Il napoletano in tribunale con l’interprete, e i piemontesi a Napoli con l’italiano

Il presidente dell'Accademia invita alla riflessione e al dibattito su un tema storico-linguistico: le radici del rapporto tra italiano e napoletano.

Luglio 2017

Claudio Marazzini

 

Giorni fa, il 13 luglio, il valente collega Lorenzo Tomasin, professore nell’università di Losanna, mi ha scritto segnalandomi il seguente articolo, pubblicato lo stesso giorno nella versione on line del “Corriere del Mezzogiorno”:

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/17_luglio_13/macerata-imputati-napoletani-non-capiscono-l-italiano-chiedono-traduttore-26ea88e0-67a8-11e7-ac90-09bc279dcc97.shtml

In questo articolo, l’avvocato cassazionista Michele Senatore racconta una vicenda avvenuta nelle Marche, dove la giudice Francesca Preziosi ha deciso di nominare un interprete per alcuni imputati napoletani i quali sostenevano di non capire l’italiano. L’interprete è stato nominato alla buona, con una procedura familiare: dalla “prossima udienza l’avvocato Andrea Di Buono, di Civitanova, originario di Napoli, a titolo gratuito, sarà il primo interprete della lingua napoletana in un processo celebratosi in un tribunale italiano”. Per essere interprete di dialetto basta la nascita, non occorre un particolare titolo rilasciato da qualche accademia.

Il collega Tomasin ha commentato il fatto, nel momento stesso in cui me l’ha segnalato: “Secondo me il dialetto qui è solo un pretesto: gl'imputati non capiscono un discorso complesso, il problema non è il dialetto o la lingua, ma il dilagare dell'analfabetismo funzionale (sono certo che l'italiano della Tv spazzatura lo capiscono, e probabilmente anche l'inglese basico della Play Station; mentre ovviamente non capirebbero il napoletano di Basile e forse nemmeno quello di De Filippo). Mi pare comunque un tema d'interesse per l'Accademia, e perciò te lo segnalo”. Prima di tutto, ringrazio pubblicamente l’amico Tomasin della preziosa segnalazione.

Ovviamente condivido l’opinione di Tomasin sul valore strumentale e opportunistico della richiesta avanzata dagli imputati. Per un attimo mi sono chiesto se la scelta del giudice fosse da criticare. Alla fine ho concluso di no, anche se la situazione si presenta grottesca. È grottesca perché il napoletano non è tra le lingue minoritarie menzionate dalla legge n. 482 del 1999, per le quali la pretesa di interprete sarebbe (ahimè) lecita, stando all’art. 9 della legge medesima. Tuttavia diverse Regioni si sono date da fare per dichiarare “lingue minoritarie” i dialetti del loro territorio (così il Piemonte, la Lombardia, e anche la Campania, nel 2008: http://www.napoli.com/viewarticolo.php?articolo=34942 , con deliberazione coronata da una dichiarazione dell’Unesco). Le Regioni, incapaci di intendere la differenza tra lingua e dialetto, e anzi convinte che “dialetto” fosse una parolaccia, erano certe di ottenere una “promozione” del loro patrimonio culturale. A questo punto non mi stupirebbe se qualche giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo fosse pronto a lanciare anatemi contro una procedura giudiziaria che non avesse eventualmente tenuto conto delle richieste dei dialettofoni (veri, o presunti e strumentali che siano). Quindi è probabile che la dottoressa Preziosi abbia proceduto con buon senso e sapienza giuridica, anche se l’esito è tale da lasciare perplessi. Varrà la pena discuterne con i magistrati,  che sono spesso in Crusca, perché noi collaboriamo intensamente con la Scuola Superiore della Magistratura, che ha sede a Scandicci presso Firenze. Siamo soliti discutere con i magistrati temi di lingua del diritto e ragioni di chiarezza: dunque questa vicenda potrà essere oggetto delle nostre comuni riflessioni.

Non solo la scelta del giudice attira la nostra attenzione. Siamo colpiti ben di più dal commento del giornalista-avvocato che ha presentato il caso sul “Corriere del Mezzogiorno”. Mi pare opportuno, a questo punto, ricollegarmi al Tema del mese scorso, nel quale l’Accademica Rita Librandi ha segnalato e confutato una serie di corbellerie sulla lingua italiana divulgate da una trasmissione televisiva con pretese culturali (!). In genere non sono favorevole a intervenire per raddrizzare le gambe ai cani, in un paese in cui le sciocchezze abbondano anche per temi molto gravi, stante l’assoluta refrattarietà alla scienza profondamente connaturata nel tessuto sociale del paese (e l’indagine PIAAC dell’OCSE 2013 ne dà la conferma e, in gran parte, anche la spiegazione). Basti pensare, a proposito di impermeabilità alla scienza, alle incredibili argomentazioni che si sono sentite in occasione del dibattito sui vaccini. Ma noi non ci occupiamo di vaccini, bensì di lingua. Leggiamo dunque il commento del giornalista alla notizia dei napoletani in tribunale con l’interprete:

 

Questa […] decisione [cioè la decisione del tribunale che ha concesso l’interprete] contiene una nota positiva: il riconoscimento del napoletano come lingua. Un riconoscimento che riprende quello già effettuato, qualche anno fa, dall’Unesco. Sono passati poco più di 150 anni da quando, con la fine del Regno delle Due Sicilie, i Savoia imposero alle popolazioni meridionali l’italiano come lingua ufficiale del regno, dopo secoli durante i quali il «napolitano» era stato la lingua ufficiale del Regno delle Due Sicilie. Una lingua che ha avuto le sue origini, sin dai tempi di Pompei, e ha continuato ad evolversi da Federico II fino al periodo degli aragonesi, e nel tempo, pur subendo molti cambiamenti e influenze, dovuti alle diverse dominazioni, ha sempre conservato la sua matrice originale.

 

A parte il fatto che a Pompei si parlava latino e alla corte di Federico II si facevano leggi in latino e si scrivevano versi d’amore in siciliano, non certo in “napolitano”, come diavolo si può credere che i Savoia abbiano mai imposto l’italiano nel Regno delle Due Sicilie? Ma perché l’autore dell’articolo, che è anche avvocato, non si rilegge il Codice per lo Regno delle Due Sicilie pubblicato a Napoli nel 1819 (cioè prima dell’arrivo di Garibaldi e dei Piemontesi), emanato da Ferdinando I, “per la grazia di Dio / Re del Regno delle Due Sicilie ecc.”, che “Veduto il parere del supremo Consiglio di Cancelleria; / udito il nostro consiglio di Stato” ecc. ecc.? Sì, caro avvocato: le leggi napoletane erano in italiano anche prima dei Piemontesi. E in Sicilia, in data 8 ottobre 1652, una prammatica vicereale prescrisse l’uso obbligatorio dell’italiano negli atti notarili. Del resto, in che lingua sono scritti i capolavori della letteratura che ci sono giunti dal Regno meridionale? In che lingua scriveva Sannazaro? E in che lingua Vico scrisse la Scienza nuova? E in che lingua sono le opere di Giannone, di Galiani, di Genovesi? In che lingua faceva lezione il Puoti? Evidentemente l’influsso dei piemontesi deve essere stato molto attivo ed efficace già prima dell’unità d’Italia, oppure i conti non tornano.

C’è voluto il meritorio intervento dello storico Alessandro Barbero, con tutta la sua ben nota intelligenza e autorevolezza, per fare a pezzi la ridicola e infondata tesi secondo la quale tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie, che una bufala ridicola spacciava nel numero di 40.000, mentre erano in tutto 1.186 (http://www.lindipendenzanuova.com/fenestrelle-la-storia-e-diversa-da-come-lhanno-raccontata/). Spero che questo mio intervento possa spazzare via quest’altra bufala, che siano stati i Piemontesi a imporre l’italiano nel Regno del Sud. Se l’avessero fatto, avrebbero comunque un gran merito. Tuttavia, come mostrano le prove che ho portato, e che potrei moltiplicare all’infinito, si tratta semplicemente di una panzana.

 

scresti_redattore
25 settembre 2017 - 00:00

Intervento conclusivo di Claudio Marazzini

In chiusura, come si usa, dovrei commentare e rispondere agli intervenuti. Mi sembra però che il dibattito tra i lettori sia stato vivace, appassionato, puntuale e ricco: davvero non richiede altre mie postille. Sarebbero persino ripetitive. Chi ha orecchi per intendere ed è dotato di un po’ di senso critico, avrà ben capito la questione; chi è travolto dal fanatismo, non capirà mai. Lo scambio razionale, in certi casi, cozza contro un limite oggettivo, non superabile. Mi colpisce, comunque, la vivacità delle reazioni: mai erano state tali per un mio intervento, anche se più volte mi è capitato di redigere “Temi del mese”. Almeno per questo, non posso non essere contento: è un record. Nel merito, però, leggendo alcuni interventi, mi si accappona la pelle, pensando alle sorti di una società civile in cui qualcuno riversa in un sito di prestigio argomenti privi di qualunque peso razionale. Le tesi del collega Alessandro Barbero hanno suscitato le reazioni più accese. Anzi, in una prima fase ci si è agitati più per Fenestrelle che per la lingua napoletana. Mi permetterò anzi di riassumere in forma comico-parodica le invenzioni storico-linguistiche più radicali, che si alternano, nei commenti, alle osservazioni equilibrate di lettori più saggi e ferrati (che pure esistono). Ne deriva una macedonia di ipotesi tali da far girare la testa. Solo la parodia ci può far uscire da questa confusione, in cui ci vogliono gettare i fautori dei particolarismi più sfrenati. Metterò nella sintesi un po’ di fantasia, evocando qualche nome nuovo, che potrebbe anche riattizzare la polemica. La lingua “napolitana”, dunque è antica come Federico II, anzi è nata in Sicilia. L’hanno adoperata e teorizzata Ferdinando Galiani e il filosofo Giambattista Vico, dopo aver parlato dei geroglifici e della lingua dei simboli, ma è stata distrutta e detronizzata dagli invasori piemontesi, fra l’altro traditori del loro dialetto (un dialetto non-italiano, come hanno scoperto tempo fa alcuni innovatori della linguistica scientifica, ora gentilmente intervenuti anche nella disputa sulla lingua napoletana). Abbiamo dunque capito che i piemontesi, in attesa di compiere genocidi, furono precoci traditori del loro dialetto, spinti (e non si sa perché, forse per trenta denari) da Cosimo de’ Medici, e avviati poi al culto di Dante, verosimilmente da Cesare Balbo o dal canellese padre Giuliani: su questo si indagherà in futuro). Si sospetta che il vero Grande Traditore, prima di Vittorio Emanuele II, sanguinario conquistatore della Sicilia e del Regno del Sud, anima nera del genocidio, dovette essere Emanuele Filiberto, poliglotta assetato di potere ma incostante, stufo di parlare spagnolo e francese, tanto da concepire l’assurdo progetto di imporre l’italiano, ma non ai napoletani, bensì a se stesso e ai piemontesi, che però non ne volevano sapere, tanto che, per farsi ubbidire, il tiranno dovette minacciare multe salate. Ma alla fine la spuntò, e così i piemontesi imposero l’italiano all’Italia, scelta pessima, perché si stava meglio quando ognuno parlava la propria lingua locale, e ufficialmente si comunicava in latino. Siamo anzi certi che alcuni piemontesi di oggi, affezionati, a modo loro, alla loro terra, metteranno giustamente al rogo, anche se solo in effigie per mancanza del vile corpo, un altro grande traditore del Piemonte, il filoitaliano conte Galeani Napione di Cocconato: quello sarà il grande giorno del riscatto).

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Academia de ła Łengua Veneta
11 agosto 2017 - 00:00
L'Academia de ła Łengua Veneta bacchetta l'Accademia della Crusca. È online la risposta veneta alle assurdità dell'Accademia della Crusca su napoletano, siciliano e... veneto. Visto che questo sito non autorizza inserimento di indirizzi url, cercate la pagina FaceBook "Academia de ła Łengua Veneta" e troverete la Nota "L'Academia de ła Łengua Veneta bacchetta l'Accademia della Crusca sul napoletano e sulle lingue minoritarie." pubblicata e già letta da centinaia di persone. Co Creansa. Staff social ABC–AŁV

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Giuseppe Tria
02 agosto 2017 - 00:00
Curioso che lei parli di bufale ridicole e poi citi un articolo che termina così: "In sintesi non si vuole negare che l’occupazione delle Due Sicilie fu una semplice guerra di conquista e non di liberazione, una aggressione bella e buona, una violenza pura e semplice"

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Claudio Bertoni
01 agosto 2017 - 00:00
Voglio ricordare che il PIEMONTESE è una LINGUA che nulla ha a che spartire con l'Italiano. hanno due provenienze diverse pur derivando dallo stesso ceppo iniziale. Questo vuol dire che il Piemontese NON è un "dialetto" dell'italiano. Purtroppo questa prerogativa di parlare in piemontese in un processo penale non avverrà mai, vista la mancanza di imputati di lingua piemontese..... Lo stato (minuscolo voluto ) italiota al contrario dell'Unesco non risocnosce il piemontese quale lingua, in compenso ci sono fior fior di finanziamenti pubblici per festival di canzone napoletana. TUTTE le LINGUE regionali vanno tutelate. La negazione delle lingue regionali è chiaro segno di una insicurezza rispetto ad una italianità inesistente.

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CAIR
15 settembre 2017 - 00:00
Non c'è nessuna necessità di tutela linguistica del piemontese.
Anonimo
01 agosto 2017 - 00:00
Speriamo di finirla con questa difesa a oltranza dei dialetti, anzi, delle loro metamorfosi cafonesche che poco hanno di storico. In Italia sarebbe auspicabile parlare prima correttamente l'italiano e, poi, al limite potersi esprimere con i propri compari anche in dialetto... La realtà è ben diversa con milioni di bofonchiatori che non sanno nemmeno dove sia di casa l'italiano e che biascicano vocabili incomprensibili...

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Paolo
29 luglio 2017 - 00:00
Bell'articolo. Non altrettanto potrei dire di alcuni commenti. Un conto è dissentire con argomentazioni serie, un conto è teorizzare che le lingue esistono in presenza di marina ed esercito. Eviterei di scambiare il sito dell'Accademia della Crusca per un posto come Facebook, ove dire la propria opinione senza cognizione di causa. Sono un capitolo a sè le critiche a Barbero perché non ha letto tutto il materiale esistente su Fenestrelle e gli eserciti del periodo. Se fosse un argomento serio, la quasi totalità dei libri di storia moderna e contemporanea dovrebbero essere distrutti. Compresi quei libri di coloro che dicono che Fenestrelle era un lager. Nessuno, su alcun argomento non marginalissimo, ha la possibilità di leggere tutto. Nell'ottocento il prezzo della carta è crollato e gli stati, la società in generale, ha scritto tantissimo. Dovremmo mettere al rogo tutti i libri della prima e seconda guerra mondiale. Per coerenza si dovrebbero raccogliere le firme per abolire l'insegnamento degli ultimi secoli di storia. E anche quelli precedenti, non se la passerebbero molto bene. Con la moderna elettronica, le pagine scritte si sono moltiplicate. Quale storico potrà mai scrivere la storia della presidenza Trump?

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Anonimo
28 luglio 2017 - 00:00
Il dialetto è la parlata di un popolo. La lingua è la parlata di un popolo con esercito e marina.

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Claudio Bertoni
01 agosto 2017 - 00:00
INFATTI IL PIEMONTE AVEVA UN ESERCITO NEGLIO STATI DI SAVOYA
Italiano
28 luglio 2017 - 00:00
Ottimo articolo che smonta l'ennesima menzogna di certi revisionisti neoborbonici. Gente che fa del male al sud inventando cose farlocche invece di esaltarne le vere virtù e fare, quando serve, un briciolo di autocritica.

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Michele Maresca
27 luglio 2017 - 00:00
Giusto. Come potevano i Savoia diffondere la lingua italiana nelle terre colonizzate del Regno, se loro stessi non lo conoscevano e parlavano in francese? Per quanto concerne Fenestrelle, la storia è ancora tutta da scrivere, checché ne dica il campanilisticissimo Barbero.

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Anonima
27 luglio 2017 - 00:00
Io ricordo addirittura di uno scrittore napoletano del '500, mi pare Giovanbattista della Porta, che diceva che i napoletani scrivevano in toscano meglio dei toscani stessi, perchè "loro lo imparano dalle nutrici, noi leggendo Dante e Petrarca".

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Alessandro Raiola
27 luglio 2017 - 00:00
"..che siano stati i Piemontesi a imporre l’italiano nel Regno del Sud. Se l’avessero fatto, avrebbero comunque un gran merito..." Quale sarebbe questo merito? Tentato (invano) di cancellare una lingua o imporla? Non basta l'annessione del Regno delle due Sicilie a questa nuova nazione piemontesizzata che a distanza di oltre 155 anni non trova ancora luce a causa di una perequazione in cui una parte del paese (il nord) vive sulle spalle di un altra? ( il Sud)

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Domenico
27 luglio 2017 - 00:00
Mi preme sottolineare alcuni aspetti della questione, in risposta alle affermazioni non corrette di più di un utente. È vero che si dispone di una non esigua documentazione cancelleresca risalente al '400 - e non limitata solo a Napoli, ma relativa anche ad altre aree del Regno - redatta in una koinè sovralocale, infarcita di latinismi, ma vanno fatte alcune precisazioni: in epoca aragonese, gli atti di corte erano anzitutto in catalano. Segue il latino. La terza lingua utilizzata, per numero di occorrenze, è un volgare locale fortemente filtrato, privo di marcati localismi (quali i dittonghi metafonetici) e sostanzialmente coincidente con la koinè cancelleresca già citata (trattasi, oltretutto, di quella lingua che Giovanni Brancati, librero mayor sotto re Ferrante, uno degli intellettuali di spicco dell'epoca, intendeva utilizzare nel volgarizzamento dell'Historia naturalis di Plinio: un idioma "non pur napolitano, ma misto"). È errato dunque, affermare che "gli atti ufficiali della corte erano in napoletano", come molti ostinatamente sostengono. Il Regno di Napoli (poi delle Due Sicilie) non scelse MAI il napoletano (né urbano, né di koinè) come lingua ufficiale di corte e della burocrazia. Inoltre, è inesatto rispondere alle argomentazioni del prof. Marazzini con esempi quattrocenteschi, in quanto la toscanizzazione del linguaggio dapprima letterario e poi burocratico sarà pienamente evidente solo dal '500. Anzi, a ben vedere, a Napoli la poesia nasce già fortemente toscanizzata (Landulfo di Lamberto e Paolo dell'Aquila, ad esempio, adottano una lingua 'italianizzata' ben prima dei dettami bembiani del 1525). Nel '700, poi, gli atti ufficiali del Regno sono in italiano. Nelle scuole del Regno si insegna, per decreto regio, in italiano. Persino i bandi esposti a Napoli sono per lo più in italiano (a Port'Alba c'è ancora un bando settecentesco bilingue, in italiano e in latino). Questo per dire che l'italianizzazione è stata un fenomeno ben precedente l'Unità, e SCELTO dapprima dai letterati, poi dalle corti, dai notai, e da tutti coloro che necessitavano di un modello di lingua scritta sovralocale, che non fosse più il latino, naturalmente. Un recentissimo volume di Enrico Testa, "L'italiano nascosto", porta agli estremi tale quadro intravedendo una tendenza all'italianizzazione persino in quei documenti redatti, fin dal '500, dai cosiddetti "semicolti": una tesi forse eccessiva, ma che rende bene l'idea di quanto sostenere la teoria dell'italianizzazione recente e imposta sia assolutamente fuorviante. Ciò che ho trovato poco consono è, piuttosto, l'appunto finale del prof. Marazzini, in quanto definire "un merito" una presunta italianizzazione forzata del Regno ad opera dei piemontesi (che, ripetiamo, mai avvenne) è un giudizio che, a mio parere, è poco opportuno esprimere. Non solo perché la storia linguistica è da narrarsi nell'oggettività del suo svolgersi, non solo perché forzature non ve ne sarebbero state in ogni caso, in quanto l'italianizzazione era una realtà già antica nel Regno - tra i letterati, si è detto, da almeno quattro secoli -, ma soprattutto perché, mentre è lecito definire "meritevoli" tutti quegli atti politici che possano agire in favore dell'alfabetizzazione, più sconveniente è augurarsi che essa passi per forme di imposizione linguistica, tanto più in un Paese che ha scelto una lingua "nazionale" ancor prima di esistere. In altre parole: l'italianizzazione - dapprima letteraria - che interessò tutti gli Stati preunitari ben prima dell'unificazione politica, non fu né un bene né un male: è semplicemente un dato di fatto. L'alfabetizzazione, si, è un bene che potremmo definire "assoluto", da perseguire con manovre "dall'alto", non l'italianizzazione in sé. Che le due cose finiscano poi per coincidere, all'atto pratico (dal momento che l'italiano ha occupato il posto di lingua della cultura per tutta la penisola già dal '500), è un fattore di pura contingenza storica, a mio parere.

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Anonimo
26 luglio 2017 - 00:00
Grandioso come sempre il mio carissimo Professor Marazzini! Bellissimo intervento il suo.Orgogliosa della nostra passata amiciziai e felice per l'incarico prestigioso che ricopre. Spero che si ricordi di me.... Oggi ho 86 anni e sono vispa come un grillo....E viva sempre la lingua italiana, grande passione della mia vita!

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Risposta
Claudio Marazzini
26 luglio 2017 - 00:00
Sono curioso di sapere chi sia questa signora di 86 anni che parla della nostra amicizia. Non sarà la signora Pucci, autrice di meravigliose memorie inedite di cui ancora conservo il manoscritto? E' lei? me ne dia conferma, se così è. Un cordiale saluto e un ringraziamenrto. Claudio Marazzini
Gigi
26 luglio 2017 - 00:00
Purtroppo il termine 'dialetto' è stato demonizzato e, che vi piaccia o no, in molte zone del sud equivale ancora a una parolaccia, ma la colpa non è di certo dei piemontesi visto che il fiorentino si è usato in tutta Italia dal 1600 in poi come codice scritto (ovviamente per i pochi che sapevano leggere e scrivere in questo codice!). Prima della prammatica menzionata nell'articolo, vorrei ricordare che fu un editto di Carlo D'Angiò che stabilì che, nelle province meridionali, la lingua legale/di corte non fosse più il latino, ma il volgare. "in un paese in cui le sciocchezze abbondano anche per temi molto gravi" mi sembra un'affermazione assolutamente corretta, ma purtroppo poco propositiva. Se solo ci fosse un minimo di educazione alla diversità linguistica in Italia (cosa che si fa all'estero con gli studenti di italiano, perché è NECESSARIO contestualizzare la situazione linguistica italiana) non staremmo qui a discuterne ancora, e probabilmente ci definiremmo tutti bilinque, come in Catalogna.

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Risposta
Andrea
26 luglio 2017 - 00:00
Concordo in pieno con il suo commento. Per quanto, purtroppo, gli stessi difensori del dialetto conoscano poco della storia linguistica della propria regione, è altresì vero che in Italia facciamo poco e nulla per salvaguardare la nostra ricchezza linguistica, finendo per creare gerarchie che non solo, a lungo andare, tendono a impoverirci (basti pensare alla continua riduzione della varietà linguistica della penisola; ai comuni miscugli tra italiano e dialetto e, dunque, all'uso scorretto tanto dell'uno come dell'altro), ma che addirittura minimizzano quella che è una ricchezza ed una risorsa di molti noi: il bilinguismo. La politica linguistica dello Stato italiano, incentrata su un'unica lingua (come, del resto, la europea, basata sull'inglese, a discapito di tutte le altre lingue di serie B) è fallimentare, alimenta rancori, campanilismo ed è, da un punto di vista culturale, assurda nel 2017.
Anonimo
26 luglio 2017 - 00:00
Sembra che Marazzini ignori semplicemente ciò di cui scrive. Partiamo dall'inizio. 1) Marazzini sembra ignorare (in questo breve testo, fra gli esempi, non fa menzione, eppure sarebbe stato totalmente in tema con l'argomento) che nella seconda metà del Quattrocento, sotto il regno di Ferrante di Napoli, gli atti ufficiali erano scritti in una koinè napoletana. 2) Barbero esprime una sua visione storica, esattamente come fanno, argomentando, i suoi oppositori, ed esattamente come fanno tutti gli storici del mondo. 3) Più di una volta Barbero è scivolato su storia e geografia: a pagina 306 de "I prigionieri di Savoia" afferma che la locuzione «Nazione napolitana» è qualcosa di posticcio e mai esistito, mentre è una locuzione che si ritrova fin dal Seicento e addirittura citata ben 19 volte nel Saggio storico di Vincenzo Cuoco, di cui ben due volte nel titolo di capitoli ( devo dedurre dunque che Barbero non conosca il saggio del Cuoco...). Altra volta Barbero "mette" Casalduni e Pontelandolfo, due città in provincia di Benevento, in Lucania, e così via; 3) Sempre nel citato libro del Barbero (che tra l'altro riprende una vecchia tesi di laurea di tal Bossuto) NON si nega la prigionia dei soldati napoletani a Fenestrelle, ma che, sulla base di una mancanza di documenti ( fino ad ora da lui non trovati), si afferma che non è possibile stabilire che quei soldati siano morti nella prigione. Marazzini quindi non sa nemmeno cosa cita, un atteggiamento ben poco scientifico.

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gennaro de crescenzo
26 luglio 2017 - 00:00
Gentile prof. Marazzini, pur essendo un cultore del napoletano, concordo con Lei a proposito delle "lingue ufficiali" utilizzate nel Regno. Concordo meno sulla sua tesi relativa a Fenestrelle, tema che ho studiato a lungo negli archivi e per il quale ho avuto un lungo e articolato confronto con Barbero. Solo una nota: i primi a parlare di "oltre 40.000 soldati napoletani rinchiusi a Fenestrelle" non sono stati i neoborbonici ma i... Carabinieri (Museo dei Carabinieri di Roma, allestito addirittura nel 1920). La percentuale di mortalità nelle carceri sabaude (cfr. i dati suffragati anche da Barbero) era del 19% in condizioni ordinarie... Faccia lei i tragici conti sapendo, però, che gli archivi, in particolare quelli italiani "controllati" dai cosiddetti "funzionari sabaudisti" (cfr. U. Levra), non sempre conservano e rivelano tutto il patrimonio documentario di uno Stato. Da aggiungere che Barbero, delle 2773 unità archivistiche presenti sul tema solo a Torino, ne ha consultato solo 63 (e solo dal 1860 a parte del 1862) dichiarando chiusa una questione delicata e complessa e tutta ancora da approfondire. Cortesi saluti. Prof. Gennaro De Crescenzo

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Risposta
ferdinando palmers
27 luglio 2017 - 00:00
Grande presidè .
Mario Bellotti
26 luglio 2017 - 00:00
Fino all'inizio della lettura dell'ultimo paragrafo ero anche parzialmente favorevole alla tesi del prof. Marazzini. Ma la presunta bufala smentita dall'autorevole Barbero, intelligente ecc... ha spazzato via ogni favore. Il Barbero, analizzando una minima parte dei documenti disponibili in vari archivi, ha sprezzantemente dichiarato di vincere una polemica su un argomento che invece rimane tuttora aperto. Se anche fossero stati solo una decina (e invece secondo Barbero furono più di un migliaio) i soldati italiani del Regno delle Due Sicilie rimasti fedeli a Francesco II e per questo imprigionati in durissime condizioni in quel forte di Fenestrelle, meriterebbero rispetto ed onore in un'Italia incapace di sentimenti di fedeltà e dedizione. Lo stesso rispetto ed onore riservato agli antifascisti imprigionati durante il Ventennio e poi vincitori dell Seconda Guerra Mondiale, per essere chiaro. Caro prof. Marazzini, la prego, si limiti alle questioni linguistiche, come dichiara appunto nel suo articolo. Per il resto, un bagno di umiltà è necessario che lo facciamo tutti, se abbiamo a cuore questo disgraziato e lacerato Paese. Con stima, Mario Bellotti

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carlo
26 luglio 2017 - 00:00
Il dialetto napoletano va sempre più italianizzandosi, nel senso che antichi vocaboli e anche la costruzione dei periodi non vengono più adoperati, vuoi per mancanza di conoscenza del dialetto e quindi per pigrizia, vuoi perché sempre dimunuiscono coloro che sanno veramente di dialetto. Non facciamoci illusioni: il dialetto napoletano va a poco a poco verso l'estinzione lasciando il posto a una "lingua" ibrida che sempre più ha dell'italiano e sempre meno del napoletano. Io non so quelle persone che tipo di "lingua" parlassero (di scriverlo nemmeno credo che abbiano mai tentato perché il dialetto napoletano è difficile da scrivere); forse anche un napoletano che effettivamente conoscesse il dialetto non avrebbe compreso in toto. Per salvare il dialetto occorrerebbe inserirne l'insegnamento in un percorso scolastico che inizi dalla scuola di primo grado e continui nelle successive. Ma dove trovare bravi insegnanti considerando che le dispute, nell'ambito degli "studiosi", in questa materia sono frequenti e difficilmente risolvibili con un accordo che vada bene per tutti?

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gennaro de crescenzo
26 luglio 2017 - 00:00
Gentile prof. Marazzini, potremmo concordare sulle lingue ufficiali del Regno, concordiamo meno sulla dignità della lingua napoletana (antica di 8 secoli) ma non possiamo per nulla concordare con Lei sulla sua tesi relativa a Fenestrelle definita (con scarso rispetto per chi in quella fortezza è morto) "ridicola bufala". Il tema l'ho studiato a lungo negli archivi e sul tema ho avuto un lungo e articolato confronto con Barbero. Solo una nota: i primi a parlare di "oltre 40.000 soldati napoletani rinchiusi a Fenestrelle" non sono stati i neoborbonici ma i... Carabinieri (Museo dei Carabinieri di Roma, allestito addirittura nel 1920). La percentuale di mortalità nelle carceri sabaude (cfr. i dati suffragati anche da Barbero) era del 19% in condizioni ordinarie... Faccia lei i tragici conti sapendo, però, che gli archivi, in particolare quelli italiani "controllati" dai cosiddetti "funzionari sabaudisti" (cfr. U. Levra), non sempre conservano e rivelano tutto il patrimonio documentario di uno Stato. Da aggiungere che Barbero, delle 2773 unità archivistiche presenti sul tema solo a Torino, ha consultato solo 63 unità archivistiche (e solo dal 1860 a parte del 1862) dichiarando chiusa una questione delicata e complessa e tutta ancora da approfondire con rispetto e con attenzione. Cortesi saluti. Prof. Gennaro De Crescenzo

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Notizie dall'Accademia

CruscaScuola: Corso di formazione per i docenti a.s. 2024/2025 Leggere e comprendere i testi: riflessioni, strumenti e strategie didattiche

08 nov 2024

CruscaScuola: Un viaggio tra le parole. Il progetto per i docenti delle scuole secondarie di primo grado per l'a.s.2024/2025

08 nov 2024

L’Accademia della Crusca nomina otto nuovi Accademici

30 ott 2024

Scomparsa l'Accademica Ornella Castellani Pollidori

21 ott 2024

Dalla parola al fumetto, dal fumetto alla parola. Verso un piccolo glossario del fumetto e dell'illustrazione - Istruzioni per l’uso

16 ott 2024

L'Accademia della Crusca partecipa alla Bright Night dell'Università di Firenze

17 set 2024

Premio Internazionale Isola di Mozia 2024 conferito all'Accademico Rosario Coluccia

10 set 2024

Suonar le labbra. Dialoghi e monologhi d’amore (in musica): la Crusca ospita il concerto di musica rinascimentale a cura dell'Associazione L’Homme Armé

04 set 2024

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