L'accademica Rita Librandi commenta le tracce della prima prova dell'esame di maturità 2023.
L’esame di maturità, istituito per la prima volta dal ministro Giovanni Gentile, quest’anno ha compiuto cento anni, ma non è rimasto certamente identico a quello del 1923: molte cose sono mutate lungo questo secolo e molte riforme hanno modificato sia la costituzione delle commissioni sia la tipologia delle prove scritte e orali. Durante la pandemia, peraltro, sono state per due anni abolite le stesse prove scritte, giustamente ripristinate, però, fin dallo scorso anno e ora ritornate ai criteri fissati nel 2017 dalla ministra Valeria Fedeli.
Ogni anno, nei giorni che precedono la prova, si apre, tra gli studenti, sui media e sui canali social, una corsa alle previsioni, puntando sui testi letterari o sui temi che per i motivi più vari sono stati trattati e discussi nelle aule. Ancora più vivace, d’altro canto, diviene il dibattito che segue l’assegnazione delle tracce: è un appuntamento quasi rituale, che trova regolarmente spazio su molti quotidiani e periodici, ospitando, con interviste a docenti, giornalisti e studiosi, sia i consensi sia le polemiche. Le scelte di chi propone le tracce, del resto, non sono per nulla facili e, dovendo tener conto di componenti spesso distanti tra loro, comportano frequenti contraddizioni, che tuttavia si potrebbero, forse, evitare con pochi ma accurati accorgimenti. Non ritorneremo in questa sede su tutte le tipologie di tracce proposte per la prima prova: lasceremo da parte l’ultima e ci soffermeremo sugli aspetti delle altre che hanno suscitato maggiori perplessità, cominciando dai due testi letterari, in poesia e in prosa, tratti dagli scritti di Salvatore Quasimodo e di Alberto Moravia. La loro appartenenza alla prima metà del Novecento, o poco più, ha provocato reazioni opposte: da un lato, il disappunto per non essersi spinti verso anni ancora più recenti e, dall’altro, il timore che nelle classi non si sia avuto il tempo di studiare o approfondire tutti gli autori. Le scelte, tuttavia, tengono sempre conto di quanto compreso nei programmi e, almeno per quanto riguarda Quasimodo, si tratta di uno dei poeti più letti nelle scuole italiane: se anche non si fosse riusciti ad analizzare questo specifico componimento, tratto dalla raccolta La terra impareggiabile del 1958, il tema affrontato dall’autore avrebbe comunque potuto indirizzare l’analisi degli studenti. Quasimodo, infatti, prende spunto dal lancio dello Sputnik del 1957 per ragionare sulle sfide dell’umanità e sul rapporto tra la creazione di Dio e quella realizzata dagli uomini. Era, dunque, assicurata la possibilità di riflettere, anche in chiave interdisciplinare, sul progresso scientifico e sui risvolti delle sempre più numerose innovazioni tecnologiche, senza dimenticare i rinvii a Leopardi richiamato fin dal titolo del componimento. Non era neppure difficile la ricerca delle parole chiave, che ritornano con evidenza nei versi, mentre l’analisi metrica avrebbe potuto giovarsi di quanto già studiato durante l’anno per altre opere poetiche dello stesso periodo. A lasciare perplessi, però, è proprio la scelta di un testo così poco efficace sul piano dell’espressione poetica. Sembra, cioè, evidente che a prevalere sia stato il desiderio di aiutare gli studenti puntando sul contenuto dei versi, una scelta sicuramente legittima, che però mortifica tutto ciò che costituisce l’autentica essenza di un testo poetico. Più inaspettata è apparsa la decisione di proporre un brano degli Indifferenti di Alberto Moravia, non perché più vicino nel tempo (il romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1929), ma perché si tratta di un’opera di solito poco analizzata a scuola. Anche in questo caso, tuttavia, supponiamo che sia stato il contenuto del testo a favorire la scelta, con l’intento di aiutare gli esaminandi a recuperare da altre letture e discussioni svolte in classe la possibilità di rispondere ai diversi quesiti. Il passo selezionato, infatti, mostra come i protagonisti della storia, di solito incapaci di provare sentimenti o passioni, siano assaliti dall’inquietudine solo di fronte alla prospettiva di perdere privilegi e benessere. Nessuna delle domande prende, tuttavia, in considerazione l’innovatività della lingua e dello stile chiaramente debitori nei confronti della scrittura di Luigi Pirandello.
Per quanto riguarda la seconda tipologia di prova, ovvero il testo argomentativo, non ci soffermiamo sugli scritti di Piero Angela e di Oriana Fallaci, dedicati rispettivamente al nesso tra creatività, innovazione tecnologica e ricchezza immateriale e alla valutazione, formulata in relazione alla minaccia nucleare, di una storia decisa da pochi. Ci limitiamo ad apprezzare, con la scelta del primo, la valorizzazione del suo modo rigoroso di stimolare il pensiero tramite una divulgazione scientificamente fondata, e con la seconda la presenza di un testo di mano femminile, anche se non selezionato tra quelli più convincenti della giornalista. Vogliamo invece trattenerci un po’ più a lungo sul brano tratto dal noto libro di Federico Chabod, L’idea di nazione, del 1961. Chabod, storico, politico e partigiano, è noto a tutti gli studiosi per l’impostazione di un metodo storiografico che, basato sull’esame di fonti scientifiche da rendere note ai lettori, è divenuto un modello ancor oggi irrinunciabile. Il brano proposto agli studenti ragiona sul significato autentico di nazione, cui la stessa storia italiana ha contribuito negli anni del Risorgimento, collegandolo non a un angusto nazionalismo ma, con Cavour, alle idee di libertà e indipendenza e, con Mazzini, ai principi di Europa e di umanità. Anche in questo caso non sono mancati pareri contrastanti, divisi tra il doveroso apprezzamento di Chabod e i dubbi sulla proposta di argomentare intorno all’idea di nazione. Sul significato e la storia del termine e del concetto di nazione regna purtroppo, nel nostro paese, molta confusione, soprattutto perché si genera, quasi sempre, una sovrapposizione indebita tra la nazione, il nazionalismo e l’interpretazione di entrambi durante il ventennio fascista. Ciò accade perché, come negli ultimi tempi si sente giustamente ripetere, l’Italia, nonostante la lotta partigiana e la sua ottima Costituzione, non ha mai fatto veramente i conti con il fascismo, con le sue parole, le sue leggi, i suoi crimini. Si ottiene, come curiosa contropartita, il non riuscire a separare i significati e le parole che hanno percorso la nostra storia precedente da quelli che hanno caratterizzato il regime fascista e la sua l’ideologia. Il termine nazione, secondo quanto apprendiamo dal Nuovo etimologico (Cortelazzo e Zolli 1999), entra nella nostra lingua già sul finire del XIII secolo, con il significato di ‘nascita, generazione’, rintracciabile negli scritti di Brunetto Latini; è solo nel secolo successivo, tuttavia, che Giovanni Boccaccio lo adopera per la prima volta con l’accezione di ‘insieme di individui legati da lingua, storia, civiltà, interessi, specie quando coscienti del comune patrimonio’. Con questo stesso significato (peraltro esteso spazialmente da una singola realtà cittadina a un intero Paese) la parola viaggia lungo i secoli, caricandosi di connotazioni particolari durante la Rivoluzione francese e legandosi, durante gli anni del Risorgimento, agli ideali di libertà e fratellanza ricordati da Chabod. Diverso, invece, è il senso di nazionalismo, che, fin dalla sua comparsa in italiano, nella seconda metà dell’Ottocento, è identificato con una ‘dottrina che mira al predominio di una nazione su altre’ o con una ‘esaltazione eccessiva di ciò che appartiene alla nazione’, concetti che saranno a base di tutte le più nefande deformazioni maturate nel corso del XX secolo. Invitare, dunque, gli studenti a riflettere sul valore assunto lungo i secoli dall’idea di nazione è senz’altro positivo, ma sarebbe giusto aggiungere una riflessione su quanto lontano dalla storia d’Italia sia stato il “nazionalismo”, se non per un infelice periodo con il quale sarebbe bene fare serenamente ma definitivamente i conti.
L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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Commento di chiusura di Rita Librandi
Chiudo il tema del mese cercando di rispondere, come sempre avviene, alle questioni sollevate da chi è intervenuto sul sito, cominciando dallo studente Vincenzo Masolo e chiudendo con Luca Fiocchi Nicolai, che ha lasciato ben 8 commenti.
Ringrazio prima di tutto Vincenzo Masolo per la sincerità del suo intervento. Sarebbe stato interessante capire quale tipo di scuola abbia frequentato e che cosa abbia trovato difficile nelle prove d’esame. Voglio dirgli, in ogni caso, che scegliendo la traccia sull’idea di nazione non ha certo scelto la più semplice e che, qualunque sia la sua idea di nazione, è certamente il frutto di letture e discussioni rielaborate nel corso degli anni. La prova, tuttavia, chiedeva di sintetizzare il testo di Chabod e poneva alcune domande alle quali sarebbe stato possibile rispondere solo se il testo fosse stato ben compreso e se si fosse riusciti a collegarlo allo studio della storia. Ci auguriamo, dunque, che sia andato tutto bene.
Il mio ringraziamento va anche a Luca Fiocchi Nicolai per l’indubbio interesse che ha dimostrato sia pure accompagnandolo talvolta con toni un po’ troppo veementi. Cominciamo dall’accostamento, che non aveva intenti comparativi, del ministro Giovanni Gentile, a cui si deve la prima istituzione dell’esame di maturità, alla ministra Valeria Fedeli, responsabile della più recente riforma: è quasi banale osservare che la riforma varata da Gentile era funzionale a una società molto diversa da quella attuale e che ripristinarne oggi il carattere e riproporne, in modo passivo, i programmi non porterebbe né a un’acquisizione sicura e diffusa dei contenuti a quel tempo imposti né a una solida e comune formazione dei nostri giovani. Con ciò non voglio dire che tutte le più recenti riforme dei percorsi scolastici trovino il mio consenso, ma che per ogni intervento sulla formazione è indispensabile ragionare in modo consapevole e competente sui cambiamenti profondi che hanno vissuto e stanno vivendo le società dell’intero mondo occidentale. Del resto, già Orazio, come lei sa, nutriva forti dubbi sulle sollecitazioni del laudator temporis acti se puero. Quanto alla ministra Fedeli, non so perché lei pensi che sia stata chiamata in causa in quanto donna e non, come è avvenuto, solo perché responsabile degli ultimi provvedimenti in materia di esame di Stato. Per ciò che riguarda, invece, Oriana Fallaci, il mio compiacimento a proposito del testo derivava dal fatto che per la prima volta era stato scelto l’articolo di una giornalista: se è vero, infatti, che nessuno è bravo, competente, rigoroso in quanto donna o (me lo consentirà) in quanto uomo, è ugualmente vero che per secoli scritti di grande valore artistico o di particolare efficacia sul piano scientifico, storico e teorico sono stati ignorati o sottovalutati proprio perché composti da donne. Non si tratta di cercare “con il lanternino”, come lei dice, “capolavori femminili negletti”, ma di avere il coraggio di analizzare i testi in modo rigoroso, rapportandoli ai modelli del loro tempo, agli intrecci culturali da cui nascono, senza radicalismi ma ancora una volta considerando i condizionamenti storici. La scrittura porta sempre tracce, soprattutto nel lessico, della storia di chi la produce, ma sono sempre stata convinta che le sue forme, la sua sintassi, la sua organizzazione testuale sono di genere neutro: leggere senza pregiudizi né negativi né positivi riserva, mi creda, straordinarie sorprese e soprattutto crescita di conoscenze.
Per quanto riguarda le innumerevoli osservazioni che lei fa sulla scuola e sull’insegnamento dell’italiano, non sarà possibile rispondere punto per punto. Comincerò, tuttavia, con il dire che sono pienamente d’accordo con lei e, ovviamente, con il libro dell’amico e collega Coluccia, sul fatto che gli esiti così spesso negativi delle prove OCSE PISA e Invalsi segnalano un problema gravissimo: una conoscenza debole dell’italiano. Una piena competenza linguistica e soprattutto un dominio sicuro del lessico sono le condizioni indispensabili per diventare cittadini partecipi e consapevoli. Se tante persone oggi credono in alcune pericolose falsità diffuse tramite i social, è anche a causa del sempre più diffuso analfabetismo funzionale, che non consente di comprendere testi complessi né di cogliere le insidie provocate da chi dice il falso. Non tutto dipende dalla scuola, ma è evidente che proprio alla scuola spetta il compito principale di assicurare una conoscenza piena dell’italiano. Condivido con lei che studiare a scuola le teorie di Jakobson, di Chomsky o di altri importanti linguisti non ha senso, ma ha senso riflettere sulla lingua, sulle sue strutture e sul suo funzionamento. Lo studio della lingua italiana, quasi sempre compresso in pochissime ore, viene spesso del tutto abbandonato dopo le scuole medie o al più dopo il biennio delle superiori, mentre dovrebbe seguire l’intero percorso scolastico e universitario (e non solo nei corsi di Lettere). Concordo ancora con lei che pochi autori ma ben studiati (e soprattutto veramente letti) sarebbero preferibili a opere innumerevoli, ma i ragazzi vanno messi nella condizione di comprendere i testi letterari, di viverli e di impossessarsene. Non è possibile insegnare la passione per la lettura, ma è possibile suscitarla e sarà tanto più facile farlo quanto più si eviteranno gli eccessi di minute analisi retoriche e stilistiche. La scrittura cui educare gli studenti, infine, non è quella creativa, ma quella che potrà metterli in grado di argomentare, di esporre con chiarezza idee e concetti, di sintetizzare contenuti. Per tutto ciò occorre una riflessione autentica sugli interventi didattici da attuare, ma occorrono anche un’adeguata formazione degli insegnanti e una scuola a tempo pieno per tutti i cicli e per tutte le aree. Siamo uno dei pochissimi paesi occidentali a non avere una scuola a tempo pieno, anche perché ciò richiederebbe un maggior numero di docenti, di aule e di investimenti, che pur essendo investimenti per il futuro passano sempre, stabilmente in secondo piano.
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