Il presidente dell'Accademia, Claudio Marazzini, torna ancora a stimolare la riflessione sulla questione del genere del nome covid-19.
Luglio 2020
Il mese della rielezione del sottoscritto alla presidenza della Crusca è stato contrassegnato, come sempre accade, dalla curiosità della stampa nazionale per alcune questioni linguistiche, oltre che da un giusto interesse per le vicende della nostra Accademia. Ha colpito molti il fatto che le votazioni per le cariche del Direttivo, a causa della pandemia, si siano svolte a scrutinio segreto per via telematica (la notizia è stata ripresa ad esempio da “la Repubblica”, dalla “Gazzetta di Parma”, “Alto Adige”, “Trentino”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “La Gazzetta del Sud”). L’evento meritava davvero una menzione, perché è stato il primo esperimento del genere nella nostra storia plurisecolare, e forse non sarà l’ultimo.
Quanto ai temi linguistici, i più frequentati sono stati i seguenti: quali fossero le troppe parole inglesi diffuse nella pandemia; il verdetto di Crusca secondo il quale chiamare “governatori” i presidenti delle Regioni costituisce un abuso (cfr. “Il Mattino” e “Il Gazzettino” ed. di Venezia); i neologismi dell’anno; e poi la giusta grafia di plexiglas, alla luce delle polemiche tra l’ex ministro Salvini e la ministra Azzolina. Tuttavia un argomento ha colpito ancor di più di questi che ho elencato: il genere da attribuire a covid-19. Al covid-19, o alla covid-19?
La questione del genere ha coinvolto in prima persona il sottoscritto presidente uscente ed entrante. Per questo ci tornerò sopra, visto che il tema della malattia pandemica è ancora d’attualità, anche se speriamo per poco. Per ora c’è, e i linguisti sono in prima fila: lo prova, fresco di stampa un libro di Salvatore Claudio Sgroi dalla bellissima copertina e dal vivace titolo Dal coronavirus al covid-19. Storia di un lessico virale (Edizioni dell’Orso, pp. 208), un vero instant book, come si dice nel mondo editoriale. Anche Sgroi, linguista e studioso ben noto, ha usato covid-19 al maschile, e questo consolerà coloro che sono stati presi dallo sconforto scoprendo che la Crusca, non estranea già in passato alle questioni di genere, aveva deciso di ribattezzare femmina quello che per la maggioranza era maschio. Qualcuno ha pensato ad un atto di autoritarismo della Crusca, che impone regole e parole nuove come “scendere il cane” e “petaloso”, o al permissivismo che "sdogana" tutto! Tanti hanno gridato allo scandalo (ad es. l’“Unione sarda” del 16 luglio, nella rubrica “Caffè scorretto” di Tacitus), hanno riso, hanno sbeffeggiato il neopresidente. Pochi hanno dato la notizia in maniera neutra (tra questi, e mi complimento con la loro intelligenza, l’agenzia Adnkronos, “La Nazione”, “Ciociaria editoriale oggi”, “Il Dubbio”, “Il Mattino”). I più ci hanno ricamato sopra, del resto (a loro scusante) trascinati da un articolo della giornalista Emanuela Minucci che, sulla "Stampa” di Torino del 2 luglio, lanciava allo stesso tempo con un mazzetto di virgolette non proprio filologicamente corrette la notizia della rielezione del presidente e la sua pretesa decisa volontà di imporre a tutti il nuovo femminile. Ovviamente la giornalista radicalizzava quella che era stata una conversazione telefonica ragionata e pacata, oltre che più ricca di prospettive per la lingua italiana.
Il miglior articolo sull’argomento, intendo dire giornalisticamente più azzeccato, per chi volesse comunque fare dello spirito partendo dalla grammatica, è stato, nello stesso giorno, quello di Andrea Cuomo sul "Giornale”, pp. 1 e 11. Cuomo è riuscito a essere davvero spiritoso: molto corretto nel dire che la Crusca non si era ancora pronunciata ufficialmente e che la proposta era l’interpretazione del presidente, si è poi lanciato in una serie di battute che hanno fatto sorridere anche me, quando le ho lette, benché non fossero propriamente ascrivibili al “politicamente corretto” e benché io stesso fossi in parte l’oggetto di quell’ironia:
La Covid, la Covid, la Covid. Scusate, dopo averlo scritto almeno un paio di migliaia di volte in maniera che scopriamo improvvisamente scorretta, dobbiamo prendere confidenza con la nuova dizione. La Covid, la Covid, la Covid. Che poi a pensarci bene non è nemmeno così strano. Qualche indizio in fondo ce l’avevamo. Qui in redazione non c’è collega (maschio) che non abbia la sua battuta. C’è quello che dice: «Qualcuno che ti costringe a stare a casa, che cancella il calcetto, la serie A, le Olimpiadi, la birra al pub con gli amici? Non può che essere femmina». Ah ah. C’è l’altro che aggiunge: «Ecco perché sono morti soprattutto uomini». Ah ah ah. C’è il terzo che... no, lasciamo perdere. Pensavamo di essere i padroni del mondo spaventato e infetto, abbiamo appena scoperto che l’altra metà del virus è la nostra trequarti, come cantava Alberto Sordi.
Davvero un modo vivace di non condividere la mia opinione. Mi è piaciuto, nonostante tutto. Peccato che la stessa testata, il 6 luglio, sia tornata sul tema in maniera molto diversa, a dir la verità non per volontà sua, ma per colpa di un lettore intervenuto nella pagina intitolata “Dalla vostra parte”, rubrica di Tony Damascelli, noto giornalista sportivo e mio ex compagno di Liceo, tanti anni fa, al Cavour di Torino.
Purtroppo c’è un abisso tra lo spirito sicuramente vitale di Andrea Cuomo e la grossolanità del lettore, il quale, probabilmente, credeva di essere nei social anziché sulla carta stampata: “Finalmente dopo tante chiacchiere inutili siamo sulla strada giusta per sconfiggere il Covid-19. L'Accademia della Crusca dopo attento e approfondito studio ha stabilito che Covid è femmina. Come avranno fatto? Le avranno fatto allargare le gambe e scrutato a fondo? - Leonardo Cecca Rivalta (Piacenza)”. Ma Cecca Rivalta di Piacenza, ahimè, confonde genere e sesso, gli manca la tecnica per indovinare il genere di una parola, per cui ora vedrò di soffermarmi sull’argomento.
Diciamo subito che prima di noi un’istituzione importante ha già risolto perfettamente la questione. Si tratta dell’Académie française, la nostra cugina d’oltralpe. Ecco la sentenza della prestigiosa Académie, tratta direttamente dal sito ufficiale in cui è stata pubblicata:
Per coloro che fossero in difficoltà di fronte a un testo che (una volta tanto) non è in inglese, parafraserò gli argomenti qui sopra esposti: covid-19 non è parola spontanea e naturale; è un termine tecnico creato appositamente e artificialmente dall’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità, coniato a scopo di correttezza politica, per prevenire la nascita spontanea di altri termini che avrebbero potuto offendere qualcuno, attribuendo magari a un popolo o a una nazione il nome sgradevole di un evento trasformatosi in tragedia (per es. “influenza cinese” o “di Wuhan”). Per costruire un nome neutro, l’OMS ha creato un acronimo partendo da qui: corona + virus + disease + 2019 (anno della scoperta). Il risultato è stato co-vi-d-19, cioè covid-19, formula quasi algebrica che qualcuno scrive con la maiuscola di rispetto, Covid-19, come fosse il nome proprio di persona o animale, ciò che a me pare troppo per una malattia o una sindrome (e vedo che anche l’Académie usa il minuscolo). La questione sta appunto interamente in questo: come traduciamo l’inglese “disease”, che determina il genere dell’acronimo? Per gli acronimi composti di parole italiane, le cose sono semplici: nessuno ha mai scritto “il Fiat” o “la CLN”. Il genere derivava rispettivamente da “Fabbrica” e “Comitato”. Invece “disease” può dare qualche problema (il solito inglese invadente), perché le traduzioni immediate sarebbero sicuramente “malattia” e “sindrome”, femminili, ma qualcuno potrebbe preferire “morbo” maschile. Come si vede, l’argomento invocato dal già citato Tacitus dell’“Unione sarda”, che ci sono malattie maschili, come il morbillo e il colera, e quindi covid-19 maschile è legittimo, risulta del tutto fuori luogo. Qui non si tratta di trovare la regola inesistente per stabilire se i nomi di specifiche malattie sono femminili o maschili, come hanno creduto alcuni. Si tratta invece di dare un genere a “disease” in un contesto italiano, cosa un po’ complicata, perché l’inglese non possiede la nostra distribuzione generalizzata, obbligatoria per tutto il lessico, di maschile e femminile grammaticale. Per questo sarebbe normale far riferimento alla parola con cui disease è traducibile. A noi la conclusione dell’Académie appare giusta: “Il n’en reste pas moins que l’emploi du féminin serait préférable et qu’il n’est peut-être pas trop tard pour redonner à cet acronyme le genre qui devrait être le sien”. Naturalmente il maschile non è privo di giustificazioni, e nessuno pensa di processare chi gli è affezionato (come la giornalista Minucci, in buona fede o per sparare una notizia ad effetto, ha creduto che io volessi fare). Formulerei così: il genere femminile sarebbe preferibile in base a ottime ragioni logiche, anche se una certa azione psicologica inconscia ha spinto i parlanti verso il maschile. Probabilmente è troppo tardi per resistere alla maggioranza e tornare al femminile, ma ci accontenteremo di divulgare la nostra opinione, almeno per evitare che chi preferisce e usa il maschile spalanchi la bocca dallo stupore (magari senza mascherina, con rischio per la propria salute) di fronte a chi preferisce a buon diritto il femminile, per quanto minoritario. Ma è poi davvero minoritario, quest’uso femminile? Pur con la prudenza del caso di fronte a numeri giganteschi e non facili da verificare, osservo che forse il caso è ancora aperto, visto che il motore di Google mi dà 79.300.000 occorrenze di covid-19 con articolo “la”, e 20.000.000 con articolo “il”; e viceversa 1.930.000 “un covid-19” contro 119.000 “una covid-19”.
La distinzione di genere aiuta inoltre a spazzare il campo da un equivoco che, ho il sospetto, ha facilitato il passaggio al maschile generalizzato: molti confondono grossolanamente la malattia, che si chiama covid-19, con il virus, che si chiama SARS-coV-2. Credo che il maschile sia nato da un effetto di trascinamento della parola “Virus”, presente anche nell’acronimo covid-19, ma che non determina il genere, perché il riferimento deve andare invece a “disease”, il nucleo del nome (covid-19 = “malattia da Corona Virus 2019”), almeno per chi sa interpretare correttamente l’acronimo.
Buona salute a tutti.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Il Maestro Muti viene insignito dall’Accademia della Crusca del premio “Benemerito della Lingua Italiana 2024” e il presidente Paolo D'Achille, cogliendo questo e diversi altri spunti dalla storia e dall’attualità, propone una riflessione sull'italiano della musica.
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Intervento conclusivo di Claudio Marazzini
Non ho molto da aggiungere per queste conclusioni: infatti nessuno ha polemizzato con me per la difesa del femminile della covid-19. Le risate di quei giornalisti che avevano trovato balorda la proposta non hanno avuto ripercussione nel dibattito che ha accompagnato il Tema del mese. Dunque ringrazio i benevoli lettori, come si usava dire nel Cinquecento: chi ha commentato, condivide l'utilità di una distinzione di genere che elimini ogni confusione tra il virus, maschile, e la malattia, femminile. Come ho detto, non intendo condannare chi adopera sempre e solo il maschile. Ho solo espresso una preferenza, anche di fronte al prevalere del maschile unico sui giornali. Sono ovviamente lieto che gli specialisti in campo medico seguano in maggioranza la regola a cui anch’io ho deciso di attenermi. Ammetto che anche a me viene spesso naturale il maschile per “il covid-19”, come a tanti altri italiani; in quei casi, se mi sfugge quel maschile che tanto piace alla maggioranza dei giornalisti, semplicemente mi correggo, per coerenza, cioè per adeguarmi al ragionamento che io stesso ho condotto, e che mi sembra ricco di buone ragioni. Tutto ciò, ripeto, senza condannare nessuno, e con la buona compagnia di un’istituzione come l’Académie française, con la quale mi fa piacere di andare d’accordo. Ringrazio anche il lettore che ha accennato al genere di VAR, anche se, confesso, in quel caso, interrogato nel contesto di un corso per giornalisti sportivi organizzato a Firenze, ho accettato il maschile, in base all'interpretazione di “Video Assistant Referee” inteso come "arbitro di video-assistenza" o "assistente arbitrale di video-assistenza”, al maschile. È ben vero che un arbitro può essere anche un’arbitra, e che l'assistente può essere maschio o femmina, ma certo nel mondo del calcio siamo più abituati al maschile, per ora. In attesa che si compia la rivoluzione, io avrei scelto il maschile, forse per inerzia. Me ne scuso, in attesa di sviluppi.
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