Lingua di tutti, non di regime

Controllare gli usi linguistici, vietare i forestierismi, imporre dall’alto parole e costrutti: il Fascismo ci provò con determinazione, ma la storia ha confermato la vitalità e mobilità della lingua. Valeria Della Valle, curatrice di un documentario appena presentato a Venezia, racconta questo pezzo di storia. 

Settembre 2014

Valeria Della Valle (Università di Roma "La Sapienza")

 

In molti – nelle pagine dei giornali, nei siti e nella rete – invocano da anni una politica linguistica di difesa della lingua italiana. Si tratta di intenzioni in sé lodevoli, che dimostrano un attaccamento alla nostra lingua sentita come vincolo, come patrimonio nazionale. Di fronte a questa richiesta a più voci nascono dubbi, discussioni e polemiche. Per quanto mi riguarda, ho cercato di affrontare il problema da lontano, risalendo alla storia dell’unico esperimento attuato in Italia in tale direzione. Perché raccontare, oggi, attraverso un documentario (Me ne frego! Il Fascismo e la lingua italiana, Luce) quel tipo di politica e di provvedimenti? Prima di tutto, per far conoscere alle nuove generazioni un pezzo di storia meno noto, che rischia di essere dimenticato, divulgandolo attraverso le immagini e i filmati d’archivio che documentano quelle iniziative e quei decreti. Poi, per spiegare a chi chiede interventi dall’alto che la lingua italiana non può essere imposta, e che il suo andamento non può dipendere dalle decisioni di un’istituzione o di un’autorità.


Chi pretende che istituzioni come l’Accademia della Crusca si facciano carico di direttive linguistiche da impartire agli italiani non si rende conto che quest’operazione è impossibile e antistorica. Tutto il faticoso percorso compiuto dall’italiano per diventare lingua della nazione sta a dimostrare che la nostra lingua, come tutte le lingue, non è un organismo immobile, ma in movimento, che possiede una capacità di autoregolazione Sono certamente fastidiosi gli inutili forestierismi che caratterizzano lo scritto e il parlato degli italiani, ma questa tendenza diffusa non sarebbe in alcun modo modificata se ci fossero divieti o addirittura tasse sull’uso delle parole straniere, come durante il Fascismo. Del resto anche la lingua francese, pur difesa da una legge apposita (la legge Toubon del 1994) è “inquinata” dall’inglese: nelle strade di Parigi i nomi dei negozi e le pubblicità affisse ai muri parlano inglese, e il franglais è diffusissimo. Proprio la storia vissuta dagli italiani nel ventennio dovrebbe insegnare che la lingua non può essere imbrigliata o obbligata attraverso leggi o divieti. Che cosa ci insegna quell’esperienza? Delle battaglie linguistiche intraprese dal regime, l’unica che gli italiani più anziani ricordano ancora è quella combattuta contro il pronome lei, sostituito d’autorità nel 1938 con il tu o con il voi, considerato più “romano”: la campagna per il voi obbligatorio era stata condotta da alcuni giornalisti e intellettuali e soprattutto dal gerarca Achille Starace. Il lei come pronome allocutivo era bandito perché considerato «femmineo» e «straniero» (in realtà era una forma italianissima in uso fin dal ‘500). Gli italiani continuarono a usare, privatamente, il lei, e molti, pur di non passare al voi, scelsero di darsi del tu. Il pronome imposto era usato solo nelle occasioni ufficiali, nella stampa, nei libri di testo, nelle commedie, nei film italiani e in quelli doppiati, in cui era obbligatorio.


A distanza di quasi settant’anni dalla fine del fascismo ci si può chiedere che cosa sia rimasto del tentativo di politica linguistica orchestrato dal regime. Poco, quasi nulla. L’alfabetizzazione e l’unificazione linguistica degli italiani sono rimasti problemi drammatici da affrontare nel dopoguerra, risolti in parte solo con l’avvento della televisione e con l’aumento della scolarizzazione, che ha fatto diventare finalmente l’italiano “lingua di tutti”; le parole straniere non sono state certo debellate da decreti legge; le minoranze linguistiche hanno reagito con insofferenza ai provvedimenti di regime; i dialetti continuano a essere usati (per fortuna) come lingua degli affetti e delle origini familiari, nei film, nelle canzoni, nella poesia (ma non ha senso insegnarli a scuola, come purtroppo si fa in qualche centro del nord); il pronome lei ha ripreso il suo posto, e il voi è usato solo nell’italiano regionale del sud. Quale migliore dimostrazione dell’inutilità di provvedimenti protezionistici diramati da accademie o istituzioni culturali? Le accademie, le istituzioni non possono imporre ai cittadini come devono parlare: possono suggerire soluzioni, spiegare fenomeni, raccontare come una certa abitudine si è diffusa e perché un certo errore è tanto diffuso.


Se i dati statistici di cui disponiamo documentano una situazione pericolosa di crescente analfabetismo di ritorno, se un gran numero di italiani ha difficoltà a capire il significato di molte parole e a interpretare anche brani semplici, se a ogni concorso si verifica l’incapacità a scrivere in modo corretto di tanti laureati, la soluzione va cercata altrove: la lingua italiana non si tutela con provvedimenti legislativi o decreti, e tanto meno con consigli superiori, ma promuovendo la cultura e l’insegnamento dell’italiano nella scuola, con iniziative concrete di formazione e di aggiornamento degli insegnanti nel campo della linguistica italiana e delle scienze del linguaggio, e contrastando il monolinguismo anglofono nell’insegnamento delle discipline scientifiche nelle università. In quest’ultimo caso l’opposizione alla lingua inglese non è dovuta a spirito autarchico o a rigurgiti puristi, ma alla consapevolezza che la lingua italiana, privata dell’innovazione lessicale nei settori specialistici, si troverebbe a svolgere le funzioni di una lingua secondaria e non più vitale in campi importanti come quelli della scienza e della tecnica.
 

 

Valeria Della Valle è professoressa associata presso la Sapienza Università di Roma, nella quale insegna Linguistica italiana. Ha studiato vari aspetti dell’italiano: la lingua degli antichi documenti toscani, la storia dei dizionari, la prosa dei narratori contemporanei, la grammatica italiana, la terminologia dell'arte, i neologismi. Nell’ambito di questi interessi ha pubblicato saggi, articoli, libri. Con Luca Serianni e Giuseppe Patota ha pubblicato tre grammatiche per i licei. È la coordinatrice scientifica della terza edizione del Vocabolario Treccani (2008). Insieme a Giovanni Adamo, con il quale coordina l’Osservatorio neologico della lingua italiana (ILIESI-CNR), ha pubblicato Neologismi. Parole nuove dai giornali (Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2008). Con Giuseppe Patota ha pubblicato numerosi libri di divulgazione linguistica, tra i quali Viva il congiuntivo! (2009), Viva la grammatica! (2011) e, nel 2014, Piuttosto che. Le cose da non dire, gli errori da non fare e L'italiano in gioco. 1000 quiz per misurare la tua conoscenza della lingua. Fa parte del comitato scientifico del “Bollettino di italianistica”.

Antonio
28 ottobre 2014 - 00:00
Forse l'imposizione ex lege non sarebeb efficace, ma basterebbe iniziare con il diffondere a tutti i livelli la differenza tra comportamento colto ed ignorante, il primo accettabile negli ambienti lavorativi e pubblici, il secondo censurato come impoprio. la definizione dei due comportamenti linguistici è semplici, citazioni in lingue colte come latino e greco sono da ritenere arricchimento della lingua italiana, contaminazione come l'inglese sono sicuramente un abbrutimento ed una caduta culturale. poichè è la cultura che porta alla risoluzione dei problemi complessi (da ciò la superiorità degli italiani in ogni settore soprattutto i più complessi), dovrebbe essere spiegato sin dalle scuole elementari che la lingua è parte della cultura e come tale deve essere arricchita e non impoverita. questo insegno agli studenti e molti realizzano che "per capire a cosa serve il latino, PRIMa bisogna studiare il latino!"

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scresti_redattore
28 ottobre 2014 - 00:00
Intervento conclusivo di Valeria Della Valle Ringrazio tutti i partecipanti alla vivace discussione nata sul tema del mese (“Lingua di tutti, non di regime”) e ripeto che la migliore educazione linguistica è quella che si fa a scuola, dando allo studio della lingua italiana l’attenzione e lo spazio necessari. Ringrazio in particolare Ettore, Luca Piacentini, Massimiliano Poncina, Marko, Giovanna, Anna Maria Panico. Quanto agli interventi che esprimevano dissenso, ricordo a Paolo Milani (che ha rivolto al congiuntivo un addio garbato e spiritoso) che questo modo verbale tanto chiacchierato non è morto né in agonia. Non lo dico io; lo sostengono i nostri maggiori linguisti, sulla base dei dati e non di impressioni. Oggi il congiuntivo si adopera molto più di ieri in termini assoluti (perché il numero delle persone che parlano e scrivono in italiano è cresciuto enormemente), mentre si adopera un po’ di meno di ieri in termini relativi. Nel 2004 una giovane e brava studiosa, Maria Silvia Rati, ha pubblicato uno studio dedicato all’oscillazione tra indicativo e congiuntivo dal quale è risultato che nel Duecento e nel Trecento c’era tra indicativo e congiuntivo la stessa alternanza che si registra oggi, anche in scrittori autorevoli come Brunetto Latini, Dante e Boccaccio. A Marco, critico nei confronti della dizione insegnata ai bambini delle elementari, ricordo che la nostra pronuncia è condizionata dal luogo di nascita. Il modello basato sulla pronuncia colta di Firenze, esente da inflessioni dialettali, è insegnato solo nei corsi di dizione. Oggi le pronunce alternative sono tollerate, e le persone colte rivelano la loro provenienza senza doversene vergognare. Sono d’accordo con Paolo Pratelli, Giorgio Prosperi e Alfredo: hanno ragione nel consigliare ai giornalisti una consultazione più frequente del DOP. Non è vero, però, che l’Accademia della Crusca registra tutto senza prendere posizione e senza dare suggerimenti. A provarlo basta citare il prezioso servizio svolto da La Crusca risponde e il volume Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di N. Maraschio e D. De Martino. Quanto ai modi di dire gergali, mi limito a ricordare che fanno parte della nostra lingua. Già Luigi Pulci li registrava nel ‘400, e molte di quelle parole o espressioni sono ancora in uso. A Furio Detti replico che è giusto distinguere le iniziative “di più alto livello” del fascismo (per esempio, nel campo delle arti) da quelle negative nel campo dell’educazione. Nonostante il rilancio della scolarizzazione avviato da Mussolini, ricordo che Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice, che avevano progettato una riforma della scuola, furono rimossi dai loro incarichi nel 1925, e che ancora negli anni Quaranta l’Italia era un paese scolasticamente sottosviluppato. Mancano, purtroppo, i questionari dei censimenti sull’alfabetizzazione durante il fascismo, perché l’esistenza di analfabeti non era compatibile con la retorica di regime. Assicuro Pep che non volevo «lanciare il sasso e nascondere la mano», ma solo dire che insegnare i dialetti a scuola è impresa difficile e inutile. I dialetti si imparano da piccoli, in famiglia, giocando con i coetanei, e sono un patrimonio affettivo e espressivo da tener caro. A scuola deve essere studiato l’italiano, lingua nazionale indispensabile perché i cittadini e gli immigrati possano comunicare non solo tra loro ma anche con chi, proprio come Pep, non è italiano. Ad Adriano Santiemma, che per spiegare il prevalere dell’influenza dell’inglese su quella del francese ipotizza un condizionamento linguistico da parte dei mezzi di comunicazione di massa, ricordo che la diffusione mondiale dell’angloamericano è stata determinata da una composita serie di ragioni di natura storico-politica, economica e socioculturale. Santiemma, che frequentava la scuola negli anni in cui l’insegnamento dell’inglese sostituì in gran parte il francese, ricorderà che in quegli anni gli Stati Uniti non erano solo la potenza mondiale dominante economicamente, ma anche culturalmente, attraverso la musica, il cinema, la letteratura. Sono d’accordo con Renzo Zuccherini che critica l’abitudine alle intitolazioni solo inglesi di convegni in Italia; assicuro lui, (e con lui il lettore che si firma Anonimo, Maria Teresa, Vincenzo Merafina, Alberta Tedioli, Federico, Massimo e Antonio) che usare inutili termini stranieri per i quali disponiamo delle corrispondenti parole italiane è solo una forma di esterofilia provinciale, in genere praticata da chi conosce poco e male le altre lingue. Rassicuro Andrea: i costrutti della lingua italiana non spariranno. L’italiano si serve ancora, nella sostanza, della stessa grammatica e dello stesso lessico del fiorentino letterario del Trecento. Joanna scrive che a Carbonia il voi è ancora usato come pronome allocutivo di cortesia, al posto del lei. Suggerisco ai giovani che hanno questa abitudine regionale di percorrere un doppio binario: conservare questa forma negli scambi locali, ma impegnarsi a usare il lei in tutte le occasioni comunicative in cui è richiesto l’uso dell’italiano standard. Valeria Della Valle

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marco
27 ottobre 2014 - 00:00
per favore visitate le nostre scuole elementari nelle ore in cui si dovrebbe insegnare la lingua Italiana e vi accorgerete che i nostri bambini sono subissati da dizioni che non rappresentano la reale pronuncia delle parole . Ho un profondo rammarico che oggi mi pervade molto più di ieri , quello di non avere studiato come avrebbe voluto la mia "vecchia insegnante di italiano " . Scusate della mia intromissione in simile consesso .

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Paolo Pratelli
20 ottobre 2014 - 00:00
Ho l’impressione che da un po’ di tempo in qua l’Accademia della Crusca venga meno alla sua missione, rappresentata dal suo simbolo e dal motto del Petrarca: il frullone per cernere la farina dalla crusca e “il piú bel fior ne coglie” nella scelta delle parole. Mi sembra che l’Accademia della Crusca sia diventato un semplice notaio, che registra tutto senza prendere posizione; un vorace divoratore che ingurgita tutto quello che gli viene apparecchiato in tavola; si registrano tutti i lemmi e i modi di dire gergali, raccattati dalle periferie di Rona, o Milano dalla vita effimera; un tempo l’attesa era piú lunga e unn aparola nuova doveva essere coniata da uno scrittore, o averne il lasciapassare. In passato fu fatto un esperimento per salvare la lingua e non ebbe successo; ma basta un esprimento per desistere? Anche la ricerca delle sorgenti del Nilo, subí tanti insuccessi prima del ritrovamento. Non sempre si è fortunati come con la scoperta dell’America che andò bene alla prima! non dico che la lingua debba essere imposta, ma qualcosa deve essere fatta per evitare la deriva della nostra lingua, che in altre parole è l’espressione della nostra cultura. La Francia ha fatto qualcosa per proteggere la lingua, senza imposizioni draconiche, il problema non è risolto, ma le cose vanno molto meglio che in Italia. Che fare? Intanto gli organi ufficiali dello stato: parlamento, RAI, uffici pubblici, devono far uso della lingua Italiana: basta con le spending reviews, i Job act, Ministero del wellfare, che mi sanno tanto di provincialismo intellettaule, non devono farci vedere come parlano bene l’inglese, ché per quello avranno altri momenti ed altre sedi per dimostrarlo; ma, abbianno rispetto per i cittadini italiani, di tutte le condizioni che pagano le tasse e vogliono capire. La televisione ha dimostrato d’essere un mezzo di diffusione della lingua: che i dicitori e giornalisti faccano uso di un buon italiano e che abbiano una buona pronuncia con i giusti accenti. Al telegiornale non si sente piú un accento giusto e non entraimo nel merito del congiuntivo; ma come vengono reclutati i giornalisti? Eppure hanno a disposizione il DOP, edito dalla RAI, che mostra la corretta pronuncia. Si raccomandi ai direttori dei giornali e delle televisioni private, solo raccomandare per caritá, d’usare un italiano corretto, sempre per rispetto ai cittadini a cui si rivolgono. Infine, non scoraggiamoci, ché la tecnologia ci salverá; fra non molto avremo a disposizione due piccoli auricolari ed una scatolina al collo, imposteremo la lingua di ricezione e quella d’emissione e il gioco sará fatto. Cordiali saluti, Paolo Pratelli

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giorgio prosperi
21 ottobre 2014 - 00:00
Buon giorno a lei Sig. Pratelli, mi permetto di aggiungere qualcosa alla sua,peraltro esauriente lettera. Quello che mi indispettisce di più,nello sconsiderato uso della nostra lingua da parte di chi dovrebbe esserne il maggior curatore e divulgatore (politici,giornalisti,presentatori ecc.) è il più assoluto disprezzo per pronuncia e grammatica. Siamo ormai ridotti ad avere soltanto 3 vocali (la E e la O vengono troppo spesso pronunciate A) Quando sono andato io al liceo,il professore di lettere ci insegnava che ,quando ci sono , ausiliare-servile e verbo,per sapere se usare l'ausiliare essere od avere,si toglieva il servile e si declinava il verbo al participio passato. Ora ,o non si conosce la gammatica o l'ignoranza non fa più avere dubbi. Qui mi fermo per pietà (della nostra lingua) Giorgio prosperi PS.penso che l'accademia dovrebbe fare qualcosa.
Paolo Milani
20 ottobre 2014 - 00:00
Solo un saluto al congiuntivo,in occasione degli stati generali della lingua italiana. Ti saluto o congiuntivo, Vecchio amico della scuola: Di te il lessico e' ormai privo E la lingua corre e vola, Ma si evolve? Ora sei fuori E conviene che tu "muori".

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Furio Detti
12 ottobre 2014 - 00:00
La professoressa a mio avviso commette un errore piuttosto grossolano, poco perdonabile in uno storico e linguista: quello di confondere la propaganda culturale fascista del MinCulPop con le iniziative di alto livello promosse dal Fascismo. Ossia ammucchia, appiattisce, semplifica sotto una lente deformante aneddoti, politiche culturali, politiche di propaganda, politiche dell'istruzione (che era in parte diversa dalla "promozione culturale", come del resto adesso...) dimenticando che - come tutti i governi - anche quello fascista godeva di più livelli di azione e affidava di volta in volta a personaggi diversi (e diversamente qualificati) le proprie iniziative, spesso anche contraddittorie. Esattamente come l'abbaglio che ci fa pensare - nella tipografia - il gotico fraktur come sinonimo di "nazista" mentre in realtà il Nazismo in Germania ebbe sulla politica tipografica ufficiale - per citare un ambito specialistico, figurarsi il mare Oceano della Kultur - un atteggiamento ondivago che privilegiava ora l'approccio filo-fraktur ora l'approccio classicista o persino modernista. Insomma, per citare a uopo: "Non si può fare di tutta l'erba un fascio". Detto questo, se è vero che leggi e decreti non imbrigliano la lingua, la nostra Della Valle dimentica (o finge di dimenticare) che l'intervento di uno Stato può fare molto per "mostrare di tenerci" a qualcosa e per conferire prestigio a ciò che conta - o dovrebbe contare per la nazione. Non si tratta di un tentativo di fermare la lingua viva ma di mostrare a essa che esiste anche un nucleo forte da tramandare senza abusare in contaminazioni. Un esempio di colpevole omissione, fra i troppi tristi esempi, è stata la recente resa di fronte a Durmwalder e alla provincia autonoma di Bolzano sulla toponomastica nella segnaletica altoatesina - alla faccia del povero Ettore Tolomei - per elencare una delle molte colpe di questa Repubblica così debole e fiacca nel conservare alla propria lingua un ruolo guida e non il bikini di un simpatico idioma da spaghetteria e "pizzammore". E senza che la brava accademia italiana abbia sprecato una bava per impedire tutto ciò. O valga la pena ricordare ancora certi eroi cari alla cultura accademica - il Rutelli di "Pliz visit Italy"... o il Renzi che pur di accattivarsi le simpatie del padrone statunitense biascica un anglomaccheronico da paura. Sembra ironico ma non lo è affatto notare che il più capace di contaminare italiano e inglese con altissimi livelli è stato proprio quel Pound nei suoi Cantos, mostrando la forza delle lingue vive e delle loro tradizioni in una contaminazione altissima; proprio quel Pound che del Fascismo aveva ben altra opinione, e ben altra lente, rispetto alla nostra professoressa. E si capisce adesso bene perché.

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michele cugusi
16 ottobre 2014 - 00:00
Il suo commento - più che entrare nel merito del discorso - mi sembra una difesa a priori e fuori luogo di un regime che per fortuna è stato spazzato via. Se ne faccia una ragione.
Pep
11 ottobre 2014 - 00:00
Non sono italiano, scusate gli errori... "non ha senso insegnarli a scuola [i dialetti], come purtroppo si fa in qualche centro del nord" per che no? Senza ulteriori argomentazioni, questa frase è un po`come lanciare il sasso e nascondere la mano. i cosidetti "dialetti" appartengono a sistemi linguistici: Piemontese o Ligure ad esempio. Sono lingue e, come ha detto Marko (anche se non so se lui intendeva pure i "dialetti"): "Tutte le lingue sono belle e sono articolate". Del resto, sono d´accordo con l´articolo ed alcuni dei commenti. Ed ancora di più dopo avere sentito in una TV italiana una frase come questa: "con questi slides vediamo che la mission di tutto il team è di essere presti al salvage ad ogni emergency "

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Adriano Santiemma
08 ottobre 2014 - 00:00
Ad un ampio numero di italiani potrebbe risultare difficile comprendere l’opportunità di alimentare il dibattito su un argomento non considerato, probabilmente, di primaria importanza; in special modo nel difficile momento che sta attraversando il nostro Paese. Tale ipotesi, per di più, è suffragata dal fatto che in questa Italia dei campanili e delle leghe non si è vigilato con particolare scrupolo, nel complesso, sullo stato di salute della lingua nazionale; come lei ha ben posto in evidenza. Per parte mia, al contrario, ritengo che il dibattito in questione possa rivelarsi non solo proficuo di per sé ma persino in grado, forse, di fornire elementi e considerazioni utili alla rimozione di problemi in qualche modo più importanti e decisivi; quali quelli che ancora ostacolano a mio avviso il sereno cammino della nostra nazione verso una dimensione compiutamente civica e democratica. Prevalentemente, è questa la ragione che mi ha indotto a prender parte al dibattito da lei suscitato. Condivido pienamente – da storico ed antropologo quale sono – le sue affermazioni relative alla sostanziale mobilità del linguaggio ed alla sua capacità intrinseca di autoregolarsi in risposta alle sollecitazioni di più varia provenienza; così come condivido il fastidio e l’avversione per qualsiasi tentativo di una sua regolamentazione non solo autoritaria – come quella fascista, da lei ricordata – ma anche, più genericamente, d’autorità: che senso avrebbe, infatti, affidare ad istituzioni di indubbia competenza ed autorevolezza l’immane compito di delineare, sia pure per grandi linee modalità e criteri di liceità per l’acquisizione di termini ed espressioni stranieri? Diversamente da lei, tuttavia, questi miei orientamenti convivono con un dubbio: possibile mai che l’intrusivo, ampio dilagare attuale di anglicismi sia da attribuire principalmente alla naturale mobilità della nostra lingua? Possibile che non sia ravvisabile una qualche responsabilità di talune autorità o istituzioni, come origine e sprone di un simile dilagare? In sostanza, mi è difficile sfuggire alla tentazione (assolutamente non “dietrologica”, mi creda) di ipotizzare, al riguardo, l’attività di una autorità d’altro genere, non più certo dittatoriale, che persegua tra l’altro anche fini di politica linguistica. Sarò più schietto: ritengo possibile convertire il dubbio in convinzione; anche grazie alla classe anagrafica a cui appartengo. Classe che mi ha consentito di sperimentare personalmente la fine subitanea dell’egemonia del francese come lingua straniera nella scuola italiana ed il contestuale assurgere dell’inglese al medesimo ruolo. Nel corso della mia infanzia, infatti, l’insegnamento dell’inglese prevalse di gran lunga in un breve arco di tempo, relegando quello della lingua concorrente in sparute nicchie “elitarie”; e molti dei gallicismi all’epoca diffusi si convertirono ex abrupto in anglicismi; talvolta grazie ad un semplice spostamento di accento tonico (festivàl / fèstival, Canadà / Cànada, crème caramèl / crème càramel, ecc.). La diffusione e la pluralità degli ambiti in cui tale processo si è repentinamente compiuto mi consente di sottrarlo agevolmente ai tempi (lenti) ed ai meccanismi di autoregolazione del linguaggio e di attribuirlo, più verosimilmente, ad una chiara ed evidente scelta di politica linguistica, sicuramente non in contrasto con le condizioni politiche e culturali dell’immediato secondo dopoguerra. Una scelta certo non esaltata ideologicamente come quella operata nel corso del fascismo, ma affidata in modo molto più discreto ed efficace alla sempre crescente pletora dei mezzi di comunicazione di massa. Una scelta politica, in sostanza, subito convertitasi in una sorta di “scelta editoriale” liberamente assunta e condivisa da radio, carta stampata e televisioni. Insomma, se nel caso di un regime totalitario è possibile far ricadere la responsabilità di una tale scelta “editoriale” sulla persona del dittatore, nel caso di un regime democratico questa scelta è talmente impercettibile da apparire estranea alla sfera umana: politica, nella fattispecie; e, di conseguenza, la responsabilità delle modificazioni intervenute finisce per esser fatta ricadere sulla sfera naturale: linguistica, nella fattispecie. In conclusione, mi è di conforto pensare che ad un ampio numero di italiani possa apparire opportuno, al fine di superare definitivamente entrambe le condizioni politiche deresponsabilizzanti appena indicate, accogliere fattivamente quanto la sensibilità democratica deideologizzata di fine millennio suggerisce come possibile alternativa concreta: quella di una sempre maggiore assunzione di responsabilità da parte dei cittadini, la cui volontà maggioritaria – non valutata in base alle scelte etiche, ideologiche o religiose che la determinano – sia fondamento prevalente di ogni decisione codificata dall’ambito politico; nel bene e nel male. Adriano Santiemma

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Renzo Zuccherini
02 ottobre 2014 - 00:00
Non s i può dire che, siccome la politica linguistica del fascismo era sbagliata, noi possiamo continuare a fare a meno di una politica linguistica: che, necessariamente, non può essere di "difesa" dell'italiano, ma di suo potenziamento e diffusione. In questo campo, la parte giusta della politica linguistica del fascismo è stata la traduzione, cioè la proposta di termini italiani per indicare concetti provenienti dall'inglese o altre lingue. Questa scelta ha arricchito l'italiano di parole come autista, portiere, ecc., che restano nel nostro vocabolario. Una politica di potenziamento dell'italiano significa anche sostenerne l'uso nei consessi internazionali, in ambito scientifico ecc. Fa un effetto penoso vedere che autorevoli convegni o incontri internazionali, tenuti in Italia, abbiano intitolazioni solo in inglese, senza una presenza dell'italiano; è una cosa che succede solo in Italia.

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Ettore
15 settembre 2014 - 00:00
I latini usavano parole greche. Noi l'altro ieri latine. Ieri francesi. Oggi inglesi. La lingua non è fissa, immobile altrimenti muore. La lingua è una cosa viva. Viva la lingua.

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Anonimo
16 settembre 2014 - 00:00
la lingua non è una "cosa".É la palestra del nostro cervello. Se non impariamo a discernere le parole che usiamo non potremo arrivare ad affinare il nostro intelletto e svilupparne le sue capacità. Quando in un corso di scrittura creativa si parla di "workshop" invece di seminario, usando quell'orrenda parola che significa letterarmente "bottega di lavoro" solo per mostrarsi alla moda, mi vengono i brividi
Alfredo
12 settembre 2014 - 00:00
ritengo che quello scellerato di Mussolini, nel difendere la lingua italiana, avesse ragione. Ritengo altresi che sia un grave errore pensare che una qualsiasi cosa sia giusta ho sbagliata, solo in ragione di chi l'avrebbe detta. Il colore verde e' verde, sia che lo dica il Papà o Marx o Mussolini! Ma mi chiedo, se l'Accademia della crusca esiste ancora, cosa ci sta a fare, visto il pauroso inquinamento della linga italiana? Se non siamo noi i primi a difendere la nostra lingua, come possiamo pretendere che lo facciano gli altri? E' così che siamo arrivati ad avere, per tecnologie ed altro, le istruzioni in tutte le lingue, italiano escluso! Si dovrebbe vietare l'importazione in Italia di qualunque cosa priva di istruzioni in italiano, se non altro, per motivi di sicurezza. Cara "Accademia della Crusca", se esisti ancora, svegliati

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marko
11 settembre 2014 - 00:00
°la nostra è la lingua più bella e articolata del pianeta!° Tipico commento di non parla altre lingue e quindi non sa quello che dice e scrive... Si informi, Sir Vincenzo Merafina!

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Luca Piacentini
11 settembre 2014 - 00:00
La bellezza di questo articolo crea in me grande curiosità nei confronti del documentario presentato a Venezia. Pochi nel corso degli ultimi decenni sono stati i contributi riguardanti la politica linguistica del fascismo (il classicissimo volume di Gabriella Klein e i preziosi contributi di Raffaelli Sergio e poi Alberto) a testimonianza di uno scarso interesse su una pagina linguistica che può, a mio modesto parere, essere ritenuta un unicum nella storia linguistica italiana. Il tentativo di indirizzare la lingua in una determinata direzione cozza inevitabilmente con le lezioni del maestro F. De Saussure (faccio riferimento ai concetti di massa parlante ed evoluzione linguistica), ma non per questo il ventennio autarchico merita il silenzio in cui è affondato negli ultimi decenni. Arrigo Castellani si chiedeva se fosse mai stata eseguita un'analisi statistica e analitica degli esiti della campagna anti-forestierismi condotta dall'Accademia d'Italia e quindi dal regime. Fino ad oggi non molte risposte sono arrivate al quesito avanzato da Castellani e forse questo documentario potrà tentare una prima disamina scientifica dell'argomento.

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Anonimo
10 settembre 2014 - 00:00
Sono d'accordo con alcuni degli interventi. Certo che è antistorico imporre per legge il divieto di parole straniere ma sarebbe auspicabile che membri del governo si astenessero da inglesismi vari (jobs act, spending review ecc.) e i maggiori organi di informazione adottassero una specie di codice di comportamento sia a salvaguardia della lingua italiana che anche all'uso a volte errato degli inglesismi. Mi si accapona la pelle quando il 90% dei giornalisti televisivi pronuncia summit all'inglese (sammit) e non lo dice papale papale in latino (sUmmit)!!!!

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alberta tedioli
10 settembre 2014 - 00:00
spesso le locuzioni inglesi servono per imbrogliare il significato reale essendo più affascinanti come job act ecc, è divertente scrivere queste parole come si pronunciano tipo spendingvreviu giobact. Le parole si offrono nude ai creativi per essere cucinate e trasformate. il peggior uso della parola è quello che si fa per ingannare

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Vincenzo Merafina
10 settembre 2014 - 00:00
Ma la lingua deve essere rispettata per quella che è, la nostra è la lingua più bella e articolata del pianeta! Perché ucciderla con neologismi derivanti dall'inglese o dall'americano? Dovremmo preservarla e mantenerla bella così com'è.

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marko
11 settembre 2014 - 00:00
Tutte le lingue sono belle e sono articolate. Ogni lingua ha la propria natura, struttura e bellezza. Non esiste un'unica bellezza, ma esistono tante bellezze. Si prenda, ad esempio, una grammatica di lingua tedesca e l'immersione nella precisione, nel dettaglio e nel rigore e' garantita, ma sopratutto, si informi. Cordialmente
Anonimo
10 settembre 2014 - 00:00
Oggi i termini inglesi, ieri le frasi in latino! E' una moda o una esigenza, oppure dimostrare di appartenere a oligarchie ? Come scrive Juanna anche in Sicilia il secolo scorso ci si rivolgeva al padre con il "Voi" ...non certamente fascista

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massimiliano poncina
10 settembre 2014 - 00:00
Concordo sostanzialmente con il pensiero della Professoressa, soprattutto sul concetto che la lingua italiana sia un organismo mobile e destinato a modificarsi nel tempo. Questo è ineludibile. Ci provò il fascismo a italianizzare i forestierismi e fallì. E tuttavia, per fare un esempio, il termine Topolino rappresenta sicuramente una innovazione linguistica e non un semplice irrigidita traduzione dell'idioma americano. Vi pregherei inoltre di considerare l'acceso dibattito sulla lingua e sulla cultura (e quindi anche sulla libertà) che sorse durante il ventennio entro quel gruppo di intellettuali che aderirono al cosiddetto "fascismo di sinistra" promosso dallo stesso Bottai. Intellettuali che poi entrarono in clandestinità e presero la tessera del partito comunista. Tra questi vi fu lo stesso Pasolini. Credo che gli intellettuali di oggi debbano riconsiderare con mente più serena e aperta quel periodo che non va sterilmente e univocamente "inquadrato" entro il becero staracismo. Anzi. E proprio oggi è fondamentale opporre una strenua lotta sia contro l'analfabetismo di ritorno, ma anche contro quello di andata. Contro l'analfabetismo dei diritti politici e civili, anche.

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mariateresa
10 settembre 2014 - 00:00
Però usare l ' inglese per indicare situazioni o cose che potrebbero avere un nome italiano comprensibilissimo è troppo

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Andrea
09 settembre 2014 - 00:00
D'accordo con il pensiero di fondo solo in parte. È sotto gli occhi di tutti il novero di tecnicismi anglofoni utilizzati ormai in ogni ambito tecnico scientifico. È pensiero di pochi però tutelare la bellezza della lingua italiana. Secondo me, si sta smarrendo il culto delle parole, la curiosità di impararne di nuove a causa di una realtà protesa sempre più alla immediatezza, alla pigrizia. Oggigiorno fa successo ciò che è più immediato, non dimentichiamo che il telefono più famoso al mondo ha un solo tasto e si chiama Io-telefono, iPhone. II costrutti della lingua italiana spariranno in favore di inglesismi più rapidi e intuitivi. Nonostante tutto, la storia ci sta insegnando che le sinergie fra più Stati, aziende o persone che siano, sono in grado di far di più rispetto ad un singolo soggetto. Per questo non è trascurabile l'ipotesi di un'unificazione linguistica al pari di quella già in atto monetaria. Chissà, un'Europa che parla la stessa lingua...

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Antonio L
09 settembre 2014 - 00:00
Anche io sono solo d’accordo in parte. E’ vero che le istituzioni non possono imporre al signor Rossi di dire ‘pettegolezzo’ anziché’ ‘gossip’. E’ pure vero però che se il signor Rossi sente continuamente questa pressione ad usare termini anglo-americani in quanto più ‘corretti / moderni / alla moda‘ degli equivalenti italiani. Questo gli viene non solo dai media ma persino dal governo dove ormai alcuni ministeri hanno un nome inglese (welfare), dove i nostri politici fanno a gara a chi usa l’ultimo termine sentito sulla CNN o durante una sessione a Bruxelles da un collega anglofono. Mi sembra ovvio che se il signor Rossi sente tante parole inglesi sia dalle istituzioni che dai media, si senta quasi il dovere di fare lo stesso magari pronunciandole male e non sapendo esattamente cosa indichino. La loi Toubon, come simili leggi esistenti nei paesi di lingua spagnola e portoghese, non impone al signor Dupont di dire ad un suo amico courriel anziché’ email, ma gli permette di scegliere. Gli fa capire che in francese c’è una parola adatta ad ogni situazione, che il francese non è antiquato o inferiore all’inglese, ma alla pari. Alla fine il signor Dupont sceglie lui quale termine usare (eccetto a livello istituzionale). In Italia non è cosi in quanto non esiste una politica linguistica seria, spesso non esistono ‘alternative’ alle parole inglesi o se esistono non sono conosciute. Un organo governativo che offra questo ‘servizio’ e che garantisca che le istituzioni e i media ufficiali diano la preferenza all’italiano laddove il termine italiano esista (o sia un neologismo) permetterebbe anche al signor Rossi di poter scegliere i termini che usa e di non sentirsi come un cittadino di serie B perché’ non sa cosa sia un selfie. La lingua della Repubblica è l’italiano e chi parla a nome di essa deve esprimersi in italiano (lingua di tutti). Soprattutto bisognerebbe finirla con quest’idea che chi ama l’Italia è fascista (io sono esattamente l’opposto) e quindi le sue idee vanno rifiutate. L’Italia e l’italiano sono di tutti noi dal Sud and Nord passando per tutti noi che viviamo nelle comunità fuori dal confine nazionale.

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Anna Maria Panico
09 settembre 2014 - 00:00
Condivido l'articolo e sono contenta che si dica a chiare lettere che la lingua italiana debba essere studiata seriamente nelle scuole.L'obbligatorietà del ciclo scolastico ha significato per molti una falsa apertura ed un abbassamento notevole delle conoscenze di base.Non di rado ho visto insegnanti che hanno ignorato volutamente "le premesse ministeriali ai programmi" ,considerandoli opzionali e non obbligatori.Hanno con superficialità e arroganza privato "le masse"di quelle necessarie conoscenze,che sono alla base di una vera padronanza linguistica.In nome di una più grande apertura ,siamo andati incontro ad una chiusura terrificante.Assistiamo ad un numero sempre minore di ore ,dedicate all'Italiano,sono diventate in alcuni corsi delle medie superiori uguali a quelle delle lingue straniere.Mi fa male veder "scimmiottare " alcuni docenti sull'inutilità della grammatica e sottolineare l'importanza della conoscenza delle lingue,in particolare dell'inglese,plaudendo a chi insegna la sua disciplina in tale lingua.Resto senza parole.Ma cosa siamo diventati una colonia inglese?.Mi va bene la conoscenza delle lingue,ma ,penso,si debba prima di tutto dar precedenza al proprio idioma ,impegnandosi a diffonderlo in modo adeguato e completo e ritornando al"vecchio" e classico tema d'Italiano , correggendolo alla presenza dell'alunno,perché si renda conto degli errori.Vengano anche altre tipologie di prove di scrittura,ma facciamo fare prima ciò che può risultare più immediato.Si è abbandonato del tutto in alcune scuole l'abitudine di far fare riassunti scritti,con la scusa che non c'è tempo per correggerli.Mi va bene l'apertura per la conoscenza a 360°,ma questo non a discapito della nostra identità.I finanziamenti vadano per migliora il nostro patrimonio e non a depauperarlo ,in nome di una pseudo apertura che ci sta portando sempre più in basso in ogni settore.Penso che al "fumo" bisogna sostituire la sostanza e che non si può relegare a "cenerentola "una lingua che ha bisogno solo di essere "presentata" in modo più moderno e adeguato.Non apprezzo quelle strutture Italiane,finanziate da risorse italiane che preferiscono impartire le conoscenze in una lingua straniera,come se la propria lingua non avesse più niente da dire e da dare.C'è la possibilità di studiare all'estero,vadano pure,ma...........preferire l'inglese all'italiano in alcune discipline scientifiche ci fa capire come ci si sente nei confronti di alcuni stati.Sarebbe ora di smetterla ! I nostri politici dovrebbero amare di più l'italiano ed evitare di confonderci con "catastrofici" termini inglesi,che hanno il solo scopo di impaurirci e rimpicciolirci.La loro" grandezza" non si vede con lo "sfoggiare" ogni tanto qualche parola straniera.Imparino ad utilizzare un po' la terminologia latina,molto più chiara e profonda.Abbiamo un tesoro e non lo sfruttiamo.Anna Maria Panico

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MASSIMO
09 settembre 2014 - 00:00
Sono in gran parte d'accordo com il pensiero della professoressa Della Valle. Resto contrario all'uso "governativo" di alcuni termini generalmente Inglesi specialmente se il loro significato è di difficile comprensione per la maggior parte degli stessi addetti ai valori e, quindi, per il popolo. Mi riferisco specificamente a termini come Welfare o Spending Revue. Per di più, trovo che l'uso di questi due termini sia volutamente fuorviante nei confronti del pubblico. Una cosa è parlare di un Ministero del Welfare, altro sarebbe un Ministero del BENESSERE. Nel secondo caso, a molti verrebbe a ragione di chiedersi: benessere di chi? E a chiederne conto. Qualcosa di simile avviene con il termine Spending Revue. Si comprende facilmente che il ricorso al termine CONTROLLO SULLA SPESA PUBBLICA sarebbe molto più impegnativo, nei confronti del pubblico, da parte di chi se ne facesse carico.Concludo ricordando il termine di origine Francese Stage come sostituto del termine Italiano Apprendistato. Ancora molti lo pronunciano alla maniera Inglese senza sapere che, così facendo, gli attribuiscono un significato completamente diverso (Palco Scenico).

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Anonimo
09 settembre 2014 - 00:00
Gentile Valeria, dovrebbe (Lei :) venire a Carbonia per 'sentire' quanto il voi ancora sia usato da tutti, con mio grande stupore, e non creda che sia un refuso linguistico del sardo che sì imponeva il Voi quale pronome di cortesia e ancora lo pretende, io stessa mi sentii a disagio nel dare del 'tu' a mio padre quando con lui parlavo in italiano. Saluti Juanna

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Giovanna
09 settembre 2014 - 00:00
Insegnante di Italiano nel Liceo della mia città, innamorata della nostra lingua, cerco di trasmettere ai miei ragazzi e alle mie ragazze il valore intrinseco di uno strumento che riesce ad esprimere ogni sfumatura di senso, affascinando il lettore o l'ascoltatore. Condivido in pieno l'esigenza di un costante aggiornamento per noi docenti ed auspico che si possano istituire dei corsi magari in collaborazione proprio con gli Accademici della Crusca. Io ne sarei particolarmente interessata e gratificata.

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federico
09 settembre 2014 - 00:00
La lingua italiana non dovrebbe essere difesa per legge ma in nome di una consapevolezza della sua importanza storica e della sua innegabile completezza. Detto questo ogni lingua viva subisce nel tempo modifiche e "contaminazioni" ma non per questo deve cedere il passo a mode temporanee che ne inquinino la purezza. Non credo che vi siano termini "stranieri" che non abbiano un corrispondente altrettanto vitale in italiano e quindi non vedo la necessità di utilizzarli. Tutto il mondo riconosce la musicalità e la difficoltà della nostra lingua e non credo che questo debba essere sottovalutato in nome di una globalizzazione (leggi appiattimento) che predilige termini meno colti o comunque precisi. Lungi da giustificare il parossismo fascista che italianizzava tutto, credo che la difesa della nostra lingua e soprattutto della grammatica sia necessario se non doveroso.

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