Come è cambiato l'italiano della politica negli ultimi anni? Vittorio Coletti apre una discussione sulle caratteristiche della lingua del potere e sul suo rapporto con la lingua quotidiana.
Settembre 2013
Vittorio Coletti (Università di Genova, Accademia della Crusca)
Sono molti a sostenere che in Italia il linguaggio politico è molto cambiato. E non a torto. Se in passato la lingua della politica suonava astrusa o troppo compassata o così settoriale da permettersi di infrangere le regole della geometria con le celebri “convergenze parallele”, oggi rumoreggia volgare e schietta, diretta e approssimativa. Prima si cercava di parlare in pubblico meglio di come si mangiava, oggi ci si vanta di parlare come si mangia (col sottinteso che si mangia male). Si è passati da una lingua colta, forte ed esclusiva, a una lingua popolaresca, debole ed inclusiva. Giuseppe Antonelli ha ben sintetizzato questa evoluzione dicendo che si è passati dal “paradigma della superiorità” a quello del “rispecchiamento”, abbassando il livello stilistico del discorso politico a quello medio-basso della lingua quotidiana. Indizio vistoso di queste novità la consuetudine di nominare i leader col nome proprio (Silvio, Beppe, Matteo...), segno equivoco di familiarità e devozione, di vicinanza e sudditanza. Questo cambiamento è andato in parallelo con l'affermazione di una comunicazione politica più orale che scritta. In precedenza, era “scritto” anche il discorso in pubblico (spesso letto); oggi è “parlato” anche un testo scritto (e magari letto di nascosto su un “gobbo” invisibile allo spettatore). Del resto, sono cambiati anche i formati comunicativi e dalla lunga orazione solista dei comizi si è passati al concitato diverbio a più voci dei talk show.
Il mutamento si osserva sia nel lessico (con ospitalità anche a parole basse, scatologiche, volgari) che nella sintassi (con prevalenza di costrutti semplificati, frasi nucleari, paratassi spinta nei testi più meditati oppure di periodare ipertrofico e inconcluso, disordinato e sempre riformulato in quelli improvvisati). Molti osservatori, come Gustavo Zagrebelsky (Sulla lingua del tempo presente, Torino 2010), hanno segnalato anche il mutamento di significato di certe parole o l'introduzione di parole nuove, perlomeno di nuovo significato.
Per esempio, l'”amore”, di cui si è fatto di recente grande sfoggio (“L'Italia è il Paese che amo”, “amo ancora questo Paese”), è una parola sconosciuta al vecchio linguaggio politico, che parlava preferibilmente di “solidarietà” o di altre virtù sociali. E al posto della novecentesca e ideologica “lotta di classe” è stata riesumata l'ottocentesca “invidia sociale”, che bolla la protesta col giudizio negativo che merita un sentimento basso e casereccio come l'invidia. Sono cambiati anche gli indici di frequenza e “libertà” (da regole, “lacci e laccioli”) è parola più usata di “giustizia”, in precedenza forte soprattutto in unione con l'aggettivo “sociale”. Certe parole come “nuovo” hanno semplicemente cambiato area politica e dopo essere state per decenni sventolate dalla sinistra (il mito del “cambiamento”, delle “riforme”) sono passate (o tornate, è forse il caso di dire pensando alla storia politica del secolo scorso quando l'innovazione linguistica era stata massima nel futurismo guerrafondaio) a destra.
Una singolare trasformazione ha coinvolto anche la sfera dello “stato” e della cosa pubblica, con una prevalenza dei contorni negativi (“il peso, il costo dello stato”) su quelli positivi (“servizio pubblico”). Si sono moltiplicati i modi per dileggiare la “vecchia” politica organizzata (“teatrino della politica”, il “dire” contro il “fare”) ed esaltare quella diretta, realizzata con l'affidamento della guida a un leader indiscusso e padronale. Ne è seguita l' accusa di “(neo) populismo” o anche di “peronismo” (dal nome del popolare e dispotico leader argentino J. Perón). Si è cercato di alleggerire e rendere gradevole la lingua facendo ricorso a termini e immagini dello sport (“discesa in campo”, “fare squadra”, “Forza Italia”, “il governo non farà da punching ball”) o dell'informatica (“fare sistema”, “fare rete”) o a espressioni giovanilistiche (“li asfaltiamo” per dire che si vinceranno le elezioni, “Silvio è al game over”, “partito cool”).
La lingua della politica non ha cessato di inventare o riesumare o rinnovare parole, come è successo con “ribaltone”, “inciucio”, “larghe intese”, “agibilità politica”; sono parole nuove (“esodati”, “pentastellati”) o adattate a nuovi usi specialmente metaforici (“staccare la spina al governo”, “mettere dei paletti”), con cui ribadisce la sua comprovata attitudine neologica (“IMU”, “TARES”, “patto di stabilità”, “governo di scopo”), specie a livello semantico (“falchi” e “colombe”, “pitonesse”, “rottamazione”). Per altro, si è mostrata sempre più dipendente da altri linguaggi, quello dell'economia (“PIL”, “spread”, “deficit”, “derivati”...) e soprattutto quello giornalistico (“il governo galleggia”, “Letta-bis”, “crisi al buio”), al quale deve persino la tecnicizzazione di pseudolatinismi ironici come “Mattarellum” e “Porcellum” (per indicare il sistema elettorale precedente e quello ora in vigore). Se nel suo livello più informale e diretto ha riammesso i dialetti e gli italiani regionali (“vaiassa”, “gabina”) o i gerghi giovanili (“Bersani spompo”), in quello più colto e formale la lingua politica ha abbondato in forestierismi, dal celebre “I care” alla “moral suasion” dal “question time” alla “spending review”, mostrandosi poco rispettosa dell'italiano perfino nelle sedi più istituzionali.
Complessivamente, il potere più forte (o uno dei più forti) appare linguisticamente debole, con più debiti (da altri settori, giornalismo soprattutto) che crediti (con la lingua comune); rivela una certa fragilità sintattica e un profilo lessicale più basso che in passato. Ma non è neppure del tutto afono e qualche volta riesce ancora a proporre e imporre un modello linguistico. Purtroppo non sempre civile (il Vaffaday).
Date queste premesse, non sorprende l'interesse dei linguisti per il recente linguaggio politico, attestato da numerosi studi, come quello citato di R. Antonelli (negli atti del convegno Italiano oltre frontiera, Firenze 2000) o quello di R. Gualdo e M.V. Dell'Anna, La faconda Repubblica. La lingua della politica italiana (1992- 2002), Lecce 2004 o di Nora Galli de' Paratesi nel volume collettivo Parole in libertà, Roma 2009). Me ne sono occupato anch'io in un libro che analizza gli Eccessi di parole (Firenze 2012), cioè le parole di troppo, nella grammatica e nella comunicazione pubblica. Manca però ancora un grande vocabolario del linguaggio politico della Seconda Repubblica, delle sue parole nuove e di quelle rinnovate, dei suoi modi di dire. E se cominciassimo a costruirlo qui con l'aiuto dei nostri visitatori?
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