La lingua italiana e l'economia

Alfredo Gigliobianco propone una riflessione intorno al linguaggio specialistico dell'economia e della finanza: siamo in grado di comprenderlo e di padroneggiarne l'uso? I vocabolari sono strumenti adeguati a catturarne la ricchezza semantica?

Dicembre 2013

 

Alfredo Gigliobianco

Si può vivere decentemente nel mondo contemporaneo essendo analfabeti economici? No, non si può. Era ancora possibile quarant’anni fa, quando l’economia era un fiume largo e pigro, che non richiedeva grandi abilità di navigazione. Ma oggi l’economia è diventata un fiume impetuoso e pieno di insidie: per navigarlo occorrono conoscenze e capacità di decidere. Se vogliamo che le conoscenze necessarie a sopravvivere in questo mondo cambiato si diffondano, occorre – fra l’altro – una lingua adatta allo scopo. Questa nostra lingua, quando trasmette concetti economici, è uno strumento efficace? E noi la possediamo a sufficienza?

 

Un problema centrale, sul quale voglio concentrarmi qui, è quello delle parole “comuni” (come produttività, efficienza, rischio), che hanno anche, in economia, un significato tecnico preciso. Siamo in grado di distinguere l’accezione tecnica da quella comune, oppure il significato tecnico viene “annegato” nel significato comune, col bel risultato di perdere completamente il senso dei ragionamenti economici? È una domanda che si potrebbe anche formulare così: la società recepisce il contributo culturale che gli economisti danno allo studio dei problemi sociali?

 

È interessante esaminare le definizioni che di queste parole danno i maggiori dizionari italiani. Non perché creda che le persone utilizzino i dizionari come fonte primaria di informazione su questi argomenti, ma perché queste definizioni sono indizio dell’attenzione che l’intellighenzia non tecnica del nostro Paese – qui rappresentata dagli autori dei dizionari – impiega nell’atto di comprendere alcuni termini chiave dell’economia.

 

Veniamo al dunque. Il concetto base di produttività è semplice: è il rapporto fra la produzione totale (per esempio il numero di automobili) e la quantità di un fattore produttivo utilizzato (per esempio le ore di lavoro). Se aumenta la produzione a parità di fattore utilizzato, o se diminuisce l’utilizzo del fattore a parità di produzione, la produttività di quel fattore aumenta. I dizionari colgono in genere bene questo significato di base. La materia diventa assai più difficile quando, invece di un solo fattore della produzione, li vogliamo considerare tutti. Allora nasce il problema di come calcolare una sola grandezza complessiva – l’input – a partire da una molteplicità di fattori diversi (lavoro, macchine, beni intermedi…). Gli economisti hanno sviluppato il concetto di produttività totale dei fattori, che è il rapporto fra il prodotto, da una parte, e il risultato di una formula matematica che mette insieme i vari fattori di produzione, dall’altra. Questo rapporto dà l’idea di quanto è progredito il modo di fabbricare un certo prodotto. La produttività totale dei fattori è utilizzata come approssimazione del progresso tecnologico. Concetto importante nell’economia moderna, che è dominata dal cambiamento tecnologico. I dizionari non si cimentano con la produttività totale, tranne uno, assai quotato, che sbaglia clamorosamente, supponendo che “totale” si riferisca non ai fattori che vanno considerati nel calcolo, ma alla produzione stessa.

 

Purtroppo la maggioranza dei nostri dizionari non mette bene a fuoco il concetto di efficienza, un altro cardine del ragionamento economico. Alcuni la confondono con la produttività, altri con l’efficacia. Un fatto mi pare interessante: i dizionari che sbagliano sull’efficienza economica non sbagliano invece sull’efficienza aerodinamica, che viene sempre definita correttamente come rapporto fra la portanza e la resistenza di un corpo in movimento rispetto a un fluido. Ma allora gli economisti veramente non sanno spiegarsi! Oppure sono i lessicografi che – tratti in inganno da una certa affinità dei concetti dell’economia con quelli dell’esperienza comune – non si curano di approfondire?

 

Passiamo ora alla finanza. Da cinque anni ormai, dall’inizio della crisi, in tutto il mondo non si parla che di finanza. Testi e discorsi sull’essenza della finanza, sui suoi delitti, sul suo posto nella società si intrecciano, e lasciano spesso le menti in confusione (è uscito quest’anno un agile libro chiarificatore di Salvatore Rossi, Processo alla finanza, Roma-Bari). Occorre, per farsi una propria opinione, conoscere bene l’identità dell’imputato: questa tanto deprecata finanza, Chi è? Che attività svolge? Che fine ha?

 

Chi, desideroso di una risposta, si affidasse allo strumento tradizionale del vocabolario, rimarrebbe smarrito. Tutti i nostri vocabolari infatti, senza eccezione, alla voce finanza non riportano alcuna connotazione che faccia pensare a possibili eccessi, a operatori che agiscono secondo logiche distinte da quelle dell’economia reale. Di più: non danno alcun indizio per capire la distinzione stessa fra economia reale ed economia finanziaria, che tanto occupa i giornali e i cittadini.

 

Uno dei pilastri della finanza è il rischio. Ora, di rischio si può dare una definizione semplice – probabilità di un evento non desiderato, come potrebbe essere il fallimento di un debitore – oppure più professionale – varianza del rendimento atteso di un titolo finanziario; in altre parole, se il rendimento è quasi sicuro c’è poco rischio, se invece può assumere un ampio ventaglio di valori (sia positivi che negativi) c’è molto rischio. Nessuna di queste definizioni è data dalla maggior parte dei dizionari, che si limitano ad evocare la possibilità – e non la probabilità – di un evento sfavorevole. In sintesi, dai lessicografi il rischio è visto, e in modo molto approssimativo, solo nella sua dimensione assicurativa (danno/prevenzione), e non in quella finanziaria. Indizio ulteriore che ciò che attiene alla finanza soffre – anche più di ciò che attiene all’economia reale – di disinteresse e imprecisione da parte di ampi strati della società.

 

Gli economisti non sono senza colpa. Tullio De Mauro ha trovato che, fra gli scienziati di varie discipline, gli economisti sono quelli che si fanno meno capire: l’“indice di leggibilità” dei testi divulgativi degli economisti è inferiore a quello dei testi divulgativi di ogni altra disciplina (Nota linguistica aggiuntiva, in Scrittori italiani di economia, a cura di R. Bocciarelli & P. Ciocca, Roma-Bari 1994, pp. 407-423). Non è facile capire perché. Forse gli economisti – al contrario dei fisici e dei biologi – non sono ancora pienamente consapevoli del fatto che il proprio linguaggio si è compiutamente tecnicizzato, e perciò stentano ad accettare l’idea che farsi capire dal pubblico richieda una vera e propria divulgazione scientifica. Pensano di essere, o forse vorrebbero essere ancora, al tempo in cui Verri, Turgot e Smith dialogavano con i politici, i medici e i mercanti del proprio tempo in una lingua comune. Questo è paradossale, perché sono proprio loro che hanno creato un linguaggio e un modo di ragionare specializzato, per riuscire a progredire più velocemente. Ma è comprensibile, perché la natura politica della loro scienza li trae in inganno, facendogli ritenere che il dialogo con il pubblico non si sia mai interrotto dai tempi felici dell’illuminismo. 

 

Per approfondire segnaliamo:

Alfredo Gigliobianco, La lingua italiana e l'economia - versione ampliata del Tema, pubblicata nella sezione L'Articolo;

Antonio Patuelli, Investire in parole chiare - articolo originariamente comparso sul "Sole 24 ore" del 22 settembre 2013 e adesso pubblicato nella sezione L'Articolo.

 

Alfredo Gigliobianco, storico ed economista, è capo della Divisione Storia economica del Servizio Studi della Banca d’Italia. I suoi principali campi d’interesse sono l’intervento pubblico nell’economia, la formazione delle classi dirigenti, l’evoluzione dei sistemi finanziari. Fra i suoi scritti ricordiamo Via Nazionale. Banca d’Italia e classe dirigente. Cento anni di storia (Donzelli, 2006) e Abolire il capitalismo. Economia politica e lessicografia (in L’economia e la politica, a cura di G. Dosi e M. C. Marcuzzo, Il Mulino, 2007). Ha curato volumi e scritto articoli su figure chiave dell’economia e della politica italiana, come Luigi Einaudi, Beniamino Andreatta, Paolo Baffi. È inoltre autore di dialoghi teatrali che s’innestano sui temi dello sviluppo economico e finanziario del dopoguerra.

 

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14 marzo 2014 - 00:00

Intervento conclusivo di Alfredo Gigliobianco

Mi pare che tutti siamo d’accordo sulla necessità di uno sforzo comune. Gli economisti – voglio partire dai miei colleghi – devono migliorare se stessi in quanto divulgatori (per quanto riguarda i lavori scientifici, invece, non mi pare il caso di prospettare imprese impossibili); i giornalisti dovrebbero sforzarsi di chiarire il senso dei concetti al pubblico generale, invece di accostarsi al gergo degli economisti per mostrare a se stessi a ai propri colleghi di essere aggiornati; i lessicografi dovrebbero essere più attenti al significato economico delle parole “comuni”. Ai lettori che affermano di non capire la mia critica ai dizionari, o di non volere che i dizionari d’italiano si trasformino in dizionari specializzati di economia, replico che i dizionari devono semplicemente svolgere la propria funzione. Il caso della parola “rischio” mi pare sufficientemente chiaro: il rischio finanziario è diverso dal rischio assicurativo, e se il lessicografo tratta solo il rischio assicurativo non fa un buon servizio a tutti coloro che sono, o pensano di diventare, compratori di titoli, siano essi più o meno sofisticati. Vale, direi, il principio di proporzionalità: se definisco esattamente l’efficienza aerodinamica, devo usare la stessa diligenza nel definire l’efficienza economica.
Io non noto, come fa Paola Ricca Mariani, un abuso di metafore da parte degli economisti. Magari possiamo continuare privatamente la conversazione su questo punto. Grazie a tutti voi per l’interesse che avete mostrato.

Alfredo Gigliobianco Capo della Divisione Storia economica Servizio Studi della Banca d'Italia

Rispondi

Tiziana
10 febbraio 2014 - 00:00
A essere sincera non riesco a capire la differenza sostanziale che intercorre tra l'accezione comune e non tecnica di queste parole e quella specialistica da lei riportata. Sono chiaramente concetti più elaborati, ma il nucleo di significato mi sembra più o meno lo stesso. Sarebbe più utile, a mio parere, cercare di capire concetti veramente non appartenenti al linguaggio e al pensiero comune, come il linkato spread.

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Ester
10 febbraio 2014 - 00:00
Grazie al professore per aver affermato che gli economisti non sono senza pena. Viene in mente il "latinorum" di Don Abbondio: quando si usa un codice linguistico non accessibile per non farsi comprendere. A volte, almeno certi giornalisti, danno proprio l'impressione di utilizzare termini dell'economia per non far comprendere la reale sostanza delle cose di cui parlano. Quindi, a mio avviso, sarebbe proprio auspicabile che i dizionari comuni fossero più precisi nella descrizione dei termini con più significati specialistici. Almeno per poter comprendere meglio anche le notizie dei quotidiani!

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Anonimo
10 febbraio 2014 - 00:00
la questione è complessa: la finanza ha bisogno di un linguaggio altamente specialistico, i cittadini hanno diritto di capire cosa si muove sopra le loro teste, anche senza doversi doversi procurare un dizionario specialistico. come in altri casi entrano in gioco i "mediatori di saperi" per eccellenza ovvero i giornalisti, sempre pronti ad adottare il tecnicismo del momento. e questo per quel che riguarda i tecnicismi "alieni". è vero che il rischio maggiore si nasconde nei termini più familiari e qui lo sforzo deve essere comune: di chi di finanza si occupa, di chi ne scrive, dei compilatori di dizionari, specie di quelli di alto uso e anche del cittadino, visto che si tratta del suo interesse, in tutti i sensi.

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PAOLA RICCA MARIANI
08 febbraio 2014 - 00:00
Gentile professore, oltre a concordare con quanto lei dice, aggiungerei la pessima abitudine (ormai talmente consolidata che non penso vi si possa più trovare rimedio) di non tradurre dall'inglese termini che si riferiscono a concetti specifici, alcuni dei quali hanno un equivalente italiano assolutamente biunivoco. Una cosa che, invece, mi ha sempre colpito, che gli economisti sembrano non riuscire a fare a meno di esplicitare concetti senza fare ricorso a metafore, anche dove, forse, non ce ne sarebbe bisogno. Ho anche la sensazione che l'uso di tale metafore prenda il sopravvento, e induca a farne deduzioni più legate al termine che al concetto sottostante. Lei che ne pensa?

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Matteo
28 gennaio 2014 - 00:00
Gentile prof. Gigliobianco, innanzitutto complimenti per l'inchiesta lanciata, che ha suscitato un grande interesse da parte mia. Da economista non posso che essere d'accordo sul fatto che "Gli economisti non sono senza colpa.". Non solo durante il percorso accademico ma particolarmente durante il mio percorso professionale ho avuto modo di osservare che le definizioni dei concetti (anche più basici) legati al mondo economico-finanziario sono criptiche, e non mi spiego davvero il motivo di questa scelta linguistica quando essi rappresentano temi attualissimi e di comune interesse. Visto che l'ha citato, verrei alla definizione di rischio: "varianza del rendimento atteso di un titolo finanziario". Sono assolutamente d'accordo sul fatto che questa definizione sia completissima per chi conosce un po' di statistica e ha una vaga idea di quello che sia il rendimento di uno strumento finanziario. Tuttavia, pur non essendo un linguista, mi permetto di osservare che una definizione come "possibilità che le cose non vadano come previsto" darebbe molta più chiarezza e non allontanerebbe del tutto il lettore medio da quella che è effettivamente la definizione di "rischio finanziario". Mi trova molto d'accordo sul fatto che dovremmo iniziare ad adeguarci tutti (non solo gli economisti) ad una concezione prettamente economica di alcuni termini, così come sul fatto che gli studiosi dovrebbero tendere a "complicare" un po' meno i propri concetti (o quantomeno tenersi le definizioni primordiali sui libri e diffondere quelle più semplici). Tuttavia, come puntualizzava Paolo Michetti, non credo che sia una buona idea trasformare i dizionari generici in manuali di finanza; seppur importante, come succede per tutte le altre discipline è più semplice (e non scorretto, secondo me) pensare ad una definizione "ampia" dei termini più comuni evitando però di entrare troppo nello specifico: chi vuole approfondire lo farà comunque, ma almeno così si evita che il lettore non specializzato si arrenda ancor prima di aver assimilato il concetto chiave.

Rispondi

Paolo Michetti
20 gennaio 2014 - 00:00
Grazie al professor Gigliobianco per l'intervento. Tuttavia non mi è chiaro perché i dizionari non specialistici dovrebbero contenere le accezioni tecniche di parole che fanno principalmente parte dell'uso comune, come quelle che il professore cita. Immagino che per molte altre discipline il problema sia il medesimo, e che in quei casi si ricorra a strumenti specifici (dizionari specialisti, enciclopedie, manuali).

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