, il napoletano, il veneziano o il siciliano, che possono vantare un’illustre produzione letteraria.
Un altro luogo comune duro a morire è quello secondo il quale il nostro italiano troverebbe non nel fiorentino ma nel senese la propria origine o almeno la propria espressione più «raffinata». Premesso che definire una lingua come più o meno raffinata, o anche più o meno pura, significa esprimere solo un giudizio impressivo, non dimostrabile sulla base di analisi linguistiche, la controversia sul ruolo da assegnare a fiorentino e senese nasce in parte da un’antica rivalità, che si è andata accentuando soprattutto tra XVI e XVIII sec., e in parte dalla difficoltà del parlante medio a comprendere i cambiamenti subiti sia dal fiorentino sia dalle altre parlate toscane nei secoli successivi al Trecento. Se è però comprensibile e in parte giustificabile, come si è detto, ascoltare tanti luoghi comuni nelle conversazioni quotidiane, è molto meno giustificabile sentirli ripetere da studiosi che intendono spiegare a un ampio pubblico passaggi essenziali della nostra storia linguistica. Del maggiore debito dell’italiano nei confronti del senese ci è capitato nuovamente di sentire in una puntata de Il tempo e la storia, una trasmissione, per altri versi ben costruita e particolarmente encomiabile per le sue finalità educative, che talvolta include tra i propri argomenti, affidandoli alla trattazione degli storici, anche la lingua, l’arte e la letteratura. La puntata del 13 marzo scorso, che nonostante fosse dedicata alla nascita della lingua italiana era stata affidata a un illustre storico dell’età contemporanea, era purtroppo insolitamente ricca di imprecisioni gravi, su cui sarebbe eccessivo e forse ingiusto soffermarsi dettagliatamente. Non possiamo, però, esimerci dal sottolineare la sicurezza con cui si dava per autentico un luogo comune infondato e da tempo confinato solo alle conversazioni salottiere. Riportiamo, per correttezza, le affermazioni cui ci riferiamo così come le abbiamo trascritte dalla riproduzione riascoltabile nel sito di RAI Play (http://www.raiplay.it/video/2017/03/Il-tempo-e-la-Storia-La-nascita-della-lingua-italiana-a63a8cc8-b540-4a85-876d-d26a4d23afd7.html):
Conduttrice: […] il fiorentino che usano i letterati, i mercanti, i notai per i loro affari, i commerci, è già il nostro italiano?
Professore: Beh diventerà gran parte del nostro italiano, ma anzi si dice non il fiorentino forse il senese è quella [sic] dove questa lingua si è un po’ più elaborata, si è un po’ più raffinata, perché il fiorentino in senso stretto, come diceva Carducci, è un po’ sciocco, cioè un po’, diciamo, insipido, sciocco in questo senso…
Conduttrice: perché proprio il senese?
Professore: … un po’ insipido, basta pensare alla poesia Davanti a San Guido, dove dice appunto che è sciocco questo fiorentino. Il senese è una lingua già elaborata che si estende un po’ in Toscana e diventa…
Conduttrice: quindi una lingua più raffinata rispetto al fiorentino che si utilizzava all’epoca.
A parte la citazione palesemente erronea di Carducci, che in Davanti a San Guido, contrappone «la favella toscana» che usciva, con accento della Versilia, dalla bocca della nonna Lucia, alla favella «sciocca» di chi si sforzava di imitare, anche senza essere fiorentino o toscano, le scelte linguistiche manzoniane, la conclusione che trasforma il senese in lingua «già elaborata, che si estende un po’ in Toscana» e «più raffinata rispetto al fiorentino che si usava all’epoca» (ma quale epoca?) lascia veramente senza parole.
Gli storici della lingua, e con loro la gran parte degli studenti che frequenta i corsi di laurea in Lettere, sanno bene che la prima codificazione del nostro italiano è da ricondurre alle indicazioni di Pietro Bembo, che nella sua trattazione sulla lingua, pubblicata nel 1525, consigliò con successo agli scrittori italiani di prendere a modello per i propri testi la lingua di Boccaccio per la prosa e di Petrarca per la poesia: da qui muove la nostra prima unificazione linguistica e su quel fiorentino trecentesco, senza alcun intreccio con le vicende del senese, si fonda il nostro italiano. Altra cosa è ovviamente il fiorentino del Quattro-Cinquecento o, ancor più, il fiorentino attuale, che mostra, principalmente nella fonetica ma anche in altri tratti, una distanza palese da ciò che oggi denominiamo italiano standard. Non è questa la sede per dar conto di tali distanze, ma è utile ribadire che le differenze discendono solo dalla lenta, progressiva separazione (peraltro non senza alcuni momenti di nuovo incontro) tra la storia del fiorentino vivo e parlato e la storia dell’italiano. Che poi il senese, per alcuni suoi caratteri mutati in modo diverso dal fiorentino, potesse apparire, per esempio, ad alcuni viaggiatori del Settecento più vicino a ciò che ormai si era autonomamente affermato come italiano non ha nulla a che vedere né con la storia né con l’origine di quest’ultimo.
È evidente che non tutti gli studiosi sono tenuti a conoscere con precisione tematiche che non rientrano tra i loro oggetti di studio, ma dispiace constatare come passaggi della nostra storia linguistica, che sono anche passaggi essenziali della nostra storia culturale, non siano patrimonio condiviso almeno dagli intellettuali. Certo i luoghi comuni sulla lingua, come si è visto, sono duri a morire anche tra i parlanti colti, ma proprio per questo non è tollerabile che siano trasmessi come insegnamento in trasmissioni intenzionate a educare o almeno ad accrescere le conoscenze degli spettatori attraverso una divulgazione che vorrebbe essere alta e documentata.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).
Intervento conclusivo di Rita Librandi
Il Tema dedicato ai luoghi comuni sulla lingua, che vengono purtroppo diffusi anche da studiosi illustri, ha avuto molta risonanza, rimbalzando, come sottolinea Luca Tognetti nel suo commento del 14 giugno, dal sito dell’Accademia alle pagine facebook della “Lingua batte”, ai commenti dei quotidiani. Ha attratto, infatti, anche l’attenzione del noto giornalista e scrittore Gian Antonio Stella, che ha dedicato all’argomento un lungo articolo sulle pagine del Corriere della Sera del 9 giugno 2017. Tognetti si chiede il perché di tutto questo clamore, quando alla base del problema c’è soprattutto una scelta infelice da parte della RAI, che affida argomenti di storia linguistica a studiosi competenti in altre discipline. Insomma «ognuno deve occuparsi delle cose di sua competenza», come aveva già sottolineato un commentatore Anonimo e come confermano le osservazioni di Amelia Alesina, che aggiunge dettagli ancora più inquietanti sugli errori commessi dallo storico Lucio Villari parlando di Manzoni in un’altra puntata de Il tempo e la storia. Si tratta di errori tanto più gravi se si pensa al vasto pubblico che segue con attenzione i programmi culturali della RAI e che spesso include anche giovani studenti. Erano impliciti, d’altro canto, nel Tema del mese sia l’invito alla RAI a rivolgersi a specialisti degli argomenti trattati, sia la raccomandazione agli studiosi di non improvvisare conversazioni salottiere su questioni di grande rilievo culturale. Credo però che a far parlare così tanto del Tema sui luoghi comuni intorno all’italiano abbia contribuito anche ciò che dicevo all’inizio del mio testo: le discussioni sulla lingua appassionano chiunque, soprattutto quando si tratta di schierarsi su posizioni contrastanti. Non è un dato negativo, tutt’altro, ma è molto negativo che ad alimentare luoghi comuni ed errori su qualcosa che è parte integrante della nostra storia e della nostra cultura siano illustri intellettuali, al di là del fatto che abbiano o meno una specializzazione nella storia linguistica del nostro paese. Quanto alle considerazioni di Pasquale Ruta, ha già ampiamente risposto per me il “Lettore laico”; ringrazio ovviamente il primo per l’osservazione puntuale e il secondo per le considerazioni che offrono spunti di sicuro interesse per altre, rilevanti discussioni.
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