Sulla scia della polemica sollevata dalla battuta del comico tedesco Harald Franz Schmitd, Claudio Marazzini propone una riflessione sul ruolo della Chiesa nella diffusione dell'italiano nel mondo.
Maggio 2013
Claudio Marazzini (Università del Piemonte Orientale, Accademia della Crusca)
È viva in questi giorni la discussione su di una battuta del comico tedesco Harald Franz Schmidt, accusato di aver offeso gli italiani e la nostra lingua: ha affermato che papa Benedetto usava sessanta lingue, ma papa Francesco usa l’italiano perché è la lingua dei poveri. Ovviamente le prese di posizione contrarie sono state molte, e risentite. Posso rinviare, a questo proposito, per verificare le reazioni a caldo, a un giro di interviste comparse in un giornale on line:
Tuttavia, poiché non è bene far polemiche senza avere chiara la loro origine, consiglierei a tutti di andare a vedere il filmato del comico Harald Franz Schmitd, con la battura che poi ha fatto il giro dei giornali italiani, quella in cui l’italiano è bollato come “lingua dei poveri”:
In realtà a me pare che la battuta di Schmidt non fosse rivolta contro l’italiano. Vedrei in essa il sostegno al papa tedesco dimissionario, considerato più colto rispetto al nuovo papa Francesco. Sento nella battuta una sorta di amarezza e di malcelata nostalgia. È vero comunque che papa Francesco ha subito mostrato di usare bene e con efficacia l’italiano, che è lingua sorella del suo spagnolo nativo. Comune l’origine romanza, vera fraternità. Dunque lingue germaniche contro lingue romanze? Non credo che la cosa stia in questi termini. Anche papa Ratzinger, pur essendo tedesco, parlava assai bene l’italiano. Il suo lessico era raffinato. La pronuncia, certo, aveva certe caratteristiche tipiche, per cui a molti quella lingua italiana in bocca germanica avrà dato forse un po’ di fastidio. Per contro, io ne ero ammirato: mi riempiva di gioia vedere che un papa senza l’italiano per ora non esisteva. La funzione internazionale di Roma ecumenica mi riempiva e mi riempie tuttora d’orgoglio. Tuttavia, anziché rinfocolare la polemica o semplificare il confronto tra lingue, mi pare che possa essere utile affrontare ora il problema con metodo storico, adatto alla Crusca in quanto istituzione di alta cultura, e dunque verificare quali siano stati nel corso dei secoli i rapporti tra la Chiesa e la lingua italiana.
Per far ciò, utilizzerò un mio intervento che uscì anni fa sul mensile “Letture” (n.618, giugno-luglio 2005), il cui titolo era già un programma: E il Vaticano approfittò dell’italiano. È curioso riesumarlo ora, dopo l’elezione del nuovo papa, perché quell’intervento fu scritto proprio dopo l’elezione di papa Benedetto XVI.
Il mio articolo del 2005 iniziava ricordando che a Parigi, durante una cena offerta dai funzionari dell’Istituto italiano di Cultura, mentre era in corso la “Settimana della lingua italiana” (la nota iniziativa promossa dal Ministero degli Esteri in cui è coinvolta l’Accademia della Crusca), uno dei commensali, il dott. Ernesto Bertolaja, direttore dell’“Unione Latina”, attirò l’attenzione sul fatto che, tra le cause per le quali la lingua italiana godeva di una forte promozione a livello internazionale, non andava trascurata la funzione della Chiesa di Roma. L’argomentazione mi colpì, perché non era di quelle che vengano a mente subito. Anzi, si potrebbe pensare ingenuamente il contrario. Per secoli la Curia romana fu infatti roccaforte del latino. Spesso i provvedimenti presi dal Vaticano, dopo il Concilio di Trento, sembrarono quasi d’ostacolo alla diffusione del volgare: basti pensare al divieto di possedere Bibbie nella lingua comune e alla conseguente mancanza di traduzioni dalla fine del sec. XVI fino alla Bibbia del Martini, mentre nei paesi protestanti circolava la Bibbia del Diodati. Tra i capi d’accusa rivolti dall’Inquisizione al mugnaio Menocchio, durante il processo studiato in maniera esemplare dallo storico Carlo Ginzburg in un libro famoso intitolato Il formaggio e i vermi, c’era appunto il possesso di una copia a stampa del testo sacro in lingua volgare, possesso pericoloso e compromettente.
Negli ultimi anni, riesaminando la politica linguistica della Chiesa, si è potuto vedere meglio come il campo dottrinale e l’accesso alle fonti fossero settori saldamente riservati al latino, ma fin dal Cinquecento la Chiesa stessa prestasse molta attenzione alla comunicazione con i fedeli: il momento della predicazione fu ovviamente quello per il quale ci si pose seriamente il problema dell’uso del volgare, e così si affrontò la questione della ‘miglior’ lingua, la quale non doveva essere un impasto di toscano e di dialetto, perché il dialetto era ritenuto troppo basso per la sacralità della religione. Tuttavia questa lingua non doveva essere nemmeno troppo toscana, troppo letterata, troppo arcaicizzante. La lingua dell’omelia doveva risultare insomma adeguata alla norma della grammatica di Pietro Bembo, quella stessa che si adottava per la lingua letteraria, ma senza perdersi in ricercatezze eccessive, cioè privilegiando la facilità della limpida comunicazione, ma con eleganza.
La Chiesa, dunque, si pose il problema della lingua in una prospettiva ecumenica: il latino era l’idioma sovranazionale, dei riti e della riflessione teologica, i volgari erano lo strumento della comunicazione con la gente. Qualcuno, in età illuministica, poté persino accusare la Chiesa di aver provocato un ritardo nell’uso dell’italiano: Carlo Denina, nel Settecento, sostenne che a Roma avrebbe dovuto “fissar la sede la repubblica letteraria, e in essa fissarsi e regolarsi la lingua”, ma ciò non accadde, perché la maggior parte “de’ libri, che si stampavano, o si scrivevano in Roma, erano allora latini”. Ovviamente la colpa era della Chiesa e della sua politica linguistica conservatrice, secondo Denina.
Come mettere d’accordo la tesi dell’illuminista Denina e l’argomentazione conviviale del dott. Ernesto Bertolaja? Certo, in passato le cose sono andate secondo la dialettica individuata dallo storico settecentesco. Però oggi la situazione è ben diversa. La Chiesa non usa solo l’italiano, come è evidente. Il latino ha ancora notevole spazio e un’alta funzione simbolica e rituale. La morte del grande papa polacco e l’elezione del nuovo papa tedesco, nel 2005, ci riabituò all’uso pubblico del latino. La lingua della Chiesa non è certo l’inglese. La Chiesa prende giustamente le distanze dalla lingua del potere finanziario e politico internazionale, e preferisce caratterizzarsi per una scelta in grado di segnare la differenza. Il latino è la lingua della tradizione antica, non è una lingua di potenti moderni. Fu una lingua coloniale, ma oggi è solo ecumenica. L’“extra omnes” alla chiusura delle porte della Sistina, all’inizio del Conclave (per non citare che una battuta), ha lasciato persino sbalorditi gli studenti del liceo, i quali (a quanto testimonia mia moglie, che è insegnante), mostrano maggior partecipazione nelle ore di latino. Subito dopo il latino, però, la Chiesa apprezza l’italiano. L’italiano non è la lingua di uno stato politicamente ingombrante, troppo potente, caratterizzato da teorie economiche universalistiche che lasciano poco posto allo spirito. L’italiano è una lingua di cultura antica, dovunque apprezzata, ma poco ingombrante, dal punto di vista del moderno potere economico. Non è certo la lingua della finanza internazionale, del capitalismo rampante e di Wall Street. In questo senso, è davvero la lingua dei poveri, per tornare alla battuta di Harald Schmidt. Ma la Chiesa ha appunto il dovere di amare i poveri e di coltivare la spiritualità. I papi che sono arrivati a Roma da lontano parlavano bene italiano. Parlano italiano (lo dimostrano nelle interviste televisive) anche i prelati di alto grado di altre nazioni e di altri continenti, i portavoce della Santa Sede, i religiosi convenuti a Roma, e persino molti pellegrini, i quali si sforzano con successo di dire qualche cosa nella nostra lingua, di fronte alle nostre telecamere. Ora arrivano pellegrini che parlano spagnolo, e così finalmente la gente comune capirà che per dialogare con gli spagnoli non occorre necessariamente passare all’inglese, come vedo fare a volte da turisti durante le vacanze al mare in terra di Spagna e sulle isole Baleari. L’eredità latina ci accomuna. Quando, parlando spagnolo, dico “mira”, un italiano colto può ben capire, se ha letto un po’ di Dante e Petrarca, dove “mira” vuol appunto dire “guarda”. Se non li ha mai letti, peggio per lui: dovrà risalire all’etimologia attraverso il linguaggio delle armi, dove “prendere la mira” significa appunto guardare attentamente per allineare il fucile al bersaglio.
I papi cambiano, ma continuano a parlare italiano. Tutto il mondo, nelle grandi occasioni della Chiesa, pensa all’Italia e guarda a Roma, dove si svolgono eventi di portata mondiale, dove la sede di Pietro giganteggia persino nell’architettura monumentale simbolica della piazza, la quale sembra abbracciare e unire la folla di uomini comuni e di uomini potenti. Roma, in quei momenti, non è più la piccola sede di una politica locale di una nazione tra le tante: la posizione dell’italiano, agli occhi del mondo, diventa ben maggiore grazie alla Chiesa di Roma, alla sua capacità di attirare nella città eterna le masse, costringendole indirettamente a vedere e toccare l’Italia e la sua lingua. E resta il fatto che molto spesso la Chiesa, per bocca dei suoi papi non italiani di nascita, ma italiani di adozione, parla italiano, appena si interrompe il latino. Per una volta (l’unica), l’inglese non appare agli occhi di tutti la sola possibilità di comunicazione globale. Per questo siamo fieri che Francesco, il papa che pensa ai poveri, abbia adottato (come già fecero papa Ratzinger e papa Wojtyła) questa ricchissima lingua, il nostro italiano.
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