Il presidente dell'Accademia invita alla riflessione sulla recente decisione del MIUR di diffondere un bando Prin 2017 che richiede la presentazione di domande compilate in lingua inglese.
Gennaio 2018
L’Accademia della Crusca ringrazia: il merito di aver difeso l'italiano, in quest’occasione, va riconosciuto integralmente e incondizionatamente al “Sole 24 Ore”, cioè a un giornale che per i suoi interessi economici e per il legame con il mondo industriale non sembrerebbe schierato per partito preso nella difesa dell’italiano. Invece le cose sono andate proprio così, e riteniamo che questa scelta sia di buon auspicio per favorire un ragionamento più equilibrato sui temi della politica linguistica che travagliano il nostro paese.
I fatti, prima di tutto. Sabato 30 dicembre, sulla prima pagina del “Sole 24 Ore”, Annalisa Andreoni ha pubblicamente denunciato la scelta improvvida del Ministero dell’Università, che ha chiuso il 2017 dando un bel calcio all’italiano: il 27 dicembre il MIUR ha diffuso l’attesissimo bando per il nuovo Prin (si tratta del bando per il finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale), e ha imposto che la domanda debba essere compilata soltanto in lingua inglese.
La condanna di Annalisa Andreoni è assolutamente condivisibile e necessariamente molto severa. Così scrive la studiosa:
È grave che il Ministero dell’istruzione della Repubblica italiana tratti la lingua nazionale alla stregua di una lingua minore, rendendone facoltativo l’uso nella stesura di progetti che hanno nel loro nome l’aggettivo ‘nazionale’. [...] La promozione e la ripresa del Paese passano anche da questo: dal rispetto che si ha della propria lingua. La scelta di rinunciare alla lingua nazionale, nella sua insensatezza, ha conseguenze negative sul piano culturale ed economico, poiché rischia di rendere vani gli sforzi di tutti coloro che operano per il rilancio del nostro Paese. Perché mai dovremmo affaticarci a promuovere l’italiano in giro per il mondo – e con la lingua viaggiano anche la creatività e la produzione italiana, non dimentichiamolo – se a considerarlo inutile sono coloro che per primi dovrebbero difenderlo? Spiace dirlo, ma è l’ennesima prova del provincialismo dell’attuale ceto politico, drammaticamente inadeguato alle sfide che abbiamo di fronte, che scambia per internazionalizzazione la dismissione dell’identità nazionale. Ci permettiamo di dare un suggerimento al Ministero dell’istruzione: visto che l’italiano per loro è evidentemente una lingua inutile, la prossima volta scrivano il bando direttamente in inglese; forse, allora, riusciremo a prenderli sul serio.
Su questa materia, il MIUR si muove da anni con incertezza. Prima di questo bando, si ebbero il bando PRIN 2015 e il bando PRIN 2012. Come si vede, questi bandi sono intervallati da periodi di silenzio, perché i finanziamenti alla ricerca dell’università non vengono erogati tutti gli anni. La serie è dunque quella che ho detto: 2012, 2015, e ora 2017. Nel 2012, si richiese una domanda compilata in lingua italiana e in lingua inglese. In questo modo si affianca alla lingua nazionale la lingua con la quale il progetto può essere più facilmente sottoposto al giudizio di studiosi stranieri. Nel 2015 la scelta fu ancora differente: si lasciò la libertà di adottare l'inglese o l'italiano. Anche questa soluzione è interessante: affida la scelta alla progettualità di chi presenta la domanda, salvaguardando gli ambiti in cui un giudice competente deve per forza conoscere la lingua italiana, come accade per molte discipline umanistiche. Nel 2017 invece, come abbiamo visto, si è passati integralmente all'inglese.
Le incertezze nella materia della lingua dei bandi non sono monopolio del Miur. Esiste un incredibile precedente. La Regione Piemonte, nel 2008, ha diffuso un “Bando Scienze umane e sociali”, pubblicato sul supplemento ordinario n. 2 del Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte n. 48 del 27 novembre 2008. In quell’occasione fu reso obbligatorio l’uso dell’inglese. Il bando, a differenza della domanda richiesta ai concorrenti, era in italiano (come del resto è ora in italiano il PRIN 2017). Nel caso della Regione Piemonte, la scelta era tanto più ridicola, se si considera che le ricerche presentate proponevano (come ovvio, trattandosi di un bando regionale), uno stretto riferimento alla cultura del Piemonte, per cui i revisori anonimi appositamente individuati avrebbero pur dovuto capire qualche cosa di italiano, e forse anche di dialetto, di provenzale, di franco-provenzale e di francese. La loro capacità di leggere domande redatte in italiano sarebbe stata semmai una garanzia di giudizio competente ed equilibrato. Questo è probabilmente un caso-limite, e si sperava che fosse acqua passata, ma la scelta del MIUR per il PRIN 2017 ce l’ha fatta tornare in mente, con tanto maggior disappunto, se pensiamo che nel febbraio del 2017 è stata resa pubblica la sentenza n. 42 della Corte Costituzionale relativa all'equilibrio tra inglese e italiano nell'università.
La sentenza non si riferisce ai bandi di ricerca, però i principi generali che la Suprema Corte ha definito in maniera inequivocabile fanno riferimento proprio all’assoluta necessità di preservare la lingua italiana all'interno degli istituti universitari. Ciò vale anche per le domande dei finanziamenti. Converrà anzi richiamare i principi a cui ha fatto riferimento la Corte Costituzionale.
Scrive la Corte che la lingua italiana, nella sua ufficialità, e quindi primazia, è vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 della Costituzione (quella Costituzione di cui nel gennaio 2018 festeggiamo i 70 anni). La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l’erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione possono insidiare tale funzione della lingua italiana, ma tali fenomeni non devono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità: al contrario, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, ma diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé. La Corte prosegue affermando che la “centralità costituzionalmente necessaria della lingua italiana si coglie particolarmente nella scuola e nelle università”.
Dopo una sentenza del genere, sembra persino incredibile che un ministero della Repubblica Italiana abbia potuto disinvoltamente decidere di bandire la lingua italiana dalle domande di finanziamento per la ricerca di interesse nazionale. Il giudizio non può essere se non quello espresso con la massima chiarezza dal “Sole 24 Ore”.
Del resto, sempre a proposito dell’attenzione del MIUR per la lingua italiana, potremmo richiamare un intervento di Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” del 22 dicembre 2017 relativo all’inglese nei concorsi per diventare insegnante. Scrive Di Stefano: “Il nuovo concorso per aspiranti professori nelle scuole secondarie, che verrà bandito in gennaio dal Ministero, prevede per tutti i candidati un colloquio in lingua straniera. Se, come viene anticipato, si richiederà la conoscenza dell’inglese almeno al livello B2, vale la pena porsi alcune domande. Primo, fermo restando che l’inglese è la lingua più parlata in Europa, siamo sicuri che a Milano o a Palermo un insegnante di storia, di italiano, di musica o di matematica capace di ordinare con scioltezza una birra scura a Soho sia un insegnante migliore di un altro che nella stessa situazione mostri qualche impaccio?”.
Insomma, l’amore per l’italiano certamente alberga nelle stanze di Viale Trastevere, come dimostrano le Olimpiadi dell’italiano e la nomina nel luglio 2017 della Commissione coordinata da Luca Serianni incaricata di elaborare “un piano di interventi operativi volti a migliorare le competenze, conoscenze e abilità nella lingua italiana delle studentesse e degli studenti della scuola superiore di primo e secondo grado”; ma viene il dubbio che in quelle stanze e in quei lunghi corridoi alberghi un amore per l’inglese molto molto più forte, in barba all’art. 9 della Costituzione e alle indicazioni della Suprema Corte.
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