La lingua italiana in una prospettiva di genere

di Claudio Marazzini

Con qualche minimo rimaneggiamento, pubblichiamo qui l'intervento del presidente Claudio Marazzini, che ha portato il saluto dell'Accademia della Crusca in apertura del webinar La lingua italiana in una prospettiva di genere, organizzato dall'Università di Firenze il 1° marzo 2022.

Con qualche minimo rimaneggiamento, pubblichiamo qui l'intervento del presidente Claudio Marazzini, che ha portato il saluto dell'Accademia della Crusca in apertura del webinar La lingua italiana in una prospettiva di genere, organizzato dall'Università di Firenze il 1° marzo 2022.


Marzo 2022

L'Accademia della Crusca è sempre stata attenta alle questioni di genere nel linguaggio, fin dai tempi delle Presidenze di Francesco Sabatini e Nicoletta Maraschio. Mi limiterò qui a citare solo eventi avvenuti durante la mia Presidenza. Nel 2016, nella serie di libretti pubblicati dalla Crusca in collaborazione con il quotidiano "la Repubblica", fu inclusa una trattazione sul linguaggio di genere intitolata Sindaco e sindaca, a cura di Cecilia Robustelli. Nel 2017 fu allestita una seconda tiratura del libretto, sostanzialmente identica, ma con diffusione più ampia. Nello stesso 2017, fu ospite in Accademia, in visita ufficiale, l'allora Presidente della camera, Laura Boldrini. Il linguaggio di genere fu il tema principale di quella giornata. Ancora nel 2017, l'Accademia della Crusca pubblicò un libro intitolato «Quasi una rivoluzione». Femminili di professione e cariche in Italia e all'estero. Il libro era nato da un'idea dell'accademico Vittorio Coletti, accolta dal nostro Direttivo. Avevamo bandito una borsa di studio, mediante concorso pubblico, per svolgere una ricerca sulla denominazione delle professioni e delle cariche non solo in Italia, ma in un quadro internazionale. Vincitore della borsa fu Giuseppe Zarra, oggi professore associato di Linguistica italiana.

Nel 2021 pubblicammo gli atti del convegno organizzato in Crusca nel 2018 dalla Rappresentanza italiana della Commissione europea. In quell'occasione, che oserei definire storica, si riunirono a Firenze, nella Villa medicea di Castello, la nostra sede, i rappresentanti di altre due grandi accademie europee, la Real Academia Española e l'Académie française. Per l'Accademia francese, la rappresentanza fu al massimo livello, con Madame Helène Carrère d'Encausse, secrétaire perpetuel dell'accademia d'oltralpe. L'argomento dell'incontro riguardava i problemi linguistici in quel momento d'attualità nelle rispettive nazioni, Francia Spagna e Italia, e il tema del linguaggio di genere fu trattato da tutti i relatori.

Infine, il 24 settembre del 2021, l'accademico Paolo D'Achille, che dirige la consulenza dell'Accademia della Crusca, ha firmato un intervento intitolato Un asterisco sul genere, dedicato non solo all'asterisco, ma anche all'uso dello schwa.

Questi sono stati i momenti in cui ufficialmente l'Accademia si è espressa a proposito di linguaggio di genere, per non citare i corsi di vario tipo, prima di tutto quelli organizzati con l'Ordine dei giornalisti della Toscana, in cui il tema del linguaggio di genere è emerso più volte. Al di fuori di questi interventi ufficiali, le voci degli accademici si sono fatte sentire con opinioni di natura personale, assolutamente legittime, ma da distinguere rispetto alla funzione pubblica dell'Accademia della Crusca. Le polemiche e le ricadute giornalistiche non sono mancate. In molti casi si è trattato di un confronto di idee, in qualche occasione si è fatto ricorso all'elemento polemico nello stile dei social, qualche volta all'ironia, coinvolgendo in maniera superficiale il nome stesso dell'Accademia. Citerò a questo proposito due casi analoghi, ma nati da atteggiamenti di segno opposto. Nel 2015, la nota conduttrice televisiva Luciana Littizzetto, in un intervento intitolato "Il pensiero debole" in cui prendeva nettamente le distanze dai femminili di cariche e professioni che la Crusca aveva dichiarato legittimi, concludeva ironicamente che "per parità di genere" la nostra accademia avrebbe dovuto essere chiamata "l’Accademia della Crusca e del germe di grano". Recentemente, la scrittrice Michela Murgia ha lanciato una petizione paradossale e ironica, ideata come controcanto a un'altra petizione, del linguista Massimo Arcangeli, che cruscante non è, ma firmata da vari intellettuali di fama, e, a titolo personale, anche da alcuni accademici della Crusca e dallo stesso presidente. La contropetizione si conclude attribuendo comicamente la proposta al "Senato dell'Accademia dei Cinque Cereali". Ho citato questi due casi di deformazione del nome della nostra Accademia non solo per mostrare come l'uso distorto del nome di un vero o presunto avversario, o di uno che non la pensa allo stesso modo, sia pratica corrente su fronti diversi, ma anche per far notare come un'istituzione prestigiosa possa essere messa sotto accusa per motivi opposti, da chi si lamenta del suo presunto atteggiamento conservatore, e da chi viceversa la ritiene colpevole di eccessive fughe in avanti. Ci si può trovare tra due fuochi. Questo non è certo di per sé un problema, anzi può essere segno di equidistanza e di equilibrio. Del resto è evidente che le questioni di genere, nate in Italia con gli interventi di Alma Sabatini dal 1986, non sono risolte. Risale al 1987 il più celebre libro di questa insegnante di inglese, nutrita di cultura anglosassone, lettrice di italiano nell'Università del Michigan, poi attiva nell'Università di Perugia, militante nei movimenti femministi, dal 1984 nella Commissione Nazionale per la realizzazione della Parità tra uomo e donna istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri al tempo del governo Craxi. Il risultato della sua militanza fu il libro Il sessismo nella lingua italiana, scritto in collaborazione di Marcella Mariani, stampato dall'Istituto poligrafico dello Stato. L'anno precedente, nel 1986, erano state anticipate le sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Per la scuola e per l'editoria scolastica, a firma della sola Alma Sabatini, la quale morì prematuramente nel 1988, quindi non molto dopo questi interventi.

Per molti anni il quadro teorico è rimasto sostanzialmente quello esposto nei due libri citati. Solo di recente la situazione si è complicata per l'inserimento tra i temi del linguaggio di genere delle nuove rivendicazioni che hanno esteso le proposte di innovazione, cercando l'inclusività in uno spazio che mira a superare l'opposizione binaria di maschile e femminile. L'asterisco e lo schwa sono appunto il risultato di questa nuova frontiera di rivendicazioni che hanno un impatto sul sistema linguistico, quelle che, appunto, hanno attirato l'attenzione dei media negli ultimi mesi. Se ne è discusso in un convegno a cui hanno partecipato collaboratori storici della Crusca, Cecilia Robustelli, Marco Biffi, accanto all'accademico Federigo Bambi.

La realtà linguistica, nella concretezza dell'uso, a trentacinque anni dall'intervento di Alma Sabatini, mostra ancora notevole varietà. Chi era presente all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università di Firenze, lo scorso 21 febbraio, avrà notato la varietà delle forme allocutive con cui ci si è rivolti alla professoressa Cristina Messa, "ministra", "ministro", "signora ministro". La rappresentante degli studenti ha rivendicato l'uso del femminile "universale", come antidoto al maschile sovraesteso, quello che io, con terminologia, che ritengo più fredda, quindi più adatta a un contesto scientifico, preferisco chiamare "maschile non marcato". L'incipit della rappresentante degli studenti ha avuto un innegabile effetto-sorpresa, ma è stato necessario un commento di natura metalinguistica che ne chiarisse il significato, che altrimenti sarebbe uscito stravolto. Il commento metalinguistico è la prova dell'esistenza di un sistema a cui non si può sottrarre nemmeno chi intende contestarlo. Il seguito del discorso non ha conservato una costante coerenza rispetto alle premesse metalinguistiche. Ho annotato espressioni come "siamo l'università con meno laureati", "obiettori di coscienza", "non vogliamo restare neutri", "ci fanno sentire inadeguati", tutti casi in cui è venuto meno il femminile "universale". Non mi stupisco di queste oscillazioni, seppure applicate a un oggetto del contendere che potrebbe essere considerato risolto fin dagli anni '80 del secolo scorso, usando i suggerimenti di Alma Sabatini, la quale consigliava la duplicazione, nella forma "studenti e studentesse", ormai stabilmente in uso da parte di quasi tutti gli oratori pubblici. Nemmeno coloro che impiegano un espediente così semplice sfuggono a problemi di coerenza: nel programma elettorale del sindaco della mia città, accanto alla regolare reduplicazione "cittadini e cittadine", "studenti e studentesse", "lavoratori e lavoratrici", ho trovato casi di maschile non marcato, come "i commercianti" o "i professionisti". Si direbbe che la sensibilità al genere oscilli in relazione alla fiducia maggiore o minore riposta nelle categorie professionali.

Il tema della coerenza a me pare tra i più interessanti, anche per distinguere tra stile, afflato retorico, e proposte linguistiche di sistema. Del resto, a proposito di contraddizioni, abbiamo sentito ripetere molte volte che lo schwa era un "esperimento", salvo poi imbatterci in questo esperimento condotto in un genere testuale come il verbale di concorso, che noi linguisti abbiamo sempre riconosciuto come il più distante dalla sperimentazione. Proprio qui, però, abbiamo visto la coerenza venir meno. Nel suo intervento sul "Corriere della Sera", in risposta all'attacco di Gian Antonio Stella, l'estensore del verbale ha candidamente ammesso l'incoerenza nell'uso degli articoli maschili che si combinavano con i sostantivi modificati dallo schwa. Ma il problema della coerenza avrebbe dovuto essere posto anche per gli aggettivi e i pronomi. Tuttavia è facile vedere che la coerenza non conta, perché l'uso occasionale dello schwa rappresenta soprattutto un elemento di forte valenza simbolica, un segno di identità e appartenenza che vale perché denuncia la rottura del sistema grafico e fonetico, indipendentemente dal risultato. Tanto più quando (come ha fatto il prof. Maurizio Decastri) lo si difende mediante il confronto con la varietà e storicità del lessico, magari citando non troppo opportunamente l'ottocentista Rigutini, che parlava di parole nuove, non di morfologia. Qualunque linguista sa che la storicità del lessico è cosa diversa dalla stabilità delle strutture morfologiche di una lingua. Il pane italiano viene dal panem latino, ed è la stessa parola che abbiamo in italiano, in spagnolo, in francese, in portoghese, in provenzale, in catalano, oltre che nei dialetti italiani. La parola è la medesima, eppure queste lingue NON sono il latino, e ognuna di esse è una lingua diversa dalle altre: la parola è la stessa, ma cambia la morfologia, per la perdita dei casi del latino, ed è cambiata la fonetica. Morfologia e fonetica offrono le costanti che identificano la struttura grammaticale. L'immissione di nuove parole, irrilevante rispetto alla struttura della lingua, non muta e non può mutare questo quadro. I cambiamenti sostanziali, invece, hanno inciso e incidono proprio su quel livello in cui vogliono intervenire ora i riformatori che lanciano il sasso e nascondono la mano, negando l'intenzione di scardinare l'italiano; e tuttavia si accingono davvero a scardinarlo, certamente in buona fece, senza rendersi conto del peso di ciò che propongono. Giacomo Devoto avrebbe parlato a questo punto della lingua come istituto, con un richiamo al diritto, diritto che a sua volta non si riduce alla proliferazione dei diritti, ma armonizza l'incarnarsi della lingua nella storia, per cui il mutare, che pure esiste, è sottoposto a un confronto con la società nel suo complesso, e non solo con le punte avanzate delle rivendicazioni, talora giuste, talora elitarie, isolate o provocatorie, pur se comprensibili nelle loro ragioni fondamentali.

Da parte mia, invito a tenere conto delle opinioni espresse da tre studiose, tre donne. La prima è Cecilia Robustelli, che ha scritto sul tema un articolo per "Micromega". Le altre due sono Elena Lowenthal, che ha tracciato la storia dello schwa in un libro pubblicato nel 2021 per la Nave di Teseo. La terza è Cristiana De Santis, in un bell'intervento nel sito della Treccani. Il momento storico forse non è favorevole. Penso a quanto è stato dichiarato dall'ex ministro Giulio Tremonti, che, sul "Giornale" del 24 febbraio, ha fatto notare (e poi lo ha ribadito il 26 sera parlando in Tv a La7) che nel comunicato del G7 di Carbis Bay, in Cornovaglia, del 13 giugno, su 70 paragrafi e 25 pagine, alla questione Russa sono stati dedicati due piccoli paragrafi, per un totale di mezza pagina, mentre molto più vasto è stato lo spazio dedicato alla gender equality. Non sarà facile trovare equilibrio e senso della storia per mettersi d'accordo su questi problemi.

Allegati

Redazione
08 luglio 2022 - 00:00
Commento di chiusura di Claudio Marazzini
I commenti al mio Tema non sono stati molti, ma sicuramente si caratterizzano per un'insolita lunghezza. Gli intervenuti percorrono ciascuno la propria strada; non dialogano nemmeno tra loro; ognuno svolge il proprio discorso senza guardare a quello che hanno detto gli altri, e anche senza badare a quello che ho detto io. Un po' diverso è l'intervento del professor Sgroi, noto linguista, dunque un collega. Il suo intervento aggiorna utilmente il quadro delle polemiche sul linguaggio di genere, dando conto di avvenimenti molto recenti, in particolare facendo il nome di un altro collega, il linguista Massimo Arcangeli, che negli ultimi tempi ha fatto sentire la sua voce in maniera chiara e vivace, con forti ricadute mediatiche e notevole coinvolgimento dell'opinione pubblica.
Il tema del linguaggio di genere nasce fuori dalla lingua e si ripercuote in essa in maniera largamente artificiosa, attraverso interventi di carattere prettamente politico, non di rado faziosi, che attribuiscono a meccanismi normali della grammatica significati reconditi, suggerendo poi soluzioni algebriche più o meno azzardate, spesso aspirando a una regolamentazione autoritaria calata dall'alto. La tentazione di ripulire la lingua dalle sue presunte colpe storiche tenta molte anime belle. Basta cancellare un po' di parole cattive, e il gioco è fatto. Proprio ieri ho letto la proposta di alcuni docenti, i quali sono convinti che, eliminando la parola "guerra" dai libri di scuola, si riuscirà, nel giro di alcuni secoli, ad abolire la guerra dal mondo reale.
Cambi o cancelli la parola, e così cambi anche il referente. Se mi costruisco un nemico a mio uso e consumo, posso poi almanaccare su tutte le sue colpe, specialmente se è una proiezione del mio cervello. Buona parte della recente evoluzione del dibattito sul linguaggio di genere scivola su questa china e fa venire in mente la neolingua di Orwell. In questo atteggiamento trovano facilmente spazio autoritarismo, fanatismo, forme di razionalismo che definirei irrazionale. Si pretende di correggere la lingua con gli stessi criteri e con la stessa facilità con cui si scrive un regolamento di condominio o una petizione di Change.org. Poiché queste istanze radicali provengono da più parti, e sono internazionali, in larga misura veicolate da frange della cultura anglosassone, è probabile che si debba ancora per lungo tempo sentir parlare di queste cose. Purtroppo.

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Luigino Goffi
20 maggio 2022 - 00:00
1: La lingua italiana ha bisogno di una desinenza breve, monovocalica, che indichi il neutro, perché non possiamo costringerci tutte le volte a rallentare i testi con locuzioni del tipo "signori e signore", "dottori e dottoresse", "avvocati e avvocate", "leoni e leonesse", "narvali e narvale", "foche maschi e foche femmine", ecc. . La comodità di avere il neutro, cioè di avere una desinenza breve (costituita da una sola vocale) per indicare sia i maschi che le femmine e che gli lgbtqi+ (che d'ora in poi chiamerò "terzo sesso" per evitare il correttore automatico) è evidente, aldilà del problema socio-politico, che pure esiste. L'obiettivo è, insomma, quello di rendere la lingua italiana contemporaneamente più precisa e più veloce, mantenendone, però, l'eufonia. Se dicessimo, infatti, "signori" senza aggiungere "e signore" saremmo veloci, ma imprecisi; e se, invece, dicessimo "signori e signore" saremmo precisi, ma lenti; e le lingue imprecise e/o lente sono destinate a scomparire, o quantomeno ad essere ridimensionate internazionalmente, perché poco chiare e inadatte ad essere lingue della scienza, oppure troppo elefantiache nella loro lentezza. 2: Il problema nasce dal fatto che la lingua italiana, per avere questa meravigliosa eufonia che tutti le riconoscono, è costretta a usare come desinenze per le parole piane e semanticamente piene, solamente le quattro vocali fondamentali: "-o", "-i", "-a", "-e", rifiutando la "-u" perché, se atona, è troppo simile alla "-o", e, quindi, poco distintiva foneticamente - tant'è vero che le sole parole italiane che terminano per "-u" sono tronche, cioè hanno la "-u" accentata, per distinguerla maggiormente dalla "-o": "Gesù", "laggiù", "più", ecc. . Per introdurre il neutro, insomma, avremmo bisogno di due vocali in più (oltre alle quattro dette), ben distinte foneticamente, mentre ne disponiamo di una sola (la "u") che mal si distingue dalla "-o", e, dunque, è inutilizzabile. Chi vuol introdurre, come desinenze, le vocali turbate, come la schwa: tutte - anch'esse - poco distinguibili foneticamente, e, in più, difficili da pronunciare, non si accorge di spingere per un abbruttimento della lingua italiana, che trova una ragione di vita proprio nella sua splendida eufonia. 3: Non abbiamo, allora, speranze di risolvere la questione? Ma niente affatto! Il problema si risolve considerando che quando è nata la lingua italiana (nel Medioevo) era importante - giusto o no che fosse - distinguere tra maschile e femminile all'interno delle professioni; oggi, invece, tale distinzione appare, piuttosto, come un'ossessione linguistica ingiustificata, una sessuomania. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, non mi serve sapere se l'avvocato che mi difenderà sarà un maschio, una femmina, o un terzo sesso, mi basta che sia bravo. E, allora, ecco la soluzione: all'interno delle professioni basta il solo neutro, che non possiamo far altro che indicare colla desinenza "-o": l'avvocato non è il maschio, ma, indifferentemente, il maschio, la femmina, e il terzo sesso. Per quei pochissimi casi in cui servirà distinguere tra maschi e femmine non potremo far altro che usare desinenze non più massimamente comode come le singole vocali, ma desinenze formate da "u" consonantica più vocale - perfettamente praticabili e italiane: "avvocàtuo" e "avvocàtua, che saranno poco fastidiose anche per chi non ama le novità, proprio perché, all'interno delle professioni, non serve distinguere tra maschile e femminile, e, dunque, si userà quasi sempre "avvocato". La parola "avvocata" indicherà qualcos'altro dal femminile (reso, come detto, con "avvocàtua") perché, altrimenti, non avremmo una simmetrica parola per indicare il maschile (reso, come detto, con "avvocàtuo"), dato che la parola "avvocato" deve indicare solo il neutro (maschi, femmine, e terzo sesso, indifferentemente), non anche il solo maschile, come, invece, si fa oggi, ambiguamente. Lo stesso discorso vale in zoologia: "gatto" sarà solo neutro (maschile, femminile, e terzo sesso, indifferentemente), non anche solo maschile come, invece, si fa oggi, con ambiguità; "gàttuo" sarà solo maschile, e "gàttua" solo femminile. Quanto a "gatta", sarà anch'esso un neutro, ma indicherà un'altra cosa, ad esempio una caratteristica, come quando diciamo che quella persona è una gatta; infatti, un conto è aver visto un gatto, cioè un animale (maschio o femmina o terzo sesso che sia, indifferentemente), e un altro conto è aver visto una gatta (ma sarebbe meglio dire "un gatta"), cioè una persona (anche qui: maschio, femmina o terzo sesso che sia, indifferentemente) che ha un modo di fare felino, da gatto. 4: La soluzione presentata, pur nella sua novità, aggiornerebbe la nostra lingua ai bisogni di precisione e velocità tipici del nostro tempo, rispettandone, al contempo, la tradizionale eufonia. Una cosa è certa, comunque: trovare soluzioni alternative non sarà facile.

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Nico Castello
09 maggio 2022 - 00:00
Mi sembra si stia esagerando nel dare importanza ad un problema che è solo reale nelle menti delle femministe: basta usare i due termini: studenti e studentesse, avvocati e avvocatesse, dottori e dottoresse e una parte del problema è risolta. Per quanto poi riguarda il femminile di molti termini, esso esiste già! Che bisogno c'è di "inventare" l'orribile "direttora" o simili sciocchezze quando esistono i femminili "direttrice", "dottoressa", "ministra", "attrice" etc? Non mi pare che nel caso del maschile ci sia mai posto il problema se si debba dire "atleto" o "cineasto" o "recluto".. Per quanto concerne il mondo animale credo basti dire "balena maschio" o "cròtalo femmina" e il problema è risolto. O no? Cordialmente. Castello.

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Luigino Goffi
26 aprile 2022 - 00:00
Una soluzione possibile al problema del genere linguistico in italiano è la seguente. Parlando di realtà - come le professioni o gli animali - in cui sia necessario distinguere tra maschile, femminile e neutro (il neutro - precisiamo - non indica il terzo genere (lgbtqi+), ma indica tutti e tre questi generi (maschile, femminile e lgbtqi+), ricomprendendoli in un concetto superiore, come quando - per non far discriminazioni - si usa il termine "persona", o si vede qualcuno da lontano, senza poter capire se è maschio, femmina o altro), le parole terminanti per "-o" - come, ad esempio, "avvocato" o "narvalo" - potrebbero essere usate per indicare non più il maschile, ma solo il neutro, cioè per indicare indifferentemente sia il maschio, sia la femmina e sia altre identità sessuali. In effetti, da un avvocato si pretende la preparazione professionale, la bravura, non certo un determinato orientamento sessuale. E dicendo che il narvalo è un cetaceo, si sta, anche qui, usando il neutro, riferendosi, evidentemente a tutti i narvali, senza discriminazioni. Usare, per indicare il neutro, desinenze che non rispettano l'assoluta eufonia della lingua italiana - come la schwa -, o che sono puramente scritte ma non pronunciate - come "laureato/a" (a meno che non si scriva "laureato barra a") - , o che la rallentano allungando la frase - come quando si dice "dottori e dottoresse" -, significa, nei primi due casi, voltare le spalle alla bellezza della nostra lingua, e. nell'ultimo caso, trascurare il fatto che le lingue lente sono destinare a morire (non c'è bisogno di dire "dottori e dottoresse", è sufficiente dire semplicemente "dottori", una volta stabilito che si tratta non di maschile ma di neutro). In quei pochissimi casi in cui si debba distinguere tra maschio e femmina, si potranno usare rispettivamente le desinenze atone "-uo" e "-ua". Usando esempi brutti ma chiari, la moglie che uccide il marito-bruto per legittima difesa, può aver interesse a scegliere, per motivi d'immagine, un avvocàtuo, e lo stupratore, per gli stessi motivi, un'avvocàtua. E solo il nàrvaluo ha il dente lungo, non la nàrvalua. E a chi non piacessero queste parole, va detto, da un lato, che si useranno quasi sempre termini come "avvocato" e "narvalo" perché non c'è bisogno di distinguere sempre, in modo ossessivo, come inutilmente fa l'italiano, tra maschile e femminile (basta distinguere quelle poche volte che serve), e, dall'altro, che le parole italiane terminanti per "-uo" e "-ua" atoni non sono poche ("congruo", "vacuo", "equo", ecc.): vogliamo eliminarle tutte dal vocabolario? La desinenza "-a" - "avvocata", "narvala" - può andar bene per indicare altre cose, come, nel primo esempio, lo studio legale inteso non come lo studiare leggi, ma come l'appartamento dove lavorano gli avvocati, oppure, in generale, l'associazione professionale, o, infine, altre cose, purché non distinguentisi, a loro volta, in maschile e femminile, altrimenti saremmo daccapo! Introdurre il neutro in italiano è necessario e, come abbiamo visto, semplicissimo. Non c'è bisogno di introdurre suoni turbati o soluzioni indifendibili che fanno solo scadere la lingua italiana (l'unica lingua al mondo veramente vocalica) al livello di tutte le altre lingue.

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Salvatore Claudio SGROI
02 aprile 2022 - 00:00
Salvatore Claudio Sgroi 1° aprile 2022 Una utile "guida bibliografica ragionata", pur selettiva, sub specie Accademia della Crusca, quest'intervento del suo Presidente su "La lingua italiana in una prospettiva di genere", che si sofferma criticamente (e giustamente) nella seconda parte sul sessismo lessicale e soprattutto grafo-fono morfologico, nella fattispecie, contro l'uso dello schwa /ə/. Questa polemica, devo anche dire, rischia alla fine di stancare, come tutti i tormentoni, il lettore. Il “sessismo” grammaticale della lingua, è basato su un equivoco teorico, come ho più volte detto (in vari interventi nel blog di F. Raso e in sedi più accademiche): il genere grammaticale ha la funzione fondamentale di consentire l'accordo in vista della coesione testuale, con a volte una secondaria sovrapposizione del riferimento al maschio (col maschile) e alla femmina (col femminile), come nei prenomi (maschili e femminili). La identificazione tout court del genere grammaticale col sesso degli uomini (i.e. 'maschi e femmine'), peraltro di matrice greco-latina, è solo ideologica, per un fine magari condivisibile (combattere la disparità uomo/donna nella società) ma argomentata in maniera pessima, con il ricorso alla chiocciola, all'asterisco, o allo schwa. Quest'ultimo, come se non bastasse nella duplice forma /ə/ al singolare ed /ɜ/ al plurale, della linguistica femminista e transfemminista, adottato da qualche casa editrice ed amministrazione, ha raggiunto proprio il colmo, anche per le difficoltà di comprensione che spesso provoca e l'incoerenza nella pratica applicazione dimostrata dai suoi sostenitori, sottolineata da Marazzini. La funzione precipua del genere ai fini dell'accordo e della coesione testuale è sì ricordato -- ma contraddittoriamente ancora sottovalutato -- sia dalla Robustelli nel suo intervento in "Micromegas" (p. 7), sia nel suo pur intelligente testo dalla Loewenthal Libertà vigilata. Perché le donne sono diverse dagli uomini" (ricordati da Marazzini), entrambe peraltro contro l'uso dello schwa. La Loewenthal insiste ossessivamente sulla necessità di "sessuare" la lingua (pp. 58, 37, 38, 41, 45, 56, 57). E, critica contro l'uso delle varie forme grafiche per l'uso inclusivo morfologico, e il "maschile inclusivo" (o "non marcato") es. "gli studenti" i.e. 'gli studenti e le studentesse', ricorre poi sul modello del tradizionale allocutivo "Signore e Signori" alla (re)duplicazione lessicale: "tutte e tutti noi viviamo in questo presente" (p. 11); "non tutti e non tutte sono battezzate" (p. 48); "il traduttore, la traduttrice sono [...] diversi" (p. 70); "un pubblico di lettori e lettrici" (ibid.). Riguardo alla femminilizzazioni delle professioni, ritengo -- laicamente -- che non possa essere "prescritto" nell'ottica del medico che deve curare un malato l'uso per es. di avvocata, direttrice, ecc., come invece ancora ribadito dalla Robustelli, che pure prende le distanze dallo schwa del movimento femminista e transfemminista. La femminilizzazione va invero lasciata al "libero arbitrio" soprattutto nel caso delle stesse interessate che spesso preferiscono essere indicate per es. come "avvocato" o "direttore (di dipartimento, o d'orchestra)". Ancora più paradossale è la posizione di quanti non solo pretendono che il genere grammaticale maschile-femminile dovrebbe essere collegato col sesso maschio-femmina dei parlanti, ma vorrebbero che il genere grammaticale riflettesse la realtà di individui con pulsioni sessuali diverse indicati con l'acronimo "LGBTQI+" (p. 53), che come spiega per es. lo Zingarelli (2021) indica "Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trangender, Queer ['diversi'], Intersessuali e affini". E non si tiene conto del fatto che grazie alla "onnipotenza semantica" (o "onniformatività") del linguaggio verbale la lingua consente al parlante di indicare con varie scelte lessicali (neoformazioni o prestiti, come quelli appena indicati, ed altri) gli individui con diverse pulsioni e comportamenti sessuali. Lo sferzante, sarcastico pamphlet di Massimo Arcangeli, "La lingua scema. Contro lo schwa (e altri animali)" (Castelvecchi febbraio 2022), (privo di un pur utile indice dei nomi), uscito a ridosso dell'Appello contro lo schwa promosso dallo stesso Arcangeli il 4 feb., ricordato da Marazzini, è anche utile in quanto rassegna di vari interventi apparsi in internet di "linguistica ingenua" degli "schwaisti" (pp. 20, 32) o "affetti da schwaite" (p. 17) a favore cioè dell'uso dello schwa, a volte popolarmente indicata con il genere femm. dei nomi in /-a/ (all'87,8% femminili) come "la schwa" (pp. 25, 53, 73), ovvero "simbolo schwantatico" (p. 45), della "solita Murgia" (pp. 62, 56) o della Gheno (pp. 63-65). Arcangeli analizza altresì opportunamente le altre soluzioni adottate in Francia (pp. 33-39, 40-41), nonché in Svezia (pp. 40-41), in Germania (pp. 31-32, 54-56) e ancora per l'inglese (p. 65) e lo spagnolo (pp. 27, 29).

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