Non sempre ai Padri vanno affiancate le Madri

di Paolo D'Achille, Rita Librandi
A partire dallo spunto di un aneddoto personale, Paolo D'Achille e Rita Librandi invitano a dialogare sulla questione dell'uso non sessista della lingua.


Un aneddoto significativo, che racconteremo senza fare nomi, ha stimolato alcune nostre riflessioni. Uno studioso di storia dell’arte ha di recente scritto e consegnato un contributo in inglese sui pellegrinaggi al Sacro Speco di Subiaco per un volume miscellaneo che sarà pubblicato in Gran Bretagna. L’autore cita, in un punto del suo saggio, i Padri della Chiesa, ma la curatrice del volume gli ha proposto di aggiungere ai Padri “le Madri della Chiesa”.

Ci siamo chiesti se si tratti di un ennesimo esempio di indebita applicazione al passato di un uso non sessista della lingua, di cui ci si può limitare a sorridere (tanto più perché riferibile all’area anglofona), o se esso non costituisca, in prospettiva, un possibile episodio di cancel culture, cioè della censura di eventi storici, che si cerca progressivamente di eliminare dalla memoria collettiva (in una sorta di damnatio memoriae) in nome del politicamente corretto: in questo caso a farne le spese sarebbero i Padri della Chiesa. L’integrazione proposta dalla curatrice del volume, infatti, non si può assimilare all’aggiunta ai fratelli delle sorelle, che la stessa Chiesa ha promosso, visto che l’italiano non ha un termine che comprenda gli uni e le altre, come l’inglese siblings o il tedesco Geschwister, ma è del tutto incongruente sul piano storico e favorisce interpretazioni distorte del passato. Siamo i primi e più convinti sostenitori della parità di genere, ma proiettare sul passato visioni e sentimenti della contemporaneità non solo non consente di leggere con correttezza la storia, ma neppure aiuta, nel caso in questione, a descrivere con chiarezza quanto le donne abbiano faticosamente conquistato e ancora debbano conquistare. Viene da chiedersi se non sia il caso che la cultura europea “continentale” (Germania, Francia, Italia, Svizzera, Austria, ecc.) si decida una buona volta ad arginare certe attuali tendenze del mondo anglo-americano, benemerito in tanti campi della ricerca, ma non (a quanto pare) per ciò che riguarda la diacronia e gli studi storici (concernano essi la religione, l’arte, la lingua o la storia tout court).

Guardiamo più da vicino perché la richiesta della curatrice del volume stride con la ricostruzione storica. La patristica e la patrologia latina e greca riguardano un numero ben definito di autori cristiani dei primi secoli, tra i quali non ci sono donne. La denominazione di “Padri della Chiesa”, infatti, è antichissima: fu assegnata a partire dal IV secolo e perfezionata nel secolo successivo per designare gli scrittori cristiani le cui opinioni avevano acquisito particolare autorevolezza, divenendo punto di riferimento in materia di fede. Vi furono inclusi soprattutto i vescovi che avevano preso parte ai più importanti concili, a cominciare da quello di Nicea tenutosi nel 325 d.C. Successivamente ci furono, anche grazie all’impulso di s. Agostino, alcune estensioni, ma possiamo sinteticamente dire che, in Occidente, il periodo dei Padri si chiude nel VII secolo con s. Gregorio Magno e con s. Isidoro, mentre in Oriente termina nell’VIII secolo con s. Giovanni Damasceno. A questa altezza cronologica, dunque, non è possibile individuare “Madri della Chiesa”, così come del resto non avrebbe senso continuare a parlare di Padri dopo queste date. La confusione sorge, probabilmente, per una sovrapposizione con un altro importante titolo, quello di “Dottori della Chiesa”, che, istituito molto più tardi, tra il XIII e il XIV secolo, è stato assegnato a chi abbia acquisito meriti particolari nella diffusione e interpretazione della dottrina. A differenza del precedente, però, questo titolo può essere ancora oggi attribuito dal pontefice o dal concilio ecumenico e l’antichità non è una condizione indispensabile. Tra i dottori della Chiesa ci sono anche quattro donne: s. lldegarda di Bingen, s. Caterina da Siena, s. Teresa d’Avila e s. Teresa di Lisieux. È giusto ricordare, d’altro canto, che studi storici recenti hanno dimostrato il ruolo importante ricoperto, nella storia del pensiero religioso, anche da altre donne, la cui riflessione teologica è stata a lungo ignorata. In questi casi molti studi ricorrono, più di una volta, alla definizione di “Madri della Chiesa”, ma si tratta di una denominazione inappropriata, confermata sia dalla distanza temporale sia dalle circostanze che separano queste figure dall’età dei Padri. Si dovrebbe, al contrario, insistere perché altre donne, il cui contributo sarebbe facile da documentare, siano incluse, a giusta ragione, tra i Dottori della Chiesa.

Questa confusione nasconde, purtroppo, una carenza di conoscenze non solo sul piano della storia religiosa ma della storia nel suo insieme: è un po’ come se, dicendo “gli astronauti che sono scesi sulla Luna”, volessimo aggiungere agli astronauti “e le astronaute”, che certamente sono esistite ed esistono, e danno un contributo importante alla navigazione spaziale, ma non appartengono a quel fatto e a quel momento. L’episodio segnalato all’inizio può dunque essere l’occasione per riflettere sui rischi che comporta l’appiattimento sincronico degli studi umanistici. Non c’è dubbio che lo studio della realtà presente (o del passato appena trascorso) sia importante, ma anche il passato va studiato con estrema attenzione, perché rappresenta un patrimonio culturale imprescindibile, che, oltre a costituire di per sé un valore (percepibile solo quando ci si impadronisca dei necessari strumenti interpretativi), può anche fornire un parametro su cui misurare i progressi realizzati nel campo delle conoscenze, l’evoluzione che è avvenuta in tanti aspetti del vivere civile e che deve continuare a progredire. Ignorare il passato o rifiutarlo in nome di principi propri del mondo contemporaneo, indebitamente e retroattivamente applicati, espone invece a rischi pericolosi: la cancel culture può infatti avere come effetto indesiderato anche il più bieco negazionismo. Non si può affatto escludere che la censura del passato finisca col far affievolire progressivamente la memoria storica e che porti in futuro (ma qualche avvisaglia, purtroppo, già si intravede) a ridimensionare, se non addirittura a negare, fatti ed eventi che invece sono tragicamente avvenuti e che potrebbero ripetersi. È indispensabile, però, una maggiore consapevolezza dell’esistenza del problema e quindi un forte impegno culturale per evitare una simile possibile deriva.

Redazione
19 febbraio 2023 - 00:00

Commento di chiusura di Paolo D’Achille e Rita Librandi:

Come di consueto, chiudiamo il Tema con un commento per rispondere alle questioni sollevate da quanti sono intervenuti sul sito.

Ringraziamo anzitutto per il sostegno l’amico Ugo Cardinale, che si è fatto portavoce di tutti coloro che, come noi, sono convinti dell’importanza dello studio della storia in tutti i campi del sapere.

Per quanto riguarda le osservazioni, in gran parte corrette, di Licia Dispalti, ci sembra opportuno ritornare sull’uso dell’espressione cancel culture. È bene ricordare, prima di tutto, che se ci atteniamo, com’è giusto, all’ordine inglese delle parole (determinante - determinato), l’espressione vale ‘cultura della cancellazione’ e non ‘cancellazione della cultura’, anche se è questa l’accezione con cui si sta affermando in italiano. L’espressione nasce, effettivamente, per indicare la censura o, appunto, la “cancellazione” di persone o testi che si caratterizzano per affermazioni razziste o per azioni particolarmente discutibili. Nel mondo anglosassone, peraltro, è stata spesso interpretata come una forma estrema di politically correctness, spinta al punto di limitare la libertà di espressione. Le due cose sono in realtà diverse, ma è anche vero che il rischio di annullare la libertà di opinione non è sempre così remoto. A ricordarlo non è un esponente della destra americana, bensì Noam Chomsky, importante linguista e filosofo, il cui impegno politico è noto per l’ispirazione socialista e libertaria. In un’intervista tradotta e riportata dal “Corriere della sera” del 15 ottobre 2021, l’anziano studioso mette in guardia dalla cancel culture: negare, infatti, le parole degli altri, per quanto odiose queste possano essere, finisce con il ritorcersi, come leggiamo nell’articolo, anche contro chi è animato dalle migliori intenzioni: "La soppressione del free speech, la cancel culture non sono una novità. Potrei fornire moltissimi aneddoti personali: incontri interrotti, interventi della polizia per proteggermi. Ma quando tocca alla sinistra essere demonizzata nessuno ne parla. Ora succede che segmenti delle generazioni più giovani autodefiniti progressisti copiano alcune di queste tattiche, ed è sbagliato come principio e suicida dal punto di vista tattico: è un regalo alla destra". L’accezione, tuttavia, dell’anglismo cancel culture, incluso dalla Treccani tra i nostri neologismi (treccani.it/vocabolario/), si sta effettivamente ampliando (e non solo in Italia), per includere nella cultura della cancellazione anche ciò che della storia del passato viene ricondotto a comportamenti aggressivi e non rispettosi della cultura e della vita di altre popolazioni. L’estensione è impropria, ma non è difficile cogliere il parallelismo che la genera: se non si può costringere al silenzio chi la pensa diversamente da noi, per quanto odiose siano le sue affermazioni, ancor meno si possono annullare gli eventi del passato, per quanto ingiusti oggi possano apparirci. Che un prestito linguistico si adegui, nella forma o nel significato, alla lingua di arrivo è cosa antica e rivela anche la forza con cui le lingue preservano autonomia e identità: gli esempi di anglismi che si sono fissati in italiano con un significato a volte del tutto estraneo al termine originario sono tanti e alcuni anche di antica attestazione. Se nel Tema, contrariamente alle nostre abitudini, abbiamo fatto ricorso a un prestito dall’inglese, è stato sia per l’estensione che il termine va subendo in italiano, sia perché, nella condanna della curatrice cui ci siamo riferiti all’inizio, era implicita una censura verso chi aveva nominato i padri escludendo le madri: la cancellazione era dunque duplice. Non ci sembra, invece, che cancel culture possa definirsi un “plastismo”. Le cosiddette "parole di plastica”, secondo la definizione che per prima ne ha dato Ornella Castellani Pollidori, nel volume La lingua di plastica del 1995, sono termini ed espressioni logorati dall'uso, che finiscono per impoverire il lessico. Non ci sembra che, almeno per il momento, la definizione si adatti a cancel culture, non sempre pienamente aderente al senso della parola inglese ma non così abusata.

Infine, al signor Luigino Goffi, che ha firmato ben quattro consistenti interventi, affrontando anche questioni che trascendono l’argomento in questione, diciamo soltanto, senza entrare nel merito delle sue osservazioni, spesso interessanti, e delle sue proposte, che l’italiano è una lingua naturale, che nel suo sistema fonomorfologico è rimasta sostanzialmente fedele al fiorentino trecentesco, cosa che, tra l’altro, spiega la presenza di due diversi articoli maschili, il e lo, che possono entrambi ridursi, rispettivamente a ’l, con aferesi, o a l’, con elisione (che peraltro, davanti a parola iniziante per vocale, può avvenire anche con la). Ebbene, le lingue naturali (specie quando hanno alle spalle una lunga tradizione di scrittura e di cultura) non sono molto disponibili ad accogliere modifiche calate dall’alto, sulla base di nuovi orientamenti del pensiero e di nuove idee. Inoltre, i problemi della corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale, del sessismo linguistico e del linguaggio inclusivo, che sono certamente di grande attualità, sono stati già oggetto di vari interventi sul sito della Crusca (sia tra i temi del mese, sia nelle pagine del servizio di consulenza linguistica) e non intendiamo riaffrontarli ora. Ci sembra invece giusto ricordare, per concludere, che ogni interpretazione del passato deve considerarsi aperta a revisioni sulla base di nuove possibili (ma imprevedibili) scoperte e che ancor meno prevedibile è il futuro, i cui scenari, costantemente in evoluzione, sono soggetti anche a cause del tutto esterne alla volontà di uomini e donne. Sul piano della lingua italiana, poi, potremmo portare una serie di esempi di letture e interpretazioni di testi antichi che sono tuttora dibattuti, nonché di ipotesi sul futuro della lingua che sono state poi smentite dai fatti: non sempre le “linee di tendenza” che vengono correttamente individuate sulla base dei dati del presente (e del passato) danno gli esiti attesi.

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Luigino Goffi
15 febbraio 2023 - 00:00
1: La cultura cancellante si cancella col pensiero risolvente. 2.1: L'introduzione del neutro in una lingua solo maschile e femminile, come quella italiana, risolve, innanzitutto, il problema del bisogno di riferirsi a entrambi i generi con una parola sola, velocizzando, così, la lingua, e superando - col neologismo neutro "Fatristica" - il problema del Tema attuale: il contrasto tra chi si basa sul presente e chi vuol prevenire il futuro. 2.2: Considerando "il" come articolo comune si risolve anche il problema dell'indebita caduta dell'articolo femminile per motivi metrici, che da sempre affligge l'italiano. Dopo gli esempi del Tasso e di Dante, vediamo il Poliziano. Il 5° verso della 7^ stanza giostrale recita "lascia tacere un po' tuo maggior tromba". Perché il grande umanista non mette, qui, l'articolo? Perché "tromba" è femminile, e se avesse scritto "la tuo maggior tromba" avrebbe sforato le undici sillabe canoniche. Considerando, invece, "il" come articolo comune - da potersi mettere, cioè, davanti a qualsiasi nome, sia esso maschile, femminile, neutro, singolare, plurale, esattamente come lo "il" maltese o il "the" inglese - il verso polizianeo diventa: "lascia tacere un po' il tuo maggior tromba". E poiché noi odierni - al contrario del Poliziano - preferiamo far concordare i possessivi cogli oggetti (qui: "tromba") piuttosto che coi soggetti (qui, "Achille"), ne consegue che possiamo sostituire "tuo" con "tua", e il verso diventa: "lascia tacere un po' il tua maggior tromba": perfetto grammaticalmente (perché l'articolo davanti ai nomi è obbligatorio per distinguerli dai verbi ("studio" significa "io studio", ma coll'articolo diventa un nome: "lo studio")) e anche perfetto metricamente: è un endecasillabo. 2.3: Ma c'è ben di più. L'introduzione - nell'italiano attuale - del neutro - cioè l'introduzione dell'articolo comune ("il") e delle desinenze appropriate - permette di risolvere un problema di concordanza tra due frasi legate da un "anche" o da un "pure". Prendiamo la seguente frase: "Pietro fa il chirurgo. Anche Marisa". Poiché "il chirurgo" è maschile, la concordanza salta, perché Marisa è una donna. A questo discorso non si può replicare dicendo che "il chirurgo" è, sì, un maschile, ma si estende anche al femminile - il cosiddetto maschile allargato, che altro non è che il neutro - perché, se invertiamo le due frasi, il giochetto non riesce più. Non possiamo, cioè, dire "Marisa fa la chirurga. Anche Pietro". La soluzione sta nel considerare "il chirurgo" come solo ed esclusivamente neutro, riferentesi cioè al maschile e/o al femminile, indifferentemente. Di conseguenza potrò dire benissimo sia "Pietro fa il chirurgo. Anche Marisa" e sia "Marisa fa il chirurgo. Anche Pietro". Entrambe sono giuste. 2.4: C'è, poi, un quarto problema risolvibile col neutro. Ogni tanto càpita di trovare, nella stampa, dei refusi, cioè sviste nella composizione del testo, in cui il nome non concordi coll'articolo. Il fenomeno, ovviamente, non è diffuso, ma è pur sempre esistente, come dimostrano diversi ritagli di giornale che ho conservato. Consideriamo, ad esempio, uno scrittore che, in sede di correzione di bozze, dica al tipografo di correggere "motivo" con "causa". Quest'ultimo esegue alla lettera quanto indicatogli; e se lo scrittore, per impegni inderogabili, non potesse ricontrollare più, il libro uscirebbe con un bel "il causa", che per l'italiano attuale è un errore, ma che non lo è affatto per un'italiano razionale, che ha capito che "il" è più utile come articolo comune che come articolo solo maschile singolare, com'è invece adesso. In questo modo si riesce anche a rendere più facile la vita agli stranieri che - nell'imparare l'italiano - fanno fatica a individuare l'articolo giusto. Usando sempre "il" non si sbaglieranno più, esattamente come col "the" inglese. Chi, poi, vorrà essere preciso, lo potrà fare colle opportune già viste desinenze o cogli articoli determinanti il genere e il numero ("lo", "la", "li", "le"). 2.5: Riepiloghiamo. Al di fuori delle professioni, della zoologia e dei cognomi, il neutro non serve: continueremo, quindi, a usare le desinenze tradizionali: "-o" pel maschile e "-a" pel femminile, fermo restando che "il" è articolo comune. Diremo quindi "il/lo tavolo" e "il/la sedia". All'interno delle professioni, ecc., invece, il neutro serve, e la desinenza "-o" sarà neutra se collegata coll'articolo comune "il" ("il chirurgo" è neutro), altrimenti prenderà il sesso dell'articolo ("lo chirurgo" è maschile, "la chirurgo" è femminile). Se, per velocizzare, si vorrà usare "il" anche pel maschile e il femminile , le desinenze saranno rispettivamente "-uo" e "-ua" atone: "il chirùrguo" e "il chirùrgua". Nessun sconvolgimento, però, nessuno scandalo. Questi neologismi, infatti, non si sentiranno quasi mai perché, all'interno delle professioni, distinguere non serve, e si userà in pratica, solo il neutro "il chirurgo".

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Luigino Goffi
03 febbraio 2023 - 00:00
1: Risolvendo il problema dell'uso non sessista della lingua, non solo si prevengono affermazioni, consapevoli o distratte, di fatto tendenti a cancellare o modificare la storia per supportare le proprie tesi antisessiste, ma si rende la lingua italiana più precisa e veloce in un'epoca che ha fatto della velocità e della precisione la propria essenza. Abbiamo tutti bisogno di una lingua italiana dalle parole più brevi - e precise - di quelle attuali: dal parlamentare che ha a disposizione solo due minuti pel proprio intervento, al semplice appassionato di una materia che nel lasciare un commento su un sito della nete (=rete internet) deve rispettare un certo numero di battute sulla tastiera. Ciò sarà anche giusto, ma la conseguenza è che l'italiano deve aggiornarsi. 2: Il primo passo per risolvere il problema è l'introduzione, nella lingua italiana, dell'articolo comune "il": articolo che, proprio perché comune, si può mettere davanti a nomi di qualunque genere e numero grammaticale: maschile, femminile, neutro, singolare, plurale. Lo scopo dell'articolo comune, infatti, è quello minimale di ogni articolo: distinguere il nome dal verbo ("telefono" significa "io telefono", ma coll'articolo davanti diventa un nome: "il telefono"). Saranno gli articoli monosillabici puri, cioè quelli che non permettono di velocizzare perché inizianti per consonante (e dunque non formanti la sinalefe): "lo", ""la", "li" e "le", ad avere il compito ulteriore di distinguere anche il genere e il numero. Diventa fondamentale, allora, la desinenza del nome. Poiché i nomi non terminano mai per "-u" (atona), non c'è altra soluzione che usare proprio la "u" come consonante davanti alla vocale finale, come in "vacuo" ed "equo". Ad esempio: "il chirurgo" è neutro, "lo chirurgo" è maschile, "la chirurgo" è femminile; ma se voglio al contempo velocizzare e distinguere potrò dire "il chirùrguo" (maschile) e "il chirùrgua" (femminile). Infatti, "il" velocizza perché - a differenza di "lo", "la", "li" e "le" - permette la sinalefe, e le desinenze atone "-uo", "-ua", "-ui" e "-ue" indicano il genere e il numero senza aumentare di una sillaba. Soprattutto in poesia metrica, però, non sempre avrò bisogno di velocizzare, perché, a volte, abbiamo il bisogno opposto di allungare (ad esempio perché voglio trasformare un decasillabo in un endecasillabo). Introdurrò allora l'articolo "lu" come articolo neutro non sinalefico ("il", al contrario, è articolo neutro che permette la sinalefe, e, dunque, veloce); ad esempio: "guarda il chirurgo" ha 5 sillabe, mentre "guarda lu chirurgo" 6; sceglierò pertanto quello che, di volta in volta, farà al caso mio. Qualcuno non vedrà di buon occhio questa soluzione dell'articolo "lu" - peraltro necessaria solo nel ristrettissimo àmbito della poesia metrica, non nel linguaggio ordinario -, ma è l'unica che abbiamo a disposizione, e, comunque, non va dimenticato quel che Arnold Schoemberg replicava ai critici della dodecafonia: "In un'ottava abbiamo a disposizione solamente 12 note: bisogna che ce le facciamo piacere tutte!". Nell'alfabeto, di vocali ne abbiamo ancora meno, e l'abitudine appiana tutto. 3: Vi sono, poi, pochissimi casi in cui l'individuazione del maschile e del femminile è lasciato non alla parte finale, cioè alla desinenza (italiano attuale: "chirurgo"/"chirurga"), ma a quella iniziale, e un esempio sta proprio nella coppia oggetto del Tema odierno: "Padri"/"Madri", riferito, però, alla Chiesa, non in generale. In generale, infatti, il neutro c'è, ed è "genitori", ma qui, ovviamente, non possiamo dire "i Genitori della Chiesa". Come facciamo, allora, a trovarne il neutro? Utilizzando l'arma più potente che abbiamo per risolvere i problemi: la fantasia. Basta semplicemente preporre al tratto "-adri", comune a entrambe le parole, una consonante che sia una via di mezzo tra la "P" e la "M". Penso che una buona soluzione possa essere la "F". Colla locuzione "Fadri della Chiesa", che, essendo neutra, può significare, ad un tempo, sia "Padri E Madri", e sia "Padri O Madri" - in breve: "Padri e/o Madri" -, renderemmo giustizia alle donne, affineremmo la lingua perché ci cauteleremmo da future possibili scoperte archeologiche che facessero venire alla luce delle teologhe altrimenti sconosciute e contemporanee di Ireneo o di Origene, e non violeremmo la Storia, che ci ricorda che, attualmente, esiste solo una Patristica, e non anche una Matristica! Col neutro "Fatristica" si riesce a mettere d'accordo due tesi contrarie! La potenza del neutro e la sua indispensabilità per la lingua italiana è evidente.

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Luigino Goffi
26 gennaio 2023 - 00:00
1: Il mondo in cui viviamo non si compone solo del presente e del passato, ma anche, e soprattutto, del futuro, e il nostro compito è quello di prevederlo. Ipotizziamo che una clamorosa scoperta archeologica facesse venire alla luce manoscritti coevi ai Padri della Chiesa e riconducibili a un'altrimenti sconosciuta teologa, di grande levatura teoretica e perfettamente in linea colla Dottrina della Chiesa. A questo punto, il minimo che potrebbe dire chi, già da prima, voleva l'accostamento verbale delle Madri ai Padri della Chiesa, è: "L'avevo detto!". L'improbabile può verificarsi, se non è impossibile; non dimentichiamo Qumran (scoperta della biblioteca degli Esseni), Nag Hammadi (scoperta dei Vangeli Gnostici senza quello di Giuda) e Qarara (scoperta del Vangelo Gnostico di Giuda). Qual è il quadro che risulta? Se ai Padri della Chiesa accostassimo le Madri, commetteremmo, oggi, l'errore storico indicato nella relazione; ma se non facessimo tale accostamento, dimostreremmo, domani, di fronte a quella ipotetica scoperta archeologica, poca lungimiranza, saremmo additati come maschilisti, e, soprattutto, la parola "Padre" sfumerebbe di significato, costringendoci a variarla - cosa non sempre facile dopo secoli di uso. La varianza semantica delle parole nel tempo, che tanti problemi crea in chi si appresta a studiare il passato, nasce proprio da questa nostra disvolontà di prevedere il futuro. 2: Il problema si risolve introducendo il neutro: una singola parola che indichi sia il maschile che il femminile, come quando usiamo la parola "persona", invece dell'ambigua parola "uomo", per indicare sia i maschi che le femmine. Ovviamente, non possiamo, qui, per indicare il neutro, usare la parola neutra "genitore": non possiamo dire "i Genitori della Chiesa": dobbiamo inventare un neologismo. 3: Prima ancora, però, di inventare una parola che si riferisca sia ai padri che alle madri, bisogna inventare un articolo comune, da usarsi, cioè, davanti a qualunque nome, sia esso maschile, femminile, terzile (lgbtq+), oppure neutro (il super-genere che ricomprende in sé tutti questi generi), e singolare o plurale. L'italiano ha una marea di articoli sessualmente codificati, ma neanche uno neutro: il che non è accettabile per una lingua moderna, che deve essere precisa. L'inglese è l'esatto contrario: ha un solo articolo, quello comune: il "the", e neanche un articolo maschile o femminile. Una lingua precisa deve avere entrambi gli articoli; e noi italiani siamo facilitati perché di articolo comune ne basta uno, e quindi ne dobbiamo inventare solo uno. Il più indicato per fare da articolo comune è l'articolo "il", che, quindi, non potrà più essere usato pel maschile; e si noti che anche il maltese usa "il" come articolo comune. L'introduzione di "il" come articolo comune - e non più solo maschile -, oltre a risolvere i problemi del neutro, oggetto del Tema in questione, permette, contemporaneamente, di chiudere un altro problema irrisolto: l'indebita caduta dell'articolo femminile per motivi metrici. Consideriamo i versi 261 e 262 dell'Aminta del Tasso: "Tu prendi a gabbo i miei fidi consigli / e burli mie ragioni? O in amore", e chiediamoci: perché nel primo verso l'articolo ("i") c'è, mentre nel secondo l'articolo ("le" davanti a "mie") non c'è? La ragione è semplice: gli articoli maschili "il" e "i" sono zerosillabi (monosillabi inizianti per vocale) e pertanto aggiunti a un verso (purché non all'inizio) non ne alterano la metrica, dato che l'inizio vocalico genera la sinalefe. Gli articoli femminili, cominciando per consonante, sono tutti monosillabi puri, irriducibili a zerosillabi, e pertanto, inseriti in un verso ne alterano la lunghezza metrica. Ecco perché capita a volte di trovare nei poeti metrici una caduta dell'articolo femminile. Un altro esempio è in Dante, come nel verso "d'alcuna ammenda tua fama rinfreschi", in cui "tua" manca dell'articolo "la" (Inf. 13°, 18b (53)). Ora, si ha un bel dire che si tratta di una licenza poetica; la licenza poetica è, in realtà, un'imperfezione della lingua che va risolta. E la soluzione è semplice: quando non si riesce a mettere l'articolo femminile, lo si può sostituire coll'articolo comune "il". Rileggiamo il Tasso: "Tu prendi a gabbo IL miei fidi consigli / e burli IL mie ragioni? O in amore". In questo modo l'articolo c'è sempre, laddove serve. L'articolo, infatti, non è un'appendice che possiamo mettere o non mettere a nostro piacimento, perché è proprio l'articolo a trasformare un verbo in un nome, permettendo di alleggerire il vocabolario. Ad es.: "canto" significa "io canto", ma, se vi anteponiamo l'articolo, cambia di significato: "il canto". 4: In conclusione, l'usare "il" come articolo comune, e non più come articolo solo maschile singolare, permette contemporaneamente di avviare a soluzione il problema del neutro e di risolvere quello dell'indebita caduta dell'articolo femminile per motivi metrici. Con una fava prendiamo due piccioni: interessante!

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Luigino Goffi
09 gennaio 2023 - 00:00
1: IL PROBLEMA. Apparendo, la storia, come una successione di guerre in cui i maschi distruggono in un attimo quello che le donne, colla maternità, pazientemente costruiscono, non ci si può meravigliare se, oggi, ogni scusa è buona per chiedere la parità, anche a costo di commettere degli strafalcioni storici. E se la deformazione storica mirata ("cultura cancellante") - colla quale questa tendenza può, a volte, operare - potrebbe rivelarsi pericolosa, peggio sarebbe non risolvere il problema, soprattutto se ciò avvenisse per colpa di un'assurda reverenza verso la tradizione. Del resto, è proprio la risoluzione dei problemi a metter fuori gioco la cultura cancellante. In linguistica, la parità si risolve in un sol modo: coll'introduzione del neutro, inteso, però, non nel senso di un terzo genere da affiancarsi al maschile e al femminile, ma come un meta-genere che ricomprenda in sé sia il maschile che il femminile e che un ipotetico terzile (terzo genere: lgbtq+ (sempre che questi vogliano un genere tutto per loro, s'intende)). Il neutro è indispensabile non solo per la parità di genere, ma anche per la velocità della lingua, perché non si può perdere tempo tutte le volte a scrivere "padri e madri", "avvocati e avvocate", "signore e signori", "leoni maschi e leonesse". Deve bastare una sola parola, appunto il neutro. Queste endiadi, del resto, non paiono veramente paritarie, visto che continuano a distinguere quasi sempre senza motivo, e settariamente, i maschi dalle femmine. A che cosa mi serve sottolineare (involontariamente poi!) che l'avvocato che mi difenderà sarà un maschio o una femmina? Piuttosto voglio che sia bravo/a! Ognuno, ovviamente, scrive come vuole, ma una lingua deve darmi la possibilità di indicarlo a prescindere dal sesso. Chi vorrebbe introdurre la desinenza "e" turbata, lo schwa, ha capito questo, ma non ha capito che l'essenza della lingua italiana, ciò che la rende unica al mondo, sta nella sua eufonia inarrivabile, che sarebbe distrutta da quel suono cacofonico, totalmente impronunciabile in una fluente dizione. La lingua italiana è la più eufonica del mondo proprio perché fa terminare le parole semanticamente piene solo colle quattro vocali chiare e distinte della "a", "e", "i", e "o" (la "u" finale se atona, cioè non accentata, mal si distingue dalla "o" atona finale; ecco perché la "u" finale è sempre tonica). Le parole semanticamente non piene, invece, possono anche terminare per "l" (elle), "n", o "r" (es. "il", "in", "per") perché queste sono le uniche consonanti che non creano cacofonie con le successive consonanti (a dir lo vero ci sarebbe anche la "s", ma il suo uso finale è complicato dal fatto che l'italiano la usa all'inizio di parola: "sfera", "sterzo", ecc.). Per queste scelte perfette, noi siamo eternamente grati a Dante, Petrarca, Boccaccio e agli altri grandi, insomma: alla nostra grande Patristica (e Matristica!) Italiana . 2: UN INIZIO DI TENTATIVO DI SOLUZIONE. E' sorprendente come la soluzione di tutti questi problemi sta davanti ai nostri occhi e noi non ce ne accorgiamo, invischiati come siamo in un rispetto acritico verso certe tradizioni. Noi diamo per scontato che l'articolo "il" debba continuare ad essere solo maschile, come vuole la storia dell'italiano. La soluzione di tutti i problemi è, invece, quella di introdurre la regola che "il" e "l' " siano articoli esclusivamente neutri, indicanti, cioè, parole maschili, femminili, e le ipotetiche terzili; anzi, meglio sarebbe chiamarli "articoli comuni" perché da utilizzarsi anche per i plurali, esattamente come il "the" inglese. Il fatto che l'inglese, nonostante il "the", abbia problemi simili ai nostri deriva dal fatto che entrambe le lingue sono limitate: le parole inglesi sono sostanzialmente neutre, e le desinenze pel maschile e il femminile (quando ci sono) sono lunghe, e ciò è insopportabile per una lingua veloce come l'inglese, e, in più, le desinenze femminili sono più lunghe di quelle maschili, con giusto disappunto delle donne. Al contrario, le parole italiane sono sostanzialmente o maschili o femminili, e poiché questi due generi si accaparrano tutte le quattro vocali chiare e distinte disponibili, è chiaro che la formazione del neutro è difficilissima. La soluzione da me proposta, di introdurre "il" e "l' " come neutri funziona, ma è purtroppo basica, minimale. Un italiano più evoluto ha bisogno del neutro anche nelle desinenze, non solo nell'articolo, perché non sempre questo è presente, come, ad esempio, nel vocativo: se il mio avvocato-donna ama essere chiamata col termine femminile, non posso chiamarla né "l'avvocato" perché è neutro e, in più, avendo l'articolo, non è un vocativo, e né "la avvocato" (o "la avvocata") perché, se pur femminile, non è un vocativo. La chiamerò dunque "avvocata", senza l'articolo, ma ciò impedisce di formare il neutro, visto che il maschile non potrà che essere "avvocato". La soluzione c'è, quello che non c'è è lo spazio per illustrarla.

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Licia Dispalti
08 gennaio 2023 - 00:00
Ho letto con piacere, come spesso càpita, il vostro articolo che per me è stato molto istruttivo: conoscevo bene la dicitura Padri della Chiesa - a cui mai avrei pensato di affiancare delle immaginarie Madri - ma dei Dottori della Chiesa mai avevo sentito parlare. Sono rimasta però molto confusa dal vostro uso dell'espressione "cancel culture". Canceling, parola che nasce su Twitter e in particolare sul Twitter nero [https://knowyourmeme.com/memes/cancel-culture], è un termine con cui ci si riferisce, in maniera spesso ironica, a tentativi di "cancellazione" dallo spazio pubblico di celebrità o altre figure pubbliche, in ragione della loro problematicità. Un sinonimo dall'accezione un po' più seria potrebbe essere, ad esempio, "deplatforming". Il termine "cancel culture" nasce in quel contesto e viene rapidamente cooptato dalla destra americana per descrivere una supposta tendenza "rapace" da parte dell'attivismo di sinistra nel tentare di rimuovere dal discorso pubblico figure di spicco come conseguenza di uscite infelici. È un termine complesso da analizzare perché legato a certe dinamiche oggettivamente incoraggiate dal design dei social media, ma al tempo stesso amplificato retoricamente da certe figure in un'ottica vittimistica. Quello che però "cancel culture" *non* significa è certamente "censura di eventi storici, che si cerca progressivamente di eliminare dalla memoria collettiva". Il canceling è, almeno per come il termine viene usato in inglese, relativo a campagne portate avanti nei confronti di singoli individui e non di fatti storici. Anche fatti come le rimozioni di alcune statue dallo spazio pubblico che si verificarono negli Stati Uniti un paio di anni fa vengono raramente additate come esempi di "cancel culture", che invece riguarda comici che fanno battute molto fuori luogo o politici che fanno affermazioni razziste. Ho la sensazione che "cancel culture", come tanti anglismi, sia stato importato in lingua italiana come plastismo: un termine completamente staccato dal suo significato originale (che in effetti si riferiva a fenomeni che in Italia sono decisamente meno frequenti) e usato in maniera vacua per riferirsi in questo caso a ogni errore o percepita esagerazione compiuto sotto la bandiera della "inclusività". In questo senso gioca lo stesso ruolo di "idéologie woke" in francese - un altro termine di origine afroamericana e mal trapiantato attraverso l'atlantico. E se da un maestro dell'anglismo plastico come Matteo Renzi possiamo aspettarci un travisamento di questo genere ("La cancel culture è il tentativo di distruggere la nostra storia"), di certo mi stupisco di trovarlo in un articolo dell'Accademia della Crusca.

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Ugo Cardinale
24 dicembre 2022 - 00:00
Pienamente d’accordo! La distinzione tra Padri della Chiesa e Dottori ( m. Inclusivo ) nasce da una ricostruzione storica sottile che probabilmente è ignorata nelle semplificazioni diacroniche degli studi anglosassoni. La nostra tradizione, che privilegia l’approccio storico nello studio delle varie discipline, non è affatto obsoleta e merita una difesa in questo clima di cancel culture mascherato da una patina di progressismo.

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