L'accademico Paolo D'Achille propone una riflessione sulle varietà lombarde e sul loro rapporto con la lingua italiana.
Ottobre 2016
Il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato, lo scorso settembre 2016, una legge regionale che si occupa di “materia culturale”, che ha come titolo IV la “Salvaguardia della lingua lombarda”. Tale espressione – che figurava già nel progetto di legge, prima della sua approvazione – ha sollevato le perplessità di una consigliera, Daniela Mainini, la quale si è rivolta all’Accademia della Crusca per avere chiarimenti in merito, ritenendo che sarebbe stato più corretto parlare di “dialetti lombardi”. Le perplessità della Consigliera Mainini sono pienamente giustificate, per le ragioni che espongo qui di seguito.
Oggi non ha alcun senso parlare di “lingua lombarda”, sebbene ci sia una voce così intitolata in Wikipedia e l’espressione si trovi in vari altri siti Internet. Esistono, è vero, anche attestazioni antiche, come documenta il Deonomasticon Italicum di Wolfgang Schweickard, s.v. Lombardìa, ma gli ultimi esempi di “lingua lombarda” rintracciati dallo studioso si fermano al Seicento, quando peraltro il toponimo Lombardia si riferiva ancora a un territorio ben più ampio della regione attuale. Oggi l’espressione potrebbe essere usata solo per indicare il “complesso dei dialetti lombardi”. È vero che anche i dialetti sono lingue: da un punto di vista generale, infatti, ogni dialetto può essere considerato e definito lingua, perché non esistono elementi di carattere strutturale tali da tracciare un confine netto tra lingua e dialetto (e ricordiamo che etimologicamente dialetto significa semplicemente ‘lingua parlata’). È però indubbio che, sul piano storico-culturale, i due termini esprimono concetti diversi. La distinzione tra lingua e dialetto non è propria di tutte le culture: il concetto di dialect in area anglosassone è ben diverso dal nostro e corrisponde, pressappoco, a quello di varietà locale di una lingua; bisogna dunque fare attenzione perché quando in testi inglesi si parla di language questo termine può significare non solo ‘linguaggio’ e ‘lingua’, ma anche ‘dialetto’. Però, là dove la distinzione esiste (come in italiano), essa serve a distinguere le parlate che sono state messe per iscritto e si sono standardizzate per svolgere alcune specifiche funzioni (trasmissione del sapere scientifico, legislazione e amministrazione, ecc.) da quelle che tali funzioni non hanno mai svolto. In molti Paesi europei (Inghilterra, Francia, Spagna) il dialetto della capitale è stato alla base di quella che, all’inizio dell’età moderna, è diventata la lingua dello Stato nazionale via via consolidatosi (e non sempre pacificamente). Nel caso dell’Italia, invece, sono stati motivi culturali (oltre che strutturali) che hanno spinto le varie aree del Paese a convergere, prima nell’uso scritto e poi anche nel parlato, verso il fiorentino letterario trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio, che è diventato l’italiano di oggi anche grazie agli apporti delle altre parlate locali, intensificatisi dopo l’Unità.
In ogni caso, se proprio si volesse usare il termine “lingua” e non quello di “dialetto”, bisognerebbe parlare di “lingue lombarde”, perché in Lombardia non esiste un unico “dialetto lombardo”, bensì vari “dialetti lombardi”. È vero che il comma 1 dell’articolo 24 della legge parla di “varietà locali della lingua lombarda” e che il riferimento alle varietà torna nel comma 2 dell’articolo 25, ma l’espressione ricorre sempre al singolare, mentre i dialetti lombardi non sono affatto unitari e non è possibile individuare una koinè diffusa nell’intera regione. Scrive infatti il dialettologo Giovanni Bonfadini nella voce “lombardi, dialetti” dell’Enciclopedia dell’Italiano edita dalla Treccani (consultabile anche in rete, all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/dialetti-lombardi_(Enciclopedia-dell'Italiano)/):“Se la presenza di una koinè lombarda in epoca medievale, almeno a livello di lingua letteraria e cancelleresca, è oggetto di discussione […], per l’epoca moderna è invece pacifica la fondamentale divisione dialettale tra una Lombardia occidentale e una Lombardia orientale, separate dal corso dell’Adda. Tale bipartizione, formulata per la prima volta da Bernardino Biondelli a metà Ottocento […], non è stata più abbandonata dagli studiosi successivi”. I dialetti lombardi sono ben differenziati tra quelli a ovest e quelli a est dell’Adda (ai quali andrebbero aggiunte le varietà alpine e quelle di transizione con le regioni confinanti, che presentano ulteriori particolarità); quasi tutti i tratti che le due varietà hanno in comune sono in realtà propri dell’intero territorio alto-italiano (o almeno comuni al gruppo dei cosiddetti dialetti gallo-italici). Dunque, ripeto, non si dovrebbe parlare neppure di un “dialetto lombardo”, a meno che non ci si voglia riferire al milanese, che però è stato il punto di riferimento solo per l’area occidentale della regione. Men che mai, pertanto, si può correttamente parlare di “lingua lombarda”.
Aggiungo altre considerazioni: le più recenti inchieste dell’ISTAT vedono la Lombardia agli ultimi posti tra le regioni in cui esiste un uso (esclusivo o prevalente) del dialetto; Milano è considerata, tra le grandi città italiane, quella in cui meno si parla dialetto (secondo alcuni linguisti, anzi, quella in cui si parla più correttamente l’italiano). Ciò non toglie che ci siano delle realtà, in Lombardia come in altre regioni italiane, in cui le parlate locali sono ancora vive e vitali; ma in ogni caso lingua (italiano) e dialetto (milanese, bergamasco, ecc.) convivono ormai da tempo in un rapporto non di bilinguismo (cioè come se fossero due lingue perfettamente e integralmente intercambiabili), bensì di diglossia, col dialetto che può subentrare in molte situazioni all’italiano e inserirsi in esso ma mai sostituirlo interamente in tutte le funzioni (men che mai in quelle riservate alla lingua scritta). La vitalità o il rilancio del dialetto nel teatro, nella canzone o anche in rete non mette minimamente in discussione l’uso dell’italiano, né in Lombardia né altrove.
In termini appunto di diglossia, la Lombardia è stata storicamente una delle regioni che meglio ha saputo coniugare l’uso, anche letterario, del dialetto (che soprattutto ma non solo a Milano ha una tradizione gloriosa) con la pratica dell’italiano di base tosco-fiorentina nell’amministrazione pubblica e nell’insegnamento; e l’italiano non è stato imposto ai lombardi da un potere centralistico esterno, ma è stato da loro scelto liberamente. E basterà citare i nomi di Ludovico il Moro, che adottò un volgare di base toscana nella sua cancelleria; del cardinale Borromeo, che promosse l’insegnamento dell’italiano nelle scuole della sua diocesi; degli intellettuali del Caffè, che rivendicarono il loro diritto di usare un italiano diverso dal modello cruscante; di Alessandro Manzoni, che nel suo grande romanzo adottò il fiorentino vivo, pur collocando la vicenda su “quel ramo del lago di Como”…
Prospettare un futuro in cui nella regione si usino solo lombardo e inglese e si possa tranquillamente fare a meno dell’italiano è davvero assurdo e sarebbe anche autolesionistico: pensiamo solo al prestigio di cui gode l’italiano nel campo dell’opera lirica, che proprio nel capoluogo della Lombardia ha uno dei suoi templi internazionali: il Teatro alla Scala.
In definitiva, pare molto opportuno (e anzi lodevole, in un momento in cui tutte le parlate locali vanno considerate a rischio estinzione) che la Regione Lombardia punti a tutelare e a diffondere – anche attraverso la scuola – il ricchissimo patrimonio dialettale lombardo, cercando di preservarne la conoscenza, almeno passiva, presso i giovani. Desta però preoccupazione il fatto che nella Legge regionale si parli di “salvaguardia della lingua lombarda”, come per contrapporre la “lingua lombarda” alla lingua italiana e far così assumere implicitamente all’iniziativa i connotati di una rivendicazione linguistica, quasi che i dialetti lombardi costituissero, nel loro insieme, una lingua minoritaria da difendere perché oppressa da una politica linguistica centralista che intende imporre l’italiano a chi non lo parla. La realtà è tutt’altra.
Paolo D'Achille
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Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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Intervento conclusivo di Paolo D’Achille
Ringrazio anzitutto quanto sono intervenuti: date le implicazioni della questione affrontata, era stato già preventivamente messo in conto che questo “tema del mese” avrebbe dato origine a un dibattito acceso e che ci sarebbero state anche prese di posizione fortemente contrarie e critiche. Ma credo che il confronto delle idee, se condotto in termini civili e rispettosi (come è in effetti avvenuto), sia sempre e comunque utile. Inizio rilevando che la differenza terminologica tra bilinguismo e diglossia e la ricostruzione storica tracciata nel testo, entrambe centrali per il mio ragionamento, non hanno sollevato obiezioni. E già questo per me è motivo di soddisfazione. Mi soffermo allora su alcuni aspetti del problema che richiedono ulteriori precisazioni e approfondimenti, perché sono quelli hanno sollevato reazioni più accese, a cui cerco così di rispondere. Non ritengo affatto che sia la scrittura a segnare il discrimine tra lingue e dialetti: so benissimo che ci sono nel mondo tante lingue che sono esclusivamente parlate e che, come del resto ho detto esplicitamente, i dialetti italiani, sul piano strutturale, sono lingue a tutti gli effetti, abbiano o meno una tradizione scritta alle spalle (che peraltro nel caso in questione c’è ed è, come ho ricordato io stesso, importantissima). Quindi, il fatto che si voglia parlare di “lingua milanese”, o di “lingua napoletana”, ecc., invece che di “dialetto milanese”, di “dialetto napoletano”, ecc., non costituirebbe alcun problema. La questione si pone piuttosto nell’individuazione, da parte di una legge regionale della Lombardia, che, in quanto tale, ha un’indubbia rilevanza politica, di una “lingua lombarda”, implicitamente contrapposta alla lingua italiana, rispetto alla quale, infatti, dovrebbe essere salvaguardata. Ebbene, individuare un sistema linguistico (la “lingua lombarda”, appunto) in base alla corrispondenza con una determinata entità amministrativa (l’attuale Regione Lombardia) è, a dir poco, discutibile, almeno sul piano scientifico. Da un lato, infatti, in Lombardia, si parlano dialetti abbastanza distinti e, diversamente da quanto è avvenuto in Veneto o in Piemonte, non c’è stata in passato e non c’è neppure oggi una koinè basata sul dialetto del capoluogo diffusa nell’intera regione; dall’altro lato, i dialetti lombardi rientrano, insieme a quelli piemontesi, liguri, emiliani e romagnoli, nel sistema più ampio dei dialetti gallo-italici e quindi, volendoli considerare complessivamente sulla base dei tratti che hanno in comune, andrebbero inquadrati in questo orizzonte più ampio, piuttosto che considerarli varietà di una “lingua lombarda”. Il punto centrale della questione è probabilmente il fatto che questa lingua lombarda figuri non solo in Wikipedia, ma anche e soprattutto nell’Atlante delle lingue in pericolo dell’Unesco. Al riguardo posso limitarmi a ribadire quanto ha segnalato in alcuni suoi importanti interventi il collega e amico Nicola De Blasi: le suddivisioni geolinguistiche italiane e la conseguente indicazione delle lingue regionali in questo Atlante risultano molto discutibili se parametrate alle conoscenze acquisite nel campo della dialettologia. Inoltre, alla difesa delle lingue regionali fa da corrispettivo la sostanziale cancellazione dei dialetti locali (De Blasi parla efficacemente di “minimanze”, contrapposte alle “minoranze” che si intendono salvaguardare). Tanto per fare un esempio, a me geograficamente più vicino, l’Atlante trascura completamente i dialetti sabini e ciociari del Lazio, che sono strutturalmente assai diversi tanto dall’italiano “centrale” ricordato nello stesso Atlante, quanto dal romanesco (che esercita oggi su di essi un’indubbia pressione) e che avrebbero quindi tutti i numeri per essere collocati anch’essi tra le lingue in pericolo. C’è poi un riferimento normativo che è opportuno ricordare: la legge n. 482 del 15 dicembre 1999, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 297 del 20 dicembre dello stesso anno e intitolata “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, che intende appunto tutelare le lingue minoritarie (le cosiddette lingue alloglotte o eteroglotte) parlate da secoli nel territorio italiano. Ebbene, l’articolo 2 di questa legge è costituito da un unico comma, che è il seguente: “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princípi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”. Può darsi che in futuro le cose cambino, ma attualmente queste sono le sole lingue minoritarie che lo Stato italiano riconosce. Vorrei concludere con un ultimo dato. Tra i territori in cui si parla la lingua lombarda l’Atlante dell’Unesco inserisce, giustamente, i territori della Svizzera italiana: il Canton Ticino e alcune valli del Cantone Grigioni. Si tratta di zone in cui i dialetti locali, che rientrano nel tipo lombardo occidentale, sono tuttora ampiamente usati; ma, accanto ai dialetti locali, viene usato (e da secoli) anche l’italiano di Svizzera, cioè la varietà locale dell’italiano, e nelle scuole svizzere si insegna (e bene) l’italiano (standard), che è poi una delle lingue ufficiali della Confederazione Elvetica. E l’italiano costituisce un forte elemento identitario per i ticinesi e per i “lombardi” delle valli grigionesi, dove si lega storicamente anche alla loro fede protestante. Per concludere, sarebbe opportuno, a mio parere, che la tutela dei dialetti (o diciamo pure delle lingue) locali, che in sé è benemerita, non venga caricata di implicazioni ideologiche “anti-italiane”. Ma questo, purtroppo, avviene spesso e stupisce che molti, anche tra gli “addetti ai lavori”, non se ne vogliano rendere conto.
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