In occasione del IX Convegno internazionale ASLI, intitolato "Storia della lingua italiana e storia dell'Italia unita. L'italiano e lo Stato nazionale" (Firenze, 2-4 dicembre 2010), al Teatro Goldoni di Firenze, l'Ensemble corale del Maggio Formazione, diretto dal Maestro Carlomoreno Volpini, ha eseguito un concerto di Composizioni di musica risorgimentale.
Il professor Luciano Alberti, che ha curato il programma della serata, ha gentilmente messo a disposizione il testo della sua ricchissima introduzione, che con grande piacere pubblichiamo, in cui appare con grande chiarezza come la passione che animò i patrioti abbia trovato una delle sue massime espressioni nella musica e nelle parole di opere e canzoni popolari risorgimentali.
Ho accolto volentieri l'invito rivoltomi dall'Accademia della Crusca e da Maggio Formazione a presentare il concerto di stasera.
Con i giovani cantori che ascolterete tra poco mi sono intrattenuto nel corso di una loro prova.
Più che delle gloriose pagine operistiche ho parlato loro delle canzoni popolari scaturite dal fervore risorgimentale; mi premeva farli partecipi del significato di quelle facili melodie: nuove per loro, e invece antiche e notissime a chi solo abbia cominciato ad avere i capelli bianchi; cioè fino a poco più di una generazione addietro.
Musica e parole familiari, di casa: come il pane. Semplici, eppure, in qualche misura, "sacre" (una volta, quando capitava che un pezzo di pane cadesse per terra, lo si raccoglieva e lo si baciava).
Il programma di stasera allinea pagine d'autore e pagine anonime; ma tutte investite di una medesima luce. Non ha senso una qualsiasi distinzione "critica". Sono parole troppo profondamente vissute, tutte: parole in lingua e anche in dialetto.
"Chi per la Patria muor vissuto è assai". Il fatidico endecasillabo che si tramanda intonato da Attilio e Emilio Bandiera di fronte al plotone di esecuzione borbonico, nel Vallone di Rovito, nelle Calabrie - il 25 luglio 1844 - nasce da un coro d'opera.
L'opera è Donna Caritea regina di Spagna di Saverio Mercadante, tratta da un dramma di Giovanni Pindemonte, fratello di Ippolito, il dedicatario dei Sepolcri. Il melodramma di Mercadante, da Venezia (la città natale degli eroici fratelli) da tempo trionfava per tutta Italia, soprattutto in grazia di quel coro.
Pro Patria mori. Amore di vita, di lotta, e amore di donna, in tutti questi canti. Ma diffusa, dominante - nei loro versi - è pure l'idea della morte.
Il giovane Werther si era ucciso per amore; ma già Jacopo Ortis era stato suicida insieme amoroso e "patriottico". La frequentazione dell'idea della morte - nei giovani delle generazioni successive, in Italia: e non solo in Italia - si era alimentata di un senso, di uno scopo ulteriore, di una funzione, di una necessità storiche.
In vero, la distanza - ideologica, morale, civile, sociale - che da quell'assioma - "Chi per la Patria muor vissuto è assai" - segna le attuali celebrazioni della proclamazione dell'unità d'Italia, ancor più evidentemente che dai centocinquant'anni intercorsi, la si misura alla luce - o all'ombra? - di un altro assioma: quello brechtiano, che da tempo è penetrato nelle nostre coscienze, e che suona così: "Felice quel popolo che non ha bisogno di eroi".
Ma di eroi mai se ne ebbe tanto bisogno, come allora.
"Italianità": la parola è forse consunta; non lo è il valore che essa esprime, nonostante gli attentati cui lo vediamo sottoposto. Ed è valore che vive di una profondità storica di gran lunga superiore a questi nostri centocinquant'anni, al punto di farli apparire addirittura esigui.
È proprio la musica - più esattamente: la nostra "opera in musica" - che ci guida a ritroso, quanto meno raddoppiando lo spazio temporale di questo secolo e mezzo.
"Opera italiana" e "teatro all'italiana" sono locuzioni che ci riportano in dietro, al di là della soglia del XVIII secolo, originandosi non da una convenzione lessicale, ma dalla più forte concretezza di tutta una situazione culturale e sociale: dalle Alpi alla Sicilia; con una penetrazione progressivamente interclassista, che non ha paragone - ci sembra - in nessun altro ordine di valori, entro la storia della nostra civiltà.
Palazzi e - via via - città, cittadine, e paesini, per tutta la Penisola, si dotano di "teatri all'italiana": teatri pubblici; "Teatri Sociali", ovvero "Teatri Massimi" - e teatri minimi, piccolissimi - si aprono per ospitare l'opera italiana, secondo moduli architettonici e scenotecnici perfettamente omogenei. Sono spazi assolutamente interni, all'inizio, preziosi - inimmaginabili al passeggero e sorprendenti agli occhi del viaggiatore straniero: i "lucidi teatri": Quindi, strutture monumentali, nelle nostre città (con macroscopici riverberi oltralpe); veri e propri templi, con tanto di colonne e frontoni (e magari di cupole): grandi facciate, alle quali, non di rado, si conformeranno le facciate di altri templi, consacrati ad altri "idola tribus": le banche.
Sono luoghi in cui si canta un italiano letterario: limpido nel Metastasio, ma per lo più specioso; tuttavia universalmente accettato - nel fluire dell'onda melodica - e quindi familiare; spesso non compreso fino in fondo (nemmeno dai cantanti); eppure, alla fine, popolarissimo.
Le efflorescenze dialettali - gioiose e gloriose quelle napoletane - convalidavano un diritto ulteriore di identità locale, ma tutto contenuto dentro la convenzione linguistica nazionale. Com'era bene che fosse (come sarebbe bene che sia). Le zite 'n galera di Leonardo Vinci, ma accanto a una delle infinite Semiramidi; Lu frate 'nnamurato, con Pergolesi (un capolavoro), accanto all'Adriano in Siria.
Tanto per dire alcuni titoli.
"Pensa alla Patria!": il ventunenne Rossini, ambendo a presentarsi spirito libero nella libertaria Venezia, incastra l'appello patriottico nel vivo di un'opera buffa, la sua più buffa: entro la farsa luminosa dell'Italiana in Algeri.
Pensa alla Patria, e intrepido
Il tuo dovere adempi:
Vedi per tutta Italia
Rinascere gli esempi
D'ardire e di valor.
Così canta Isabella. Siamo nel 1813. Sedici anni più tardi, l'estremo Rossini, a Parigi, nel glorioso cimento di un aggiornamento culturale, "romantico" - europeo - partendo da Schiller, affronta l'epos di Guglielmo Tell: attorno all'eroe nazionale svizzero, entro paesaggi selvosi, lacustri e montani, egli dà voce a grandi cori di complotti notturni. Guerra e pace: come tra gli elementi (pastorali bonacce e tempeste), così tra gli uomini.
A quante pagine "carbonare" e a quante esplosioni guerriere non dà spazio il grande melodramma italiano dell'Ottocento.
L'han giurato; altri forti a quel grido
Rispondean da fraterne contrade
Affilando nell'ombra le spade
Che or levate risplendono al sol.
Il mite Bellini immerge l'alta tragedia di Norma entro la coralità di un popolo assoggettato in trepida attesa del proprio riscatto:
Attendiam [...]
E in silenzio il cor si appresti
La grand'opra a consumar.
Quindi:
Guerra, guerra! Le galliche selve
Quante han querce producan guerrier.
I travestimenti epocali sono trasparentissimi: le popolazioni degli elvetici Cantoni - nel Tell - e le tribù galliche - in Norma - parlano il comune linguaggio di un'Italia già risorgimentale.
Il basso e il baritono dei Puritani duettano sulle parole del Conte Carlo Pepoli (l'amico di Giacomo Leopardi):
Suoni la tromba, e intrepido
Io pugnerò da forte.
Bello è affrontar la morte
Gridando: Libertà!
Con le stesse parole (ma all'indicativo: "Suona la tromba") inizia un inno che Goffredo Mameli scrisse addirittura per Verdi. Inutile dire che avranno incommensurabilmente più fortuna i suoi "Fratelli d'Italia", per la musica di Michele Novaro.
Anonimi (o pressoché anonimi) fioriscono, spontanei e rigogliosi, gli innumerevoli canti che da regionali diventano subito "nazionali" (quando ancora di Nazione Italiana non era dato parlare).
"La bella Gigogin": si è letto dell'esplosione di fanatismo, quando, la notte del San Silvestro 1858, fu intonata per la prima vola questa canzone in un teatro di Milano: si contarono una ventina di bis e il maestro Rossano fu poi portato in trionfo fin sotto le finestre del governatore austriaco. Ed è ora, con "La bella Gigogin", che risuona il Rataplan: quattro anni prima che Giuseppe Verdi l'assuma - in grande - per un finale d'atto della Forza del Destino: si dice il finale del variegatissimo atto dell'accampamento militare.
Ebbe dunque tutte le ragioni il grande regista Georg Wilhelm Pabst a spostare nell'Ottocento la vicenda dell'opera, in occasione di una storica rappresentazione di un remoto Maggio Musicale Fiorentino (analogamente, la stessa trasposizione temporale toccherà ad altri melodrammi "storici" verdiani).
In Toscana nacque il tenero "Addio, mia bella, addio", che Richard Wagner avrà l'amabilità di definire "la più bella canzone patriottica". Così, gli studenti quarantotteschi intonarono "Quanta schiera di gagliardi". E poi: "La bandiera di tre colori"; e - manzonianamente - "Delle spade il fiero lampo". E l'Inno di Garibaldi.
Alto, su questa fioritura, Giuseppe Verdi.
Viva Verdi: è l'acrostico che tutti sappiamo. Verdi: la voce più profonda dell'Italia ottocentesca: e non solo per le sue scene patriottiche e per i suoi epici Cori.
"Noi credevamo"; l'amaro film che Mario Martone ha realizzato a celebrazione dei 150 anni dell'unità d'Italia, proprio in questi giorni, ci offre una riprova sintomatica. La sua colonna sonora esclude qualsiasi Coro, ma è tutta intessuta di musiche melodrammatiche; soprattutto verdiane, naturalmente.
Ci sentiamo accompagnati fino all'attacco di Filippo II (Ella giammai m'amò), ovvero di Otello (Dio, mi potevi scagliar tutti i mali). Ma la citazione si arresta; mancano le parole. È al di là delle specifiche situazioni umane, individuali, che la dimensione tragica dell'epopea popolare trova, in quei lacerti orchestrali, la risonanza più congrua.
Si sa che, al tempo, per le sue scene patriottiche e per i suoi Cori immediatamente famosi si accusava Verdi di cavalcare una moda dilagante. Ma con quanta intelligenza Abramo Basevi annotava come tali accuse nascessero soprattutto dall'invidia dei colleghi, che pure si impegnavano a cavalcare la medesima moda, ma senza raggiungere i successi del Nabucco, dei Lombardi alla prima Crociata, dell'Ernani (l'Ernani: con i congiurati che si raccolgono, di notte, nei "sotterranei sepolcrali" di Aquisgrana, davanti alla tomba di Carlo Magno, auspicando: "Si ridesti il Leon di Castiglia": grande scena che, quanto a dimensione patriottica, sopravanza di molto l'originario dramma di Victor Hugo). E pensiamo anche ai successi degli altri melodrammi; i quali - "storici" tutti, per definizione - presentavano personaggi e vicende di secoli e luoghi remoti, ma aprendosi nella vibrazione della più accesa italianissima attualità.
Abramo Basevi, livornese di nascita e fiorentino di adozione, fu la coscienza più alta della Firenze musicale ottocentesca: fu l'autore della prima monografia dedicata a Verdi (1959: si attesta all'Aroldo). Entrò di certo nella commissione a Verdi del Macbeth da parte del teatro della Pergola. Siamo nel 1847 e quella che doveva essere (e fu) la singolare virata dal genere "storico" al genere romanticamente "fantastico" (il Macbeth, opera di streghe e di visioni soprannaturali) non rinunciò a un incastro patriottico (con un aggancio quasi pretestuoso al testo shakespeariano): "Patria oppressa!" è un mesto coro di esuli; esuli come gli ebrei deportati a Babilonia da Nabuccodonosor.
Indugiamo sulla cronaca di questo 1847, al nostro teatro della Pergola (abbastanza ignaro, del resto, di aver vissuto, con la prima del Macbeth verdiano, l'evento più alto della propria storia, bella e secolare). Dunque: gli Annali ci dicono che in quel settembre, nel teatro che era allora il Teatro Massimo della città, si festeggiò la concessione della Guardia civica, con un programma di inni anche appositamente composti. La temperatura era alle stelle. In sala c'era il tenore Napoleone Moriani, fiorentino, celeberrimo (è passato alla storia come "il tenore delle belle morti": fra le quali, certo, è da includere più di una morte "verdiana"). Prelevato da mezzo il pubblico, portato sul palcoscenico, il Moriani si unì al coro cantando per l'appunto il finale del terzo atto dell'Ernani: è il finale che fa seguito alla scena della congiura, in un trionfale ribaltamento di situazioni, per cui al nome di Carlo Magno si associa quello di Carlo V, appena eletto Imperatore, e presente in scena nella persona del baritono. Bene: alla parole "A Carlo Quinto sia gloria e onor!" si sostituirono quest'altre: "A Carlo Alberto sia gloria e onor!" e - al ritornello - "A Pio Nono sia gloria e onor!".
Ogni travestimento era caduto.
Né ci si è scostati da Verdi, come si vede.
Dalle Alpi alla Sicilia, si è detto. Il suo melodramma spazia dalla pianura di Aquileja (nell'Attila), e da Milano e dalle campagne lombarde, nella Battaglia di Legnano, fino alla Sicilia dei Vespri: "O tu Palermo, terra adorata" canta Giovanni da Procida, che, reduce dall'esilio, approda sul suolo natio e lo bacia.
Arrigo, "guerriero veronese", unitosi ai prodi del "giuramento di Pontida", è colui che uccide il Barbarossa nella Battaglia di Legnano che dà il titolo all'opera; viene ferito a morte. Lo vedremo spirare (il pensiero va al tenore Moriani) baciando il lembo del gonfalone del Carroccio.
E già i primi spettatori del Teatro Argentina (anno 1849!), nei giorni brucianti della Repubblica romana, videro in quel gonfalone, commossi, il tricolore.
Christian Ferrari
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