Il presidente dell'Accademia invita alla riflessione e al dibattito su un tema storico-linguistico: le radici del rapporto tra italiano e napoletano.
Luglio 2017
Giorni fa, il 13 luglio, il valente collega Lorenzo Tomasin, professore nell’università di Losanna, mi ha scritto segnalandomi il seguente articolo, pubblicato lo stesso giorno nella versione on line del “Corriere del Mezzogiorno”:
In questo articolo, l’avvocato cassazionista Michele Senatore racconta una vicenda avvenuta nelle Marche, dove la giudice Francesca Preziosi ha deciso di nominare un interprete per alcuni imputati napoletani i quali sostenevano di non capire l’italiano. L’interprete è stato nominato alla buona, con una procedura familiare: dalla “prossima udienza l’avvocato Andrea Di Buono, di Civitanova, originario di Napoli, a titolo gratuito, sarà il primo interprete della lingua napoletana in un processo celebratosi in un tribunale italiano”. Per essere interprete di dialetto basta la nascita, non occorre un particolare titolo rilasciato da qualche accademia.
Il collega Tomasin ha commentato il fatto, nel momento stesso in cui me l’ha segnalato: “Secondo me il dialetto qui è solo un pretesto: gl'imputati non capiscono un discorso complesso, il problema non è il dialetto o la lingua, ma il dilagare dell'analfabetismo funzionale (sono certo che l'italiano della Tv spazzatura lo capiscono, e probabilmente anche l'inglese basico della Play Station; mentre ovviamente non capirebbero il napoletano di Basile e forse nemmeno quello di De Filippo). Mi pare comunque un tema d'interesse per l'Accademia, e perciò te lo segnalo”. Prima di tutto, ringrazio pubblicamente l’amico Tomasin della preziosa segnalazione.
Ovviamente condivido l’opinione di Tomasin sul valore strumentale e opportunistico della richiesta avanzata dagli imputati. Per un attimo mi sono chiesto se la scelta del giudice fosse da criticare. Alla fine ho concluso di no, anche se la situazione si presenta grottesca. È grottesca perché il napoletano non è tra le lingue minoritarie menzionate dalla legge n. 482 del 1999, per le quali la pretesa di interprete sarebbe (ahimè) lecita, stando all’art. 9 della legge medesima. Tuttavia diverse Regioni si sono date da fare per dichiarare “lingue minoritarie” i dialetti del loro territorio (così il Piemonte, la Lombardia, e anche la Campania, nel 2008: http://www.napoli.com/viewarticolo.php?articolo=34942 , con deliberazione coronata da una dichiarazione dell’Unesco). Le Regioni, incapaci di intendere la differenza tra lingua e dialetto, e anzi convinte che “dialetto” fosse una parolaccia, erano certe di ottenere una “promozione” del loro patrimonio culturale. A questo punto non mi stupirebbe se qualche giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo fosse pronto a lanciare anatemi contro una procedura giudiziaria che non avesse eventualmente tenuto conto delle richieste dei dialettofoni (veri, o presunti e strumentali che siano). Quindi è probabile che la dottoressa Preziosi abbia proceduto con buon senso e sapienza giuridica, anche se l’esito è tale da lasciare perplessi. Varrà la pena discuterne con i magistrati, che sono spesso in Crusca, perché noi collaboriamo intensamente con la Scuola Superiore della Magistratura, che ha sede a Scandicci presso Firenze. Siamo soliti discutere con i magistrati temi di lingua del diritto e ragioni di chiarezza: dunque questa vicenda potrà essere oggetto delle nostre comuni riflessioni.
Non solo la scelta del giudice attira la nostra attenzione. Siamo colpiti ben di più dal commento del giornalista-avvocato che ha presentato il caso sul “Corriere del Mezzogiorno”. Mi pare opportuno, a questo punto, ricollegarmi al Tema del mese scorso, nel quale l’Accademica Rita Librandi ha segnalato e confutato una serie di corbellerie sulla lingua italiana divulgate da una trasmissione televisiva con pretese culturali (!). In genere non sono favorevole a intervenire per raddrizzare le gambe ai cani, in un paese in cui le sciocchezze abbondano anche per temi molto gravi, stante l’assoluta refrattarietà alla scienza profondamente connaturata nel tessuto sociale del paese (e l’indagine PIAAC dell’OCSE 2013 ne dà la conferma e, in gran parte, anche la spiegazione). Basti pensare, a proposito di impermeabilità alla scienza, alle incredibili argomentazioni che si sono sentite in occasione del dibattito sui vaccini. Ma noi non ci occupiamo di vaccini, bensì di lingua. Leggiamo dunque il commento del giornalista alla notizia dei napoletani in tribunale con l’interprete:
Questa […] decisione [cioè la decisione del tribunale che ha concesso l’interprete] contiene una nota positiva: il riconoscimento del napoletano come lingua. Un riconoscimento che riprende quello già effettuato, qualche anno fa, dall’Unesco. Sono passati poco più di 150 anni da quando, con la fine del Regno delle Due Sicilie, i Savoia imposero alle popolazioni meridionali l’italiano come lingua ufficiale del regno, dopo secoli durante i quali il «napolitano» era stato la lingua ufficiale del Regno delle Due Sicilie. Una lingua che ha avuto le sue origini, sin dai tempi di Pompei, e ha continuato ad evolversi da Federico II fino al periodo degli aragonesi, e nel tempo, pur subendo molti cambiamenti e influenze, dovuti alle diverse dominazioni, ha sempre conservato la sua matrice originale.
A parte il fatto che a Pompei si parlava latino e alla corte di Federico II si facevano leggi in latino e si scrivevano versi d’amore in siciliano, non certo in “napolitano”, come diavolo si può credere che i Savoia abbiano mai imposto l’italiano nel Regno delle Due Sicilie? Ma perché l’autore dell’articolo, che è anche avvocato, non si rilegge il Codice per lo Regno delle Due Sicilie pubblicato a Napoli nel 1819 (cioè prima dell’arrivo di Garibaldi e dei Piemontesi), emanato da Ferdinando I, “per la grazia di Dio / Re del Regno delle Due Sicilie ecc.”, che “Veduto il parere del supremo Consiglio di Cancelleria; / udito il nostro consiglio di Stato” ecc. ecc.? Sì, caro avvocato: le leggi napoletane erano in italiano anche prima dei Piemontesi. E in Sicilia, in data 8 ottobre 1652, una prammatica vicereale prescrisse l’uso obbligatorio dell’italiano negli atti notarili. Del resto, in che lingua sono scritti i capolavori della letteratura che ci sono giunti dal Regno meridionale? In che lingua scriveva Sannazaro? E in che lingua Vico scrisse la Scienza nuova? E in che lingua sono le opere di Giannone, di Galiani, di Genovesi? In che lingua faceva lezione il Puoti? Evidentemente l’influsso dei piemontesi deve essere stato molto attivo ed efficace già prima dell’unità d’Italia, oppure i conti non tornano.
C’è voluto il meritorio intervento dello storico Alessandro Barbero, con tutta la sua ben nota intelligenza e autorevolezza, per fare a pezzi la ridicola e infondata tesi secondo la quale tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie, che una bufala ridicola spacciava nel numero di 40.000, mentre erano in tutto 1.186 (http://www.lindipendenzanuova.com/fenestrelle-la-storia-e-diversa-da-come-lhanno-raccontata/). Spero che questo mio intervento possa spazzare via quest’altra bufala, che siano stati i Piemontesi a imporre l’italiano nel Regno del Sud. Se l’avessero fatto, avrebbero comunque un gran merito. Tuttavia, come mostrano le prove che ho portato, e che potrei moltiplicare all’infinito, si tratta semplicemente di una panzana.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Il Maestro Muti viene insignito dall’Accademia della Crusca del premio “Benemerito della Lingua Italiana 2024” e il presidente Paolo D'Achille, cogliendo questo e diversi altri spunti dalla storia e dall’attualità, propone una riflessione sull'italiano della musica.
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Non ci sono avvisi da mostrare.
Intervento conclusivo di Claudio Marazzini
In chiusura, come si usa, dovrei commentare e rispondere agli intervenuti. Mi sembra però che il dibattito tra i lettori sia stato vivace, appassionato, puntuale e ricco: davvero non richiede altre mie postille. Sarebbero persino ripetitive. Chi ha orecchi per intendere ed è dotato di un po’ di senso critico, avrà ben capito la questione; chi è travolto dal fanatismo, non capirà mai. Lo scambio razionale, in certi casi, cozza contro un limite oggettivo, non superabile. Mi colpisce, comunque, la vivacità delle reazioni: mai erano state tali per un mio intervento, anche se più volte mi è capitato di redigere “Temi del mese”. Almeno per questo, non posso non essere contento: è un record. Nel merito, però, leggendo alcuni interventi, mi si accappona la pelle, pensando alle sorti di una società civile in cui qualcuno riversa in un sito di prestigio argomenti privi di qualunque peso razionale. Le tesi del collega Alessandro Barbero hanno suscitato le reazioni più accese. Anzi, in una prima fase ci si è agitati più per Fenestrelle che per la lingua napoletana. Mi permetterò anzi di riassumere in forma comico-parodica le invenzioni storico-linguistiche più radicali, che si alternano, nei commenti, alle osservazioni equilibrate di lettori più saggi e ferrati (che pure esistono). Ne deriva una macedonia di ipotesi tali da far girare la testa. Solo la parodia ci può far uscire da questa confusione, in cui ci vogliono gettare i fautori dei particolarismi più sfrenati. Metterò nella sintesi un po’ di fantasia, evocando qualche nome nuovo, che potrebbe anche riattizzare la polemica. La lingua “napolitana”, dunque è antica come Federico II, anzi è nata in Sicilia. L’hanno adoperata e teorizzata Ferdinando Galiani e il filosofo Giambattista Vico, dopo aver parlato dei geroglifici e della lingua dei simboli, ma è stata distrutta e detronizzata dagli invasori piemontesi, fra l’altro traditori del loro dialetto (un dialetto non-italiano, come hanno scoperto tempo fa alcuni innovatori della linguistica scientifica, ora gentilmente intervenuti anche nella disputa sulla lingua napoletana). Abbiamo dunque capito che i piemontesi, in attesa di compiere genocidi, furono precoci traditori del loro dialetto, spinti (e non si sa perché, forse per trenta denari) da Cosimo de’ Medici, e avviati poi al culto di Dante, verosimilmente da Cesare Balbo o dal canellese padre Giuliani: su questo si indagherà in futuro). Si sospetta che il vero Grande Traditore, prima di Vittorio Emanuele II, sanguinario conquistatore della Sicilia e del Regno del Sud, anima nera del genocidio, dovette essere Emanuele Filiberto, poliglotta assetato di potere ma incostante, stufo di parlare spagnolo e francese, tanto da concepire l’assurdo progetto di imporre l’italiano, ma non ai napoletani, bensì a se stesso e ai piemontesi, che però non ne volevano sapere, tanto che, per farsi ubbidire, il tiranno dovette minacciare multe salate. Ma alla fine la spuntò, e così i piemontesi imposero l’italiano all’Italia, scelta pessima, perché si stava meglio quando ognuno parlava la propria lingua locale, e ufficialmente si comunicava in latino. Siamo anzi certi che alcuni piemontesi di oggi, affezionati, a modo loro, alla loro terra, metteranno giustamente al rogo, anche se solo in effigie per mancanza del vile corpo, un altro grande traditore del Piemonte, il filoitaliano conte Galeani Napione di Cocconato: quello sarà il grande giorno del riscatto).
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi