Settembre 2022
Dalla fine del 2001 (che era stato l’anno europeo delle lingue) il Consiglio d’Europa ha istituito la Giornata europea delle lingue, patrocinata dall’Unione Europea, fissandola il 26 settembre di ogni anno, subito dopo l’equinozio autunnale. Abbiamo dunque superato il ventennale di questa “festa” e stavolta, lasciataci alle spalle la pandemia, l’evento è stato celebrato con molte manifestazioni, anche qui in Italia, dove tuttavia non ha trovato molto spazio sulla stampa e negli altri media a causa delle elezioni politiche avvenute il giorno prima.
L’intento dei promotori, all’inizio del XXI secolo, era da un lato quello di difendere le lingue minoritarie, dall’altro di promuovere l’apprendimento, fin dall’infanzia, di più lingue straniere. Nel primo caso, si puntava a far conoscere le lingue delle cosiddette minoranze “storiche” alloglotte o eteroglotte, che sono diffuse in moltissimi Stati europei (starei per dire tutti, tanto più se consideriamo non solo le minoranze storiche ma anche quelle dovute ai recenti fenomeni immigratori, che ha determinato la presenza in Europa anche di lingue in precedenza parlate solo in altri continenti), alcune delle quali a rischio d’estinzione; nel secondo, si poneva il problema di evitare un monolinguismo inglese sul piano internazionale.
Gli obiettivi restano validi anche se, rispetto al 2001, il quadro generale è alquanto mutato: l‘Unione Europea si è allargata con l’ingresso nel 2004 di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria, nel 2007 di Romania e Bulgaria e nel 2013 della Croazia. Il numero delle lingue parlate nell’UE (sia quelle “ufficiali”, tra loro paritarie, sia quelle minoritarie) è dunque indubbiamente cresciuto. Ma c’è stata anche la Brexit, che ha determinato l’uscita, nel 2020, del Regno Unito, col conseguente paradosso che la lingua più usata nella comunicazione internazionale e privilegiata anche all’interno dell’UE non sia più presente come lingua ufficiale di un Paese dell’Unione (l’Irlanda, come è noto, ha optato per il gaelico e Malta per il maltese).
In questo breve intervento vorrei porre l’attenzione su tre questioni che mi sembrano importanti.
La prima è la distinzione, ormai chiarita negli studi del settore, tra plurilinguismo e multilinguismo. Quest’ultimo si riferisce alla coesistenza, in uno stesso territorio amministrativo, di più lingue (tipico è il caso della Svizzera), mentre il primo fa riferimento alla competenza in più lingue del singolo parlante, che, oltre alla lingua madre, ne può conoscere altre, per bilinguismo “naturale” (dovuto all’uso di una lingua diversa da parte dei due genitori) o per apprendimento spontaneo, da mettere in rapporto al multilinguismo dell’ambiente in cui vive (si parla in questo caso di L2), o per studio guidato, a scuola. I due processi (il mantenimento di multilinguismo e la crescita del plurilinguismo) devono essere entrambi favoriti, ma non vanno confusi. Al riguardo, rimando ai fascicoli 58 e 59 del 2019 del periodico “La Crusca per voi”, dedicati appunto a queste tematiche.
La seconda questione verte sul tema, in Italia particolarmente avvertito, della distinzione tra lingue minoritarie e dialetti. Da quando, sulla base del dettato costituzionale, è entrata in vigore la legge n. 482 del 15 dicembre 1999 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 297 del 20 dicembre 1999), che ha censito le lingue delle minoranze storiche (e al tempo stesso proclamato l’italiano come lingua ufficiale della Repubblica italiana, indicazione che manca tuttora dalla Costituzione), anche molti dialetti hanno reclamato di essere riconosciuti come lingue minoritarie, tanto che alcune leggi regionali hanno sancito (o hanno provato a sancire) questo principio: in effetti, si sente parlare spesso di “lingua napoletana”, di “lingua piemontese”, di “lingua lombarda”, ecc., indicazioni che spesso fanno riferimento non a un dialetto locale ma a quella che è stata chiamata koinè regionale, che è certamente presente in certe zone (come il Veneto, in cui il dialetto veneziano funge da dialetto di koinè), ma non in altre. Va detto ancora che, accanto ai singoli dialetti d’Italia (tutti derivati dal latino e detti “dialetti primari”), esistono anche i cosiddetti “dialetti secondari” (dialetti dell’italiano, e non del latino), solitamente indicati come “italiani regionali”, che – a parte poche categorie professionali – sono normalmente parlati ogni giorno da tutti gli italiani (e anche dai cosiddetti “nuovi italiani”, figli di immigrati alloglotti che hanno appreso, come L2 e a volte perfino come lingua madre, l’italiano).
Ora, è indubbio che i dialetti vadano a tutti gli effetti considerati lingue sul piano strutturale (storicamente le lingue non sono altro che dialetti che si sono standardizzati e sono diventati, non sempre pacificamente, lingue comuni di interi Stati), ma è altrettanto innegabile che nella situazione italiana il rapporto tra i dialetti locali (spesso diversissimi tra loro e con variazioni anche all’interno delle stesse aree linguistiche a cui appartengono) e la lingua nazionale non è di bilinguismo, ma di diglossia, cioè con una differenziazione e una specializzazione di usi in rapporto alla situazione comunicativa e ad altre variabili. I dialetti, alcuni dei quali hanno mostrato una sorprendente vitalità, vanno certamente tutelati e preservati al pari delle lingue minoritarie, ma la loro possibile espansione negli usi ufficiali potrebbe mettere in crisi l’italiano, che, non dimentichiamolo, solo nel corso del Novecento è diventata madrelingua per la stragrande maggioranza degli italiani e il cui uso è già un po’ messo in crisi dall’espansione dell’inglese.
E vengo così alla terza questione: l’inglese sta togliendo spazi all’italiano (nelle Università, nei progetti di ricerca, nella comunicazione scientifica anche sul piano “intranazionale”), tanto più che l’Italia, diversamente da altri Paesi come la Francia e la Spagna, non ha una politica linguistica (forse anche per reazione a quella messa in atto dal Fascismo, che combatteva lingue straniere, lingue minoritarie, dialetti). Certo il “monolinguismo” della comunicazione internazionale basato sull’inglese presenta dei vantaggi, impedendo, per così dire, la confusione babelica. Ma – come ci ha ricordato in più occasioni l’accademica Maria Luisa Villa, che è una scienziata – c’è anche un’altra immagine biblica, stavolta neotestamentaria, da richiamare: quella della Pentecoste. Sarebbe auspicabile, infatti, che ci si possa far capire dagli altri continuando a parlare la propria lingua (come avvenne agli apostoli che poterono così, per opera dello Spirito Santo, diffondere il Vangelo), perché compresa anche da chi ci ascolta (e viceversa). Sono in effetti tuttora in vigore progetti che intendono facilitare l’intercomprensione tra gruppi di lingue affini per origine, come per esempio le lingue romanze. Ma l’avanzata dell’inglese sembra frenarli. Ho sentito affermare, in un convegno di qualche anno fa, che in passato danesi, svedesi e norvegesi cercavano di dialogare usando le proprie lingue nordiche, tra loro simili e quindi reciprocamente comprensibili, con poco sforzo; oggi preferiscono ricorrere all’inglese, che in quei Paesi come in altri ha sopravanzato l’apprendimento di altre lingue straniere.
Ci auguriamo davvero che la Giornata delle lingue stimoli una riflessione su questi e su tanti altri temi; che serva a far comprendere a tutti l’importanza dell’apprendimento di più lingue (che costituisce un vantaggio anche sul piano cognitivo); che metta l’accento sulla pax linguistica (e non solo linguistica!) che deve sussistere nelle tante realtà dei Paesi multilingui; infine, che qui da noi costituisca anche l’occasione per ribadire l’importanza della conoscenza dell’italiano (che Thomas Mann definì come “la lingua degli angeli”), di cui la scuola deve garantire a tutti, alla fine del percorso, il pieno possesso, scritto e orale, attivo e passivo.
[Nota: Il testo riproduce, con qualche adattamento, l’articolo Giornata delle lingue. Un’occasione per riflettere sull’invadenza dell’inglese, in "Toscana oggi", 25 settembre 2022, p. 21.]
L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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I nove commenti che ha avuto il mio tema del mese non muovono obiezioni alla mia analisi, ma la approfondiscono e la sviluppano con riflessioni sull’italiano, sull’inglese, sui dialetti. Alcuni commenti sono stringati, altri più lunghi; alcuni più oggettivi, basati su dati e documenti inoppugnabili, altri più soggettivi e impressionistici; alcuni sono totalmente sottoscrivibili, altri un po’ meno, ma sono comunque anch’essi interessanti. Ringrazio dunque di cuore tutti coloro che sono intervenuti. Non ritengo necessario entrare nel merito per indicare le affermazioni dalle quali dissento, anche perché quelle con cui concordo sono senz’altro maggioritarie. Né penso sia il caso di ribadire quanto ho già scritto nel mio intervento iniziale. Mi limiterò dunque a poche osservazioni conclusive. Da un lato mi pare di rilevare come oggi sia largamente avvertita l’esigenza di una politica linguistica, che in Italia, almeno da cinquant’anni, è totalmente mancata (diversamente da quanto avvenuto in Francia, in Spagna e in altri Paesi). Di certo l’obiettivo non dovrebbe essere quello di imporre un rigido prescrittivismo grammaticale, che sarebbe insensato (oltre che impossibile da realizzare) e che inevitabilmente potrebbe legarsi a tendenze ideologiche in grado di determinare tensioni e contrapposizioni. Una politica linguistica seria (anche per essere il più possibile condivisa) non dovrebbe limitarsi a contrastare l’invadenza (peraltro indubbia) dell’inglese, ma dovrebbe avere lo scopo di garantire una comunicazione chiara e comprensibile tra lo Stato e la cittadinanza, di assicurare l’acquisizione della nostra lingua a chi non la conosce, di favorirne e tutelarne la presenza sul piano internazionale, di combattere la dialettofonia assoluta, che si lega all’evasione dall’obbligo scolastico, con dannosissime ricadute sul piano sociale. Una politica linguistica seria dovrebbe proteggere anche i dialetti, specie quelli che stanno scomparendo, che costituiscono una ricchezza del nostro Paese. Quanto all’inglese, vorrei dire che la sua presenza è dovuta anche al fatto che, specie presso le ultime generazioni, la cultura angloamericana costituisce un punto di riferimento in molti settori (compresi quelli in cui non può vantare un particolare prestigio, come per esempio la cucina, in cui le parole inglesi sono sempre più frequenti). Bisognerebbe quindi che gli italiani trasferissero anche sul piano della lingua l’orgoglio, spesso inutilmente sbandierato, per le proprie tradizioni; che studiassero più a fondo la loro storia; che fossero in grado non di recepire passivamente quanto viene dall’estero (in particolare dalla civiltà angloamericana), ma di recepire tutti gli elementi positivi per poter andare oltre, innovando a loro volta. Il prestigio di una lingua, come quello della civiltà di cui è espressione, non si basa solo sull’esistenza di un passato glorioso, ma anche sulla capacità di vivere nel presente e di progettare il futuro.
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