Un aneddoto significativo, che racconteremo senza fare nomi, ha stimolato alcune nostre riflessioni. Uno studioso di storia dell’arte ha di recente scritto e consegnato un contributo in inglese sui pellegrinaggi al Sacro Speco di Subiaco per un volume miscellaneo che sarà pubblicato in Gran Bretagna. L’autore cita, in un punto del suo saggio, i Padri della Chiesa, ma la curatrice del volume gli ha proposto di aggiungere ai Padri “le Madri della Chiesa”.
Ci siamo chiesti se si tratti di un ennesimo esempio di indebita applicazione al passato di un uso non sessista della lingua, di cui ci si può limitare a sorridere (tanto più perché riferibile all’area anglofona), o se esso non costituisca, in prospettiva, un possibile episodio di cancel culture, cioè della censura di eventi storici, che si cerca progressivamente di eliminare dalla memoria collettiva (in una sorta di damnatio memoriae) in nome del politicamente corretto: in questo caso a farne le spese sarebbero i Padri della Chiesa. L’integrazione proposta dalla curatrice del volume, infatti, non si può assimilare all’aggiunta ai fratelli delle sorelle, che la stessa Chiesa ha promosso, visto che l’italiano non ha un termine che comprenda gli uni e le altre, come l’inglese siblings o il tedesco Geschwister, ma è del tutto incongruente sul piano storico e favorisce interpretazioni distorte del passato. Siamo i primi e più convinti sostenitori della parità di genere, ma proiettare sul passato visioni e sentimenti della contemporaneità non solo non consente di leggere con correttezza la storia, ma neppure aiuta, nel caso in questione, a descrivere con chiarezza quanto le donne abbiano faticosamente conquistato e ancora debbano conquistare. Viene da chiedersi se non sia il caso che la cultura europea “continentale” (Germania, Francia, Italia, Svizzera, Austria, ecc.) si decida una buona volta ad arginare certe attuali tendenze del mondo anglo-americano, benemerito in tanti campi della ricerca, ma non (a quanto pare) per ciò che riguarda la diacronia e gli studi storici (concernano essi la religione, l’arte, la lingua o la storia tout court).
Guardiamo più da vicino perché la richiesta della curatrice del volume stride con la ricostruzione storica. La patristica e la patrologia latina e greca riguardano un numero ben definito di autori cristiani dei primi secoli, tra i quali non ci sono donne. La denominazione di “Padri della Chiesa”, infatti, è antichissima: fu assegnata a partire dal IV secolo e perfezionata nel secolo successivo per designare gli scrittori cristiani le cui opinioni avevano acquisito particolare autorevolezza, divenendo punto di riferimento in materia di fede. Vi furono inclusi soprattutto i vescovi che avevano preso parte ai più importanti concili, a cominciare da quello di Nicea tenutosi nel 325 d.C. Successivamente ci furono, anche grazie all’impulso di s. Agostino, alcune estensioni, ma possiamo sinteticamente dire che, in Occidente, il periodo dei Padri si chiude nel VII secolo con s. Gregorio Magno e con s. Isidoro, mentre in Oriente termina nell’VIII secolo con s. Giovanni Damasceno. A questa altezza cronologica, dunque, non è possibile individuare “Madri della Chiesa”, così come del resto non avrebbe senso continuare a parlare di Padri dopo queste date. La confusione sorge, probabilmente, per una sovrapposizione con un altro importante titolo, quello di “Dottori della Chiesa”, che, istituito molto più tardi, tra il XIII e il XIV secolo, è stato assegnato a chi abbia acquisito meriti particolari nella diffusione e interpretazione della dottrina. A differenza del precedente, però, questo titolo può essere ancora oggi attribuito dal pontefice o dal concilio ecumenico e l’antichità non è una condizione indispensabile. Tra i dottori della Chiesa ci sono anche quattro donne: s. lldegarda di Bingen, s. Caterina da Siena, s. Teresa d’Avila e s. Teresa di Lisieux. È giusto ricordare, d’altro canto, che studi storici recenti hanno dimostrato il ruolo importante ricoperto, nella storia del pensiero religioso, anche da altre donne, la cui riflessione teologica è stata a lungo ignorata. In questi casi molti studi ricorrono, più di una volta, alla definizione di “Madri della Chiesa”, ma si tratta di una denominazione inappropriata, confermata sia dalla distanza temporale sia dalle circostanze che separano queste figure dall’età dei Padri. Si dovrebbe, al contrario, insistere perché altre donne, il cui contributo sarebbe facile da documentare, siano incluse, a giusta ragione, tra i Dottori della Chiesa.
Questa confusione nasconde, purtroppo, una carenza di conoscenze non solo sul piano della storia religiosa ma della storia nel suo insieme: è un po’ come se, dicendo “gli astronauti che sono scesi sulla Luna”, volessimo aggiungere agli astronauti “e le astronaute”, che certamente sono esistite ed esistono, e danno un contributo importante alla navigazione spaziale, ma non appartengono a quel fatto e a quel momento. L’episodio segnalato all’inizio può dunque essere l’occasione per riflettere sui rischi che comporta l’appiattimento sincronico degli studi umanistici. Non c’è dubbio che lo studio della realtà presente (o del passato appena trascorso) sia importante, ma anche il passato va studiato con estrema attenzione, perché rappresenta un patrimonio culturale imprescindibile, che, oltre a costituire di per sé un valore (percepibile solo quando ci si impadronisca dei necessari strumenti interpretativi), può anche fornire un parametro su cui misurare i progressi realizzati nel campo delle conoscenze, l’evoluzione che è avvenuta in tanti aspetti del vivere civile e che deve continuare a progredire. Ignorare il passato o rifiutarlo in nome di principi propri del mondo contemporaneo, indebitamente e retroattivamente applicati, espone invece a rischi pericolosi: la cancel culture può infatti avere come effetto indesiderato anche il più bieco negazionismo. Non si può affatto escludere che la censura del passato finisca col far affievolire progressivamente la memoria storica e che porti in futuro (ma qualche avvisaglia, purtroppo, già si intravede) a ridimensionare, se non addirittura a negare, fatti ed eventi che invece sono tragicamente avvenuti e che potrebbero ripetersi. È indispensabile, però, una maggiore consapevolezza dell’esistenza del problema e quindi un forte impegno culturale per evitare una simile possibile deriva.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Il Maestro Muti viene insignito dall’Accademia della Crusca del premio “Benemerito della Lingua Italiana 2024” e il presidente Paolo D'Achille, cogliendo questo e diversi altri spunti dalla storia e dall’attualità, propone una riflessione sull'italiano della musica.
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Collaborazione di Crusca
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Tutte le informazioni nel comunicato stampa.
Dal 6 al 9 novembre 2024. Tutte le informazioni sono disponibili nella sezione "Eventi".
Avvisiamo i visitatori che, a causa dei lavori di restauro in corso nella sede dell'Accademia, l'accesso alla villa di Castello è momentaneamente spostato al civico 48.
Commento di chiusura di Paolo D’Achille e Rita Librandi:
Come di consueto, chiudiamo il Tema con un commento per rispondere alle questioni sollevate da quanti sono intervenuti sul sito.
Ringraziamo anzitutto per il sostegno l’amico Ugo Cardinale, che si è fatto portavoce di tutti coloro che, come noi, sono convinti dell’importanza dello studio della storia in tutti i campi del sapere.
Per quanto riguarda le osservazioni, in gran parte corrette, di Licia Dispalti, ci sembra opportuno ritornare sull’uso dell’espressione cancel culture. È bene ricordare, prima di tutto, che se ci atteniamo, com’è giusto, all’ordine inglese delle parole (determinante - determinato), l’espressione vale ‘cultura della cancellazione’ e non ‘cancellazione della cultura’, anche se è questa l’accezione con cui si sta affermando in italiano. L’espressione nasce, effettivamente, per indicare la censura o, appunto, la “cancellazione” di persone o testi che si caratterizzano per affermazioni razziste o per azioni particolarmente discutibili. Nel mondo anglosassone, peraltro, è stata spesso interpretata come una forma estrema di politically correctness, spinta al punto di limitare la libertà di espressione. Le due cose sono in realtà diverse, ma è anche vero che il rischio di annullare la libertà di opinione non è sempre così remoto. A ricordarlo non è un esponente della destra americana, bensì Noam Chomsky, importante linguista e filosofo, il cui impegno politico è noto per l’ispirazione socialista e libertaria. In un’intervista tradotta e riportata dal “Corriere della sera” del 15 ottobre 2021, l’anziano studioso mette in guardia dalla cancel culture: negare, infatti, le parole degli altri, per quanto odiose queste possano essere, finisce con il ritorcersi, come leggiamo nell’articolo, anche contro chi è animato dalle migliori intenzioni: "La soppressione del free speech, la cancel culture non sono una novità. Potrei fornire moltissimi aneddoti personali: incontri interrotti, interventi della polizia per proteggermi. Ma quando tocca alla sinistra essere demonizzata nessuno ne parla. Ora succede che segmenti delle generazioni più giovani autodefiniti progressisti copiano alcune di queste tattiche, ed è sbagliato come principio e suicida dal punto di vista tattico: è un regalo alla destra". L’accezione, tuttavia, dell’anglismo cancel culture, incluso dalla Treccani tra i nostri neologismi (treccani.it/vocabolario/), si sta effettivamente ampliando (e non solo in Italia), per includere nella cultura della cancellazione anche ciò che della storia del passato viene ricondotto a comportamenti aggressivi e non rispettosi della cultura e della vita di altre popolazioni. L’estensione è impropria, ma non è difficile cogliere il parallelismo che la genera: se non si può costringere al silenzio chi la pensa diversamente da noi, per quanto odiose siano le sue affermazioni, ancor meno si possono annullare gli eventi del passato, per quanto ingiusti oggi possano apparirci. Che un prestito linguistico si adegui, nella forma o nel significato, alla lingua di arrivo è cosa antica e rivela anche la forza con cui le lingue preservano autonomia e identità: gli esempi di anglismi che si sono fissati in italiano con un significato a volte del tutto estraneo al termine originario sono tanti e alcuni anche di antica attestazione. Se nel Tema, contrariamente alle nostre abitudini, abbiamo fatto ricorso a un prestito dall’inglese, è stato sia per l’estensione che il termine va subendo in italiano, sia perché, nella condanna della curatrice cui ci siamo riferiti all’inizio, era implicita una censura verso chi aveva nominato i padri escludendo le madri: la cancellazione era dunque duplice. Non ci sembra, invece, che cancel culture possa definirsi un “plastismo”. Le cosiddette "parole di plastica”, secondo la definizione che per prima ne ha dato Ornella Castellani Pollidori, nel volume La lingua di plastica del 1995, sono termini ed espressioni logorati dall'uso, che finiscono per impoverire il lessico. Non ci sembra che, almeno per il momento, la definizione si adatti a cancel culture, non sempre pienamente aderente al senso della parola inglese ma non così abusata.
Infine, al signor Luigino Goffi, che ha firmato ben quattro consistenti interventi, affrontando anche questioni che trascendono l’argomento in questione, diciamo soltanto, senza entrare nel merito delle sue osservazioni, spesso interessanti, e delle sue proposte, che l’italiano è una lingua naturale, che nel suo sistema fonomorfologico è rimasta sostanzialmente fedele al fiorentino trecentesco, cosa che, tra l’altro, spiega la presenza di due diversi articoli maschili, il e lo, che possono entrambi ridursi, rispettivamente a ’l, con aferesi, o a l’, con elisione (che peraltro, davanti a parola iniziante per vocale, può avvenire anche con la). Ebbene, le lingue naturali (specie quando hanno alle spalle una lunga tradizione di scrittura e di cultura) non sono molto disponibili ad accogliere modifiche calate dall’alto, sulla base di nuovi orientamenti del pensiero e di nuove idee. Inoltre, i problemi della corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale, del sessismo linguistico e del linguaggio inclusivo, che sono certamente di grande attualità, sono stati già oggetto di vari interventi sul sito della Crusca (sia tra i temi del mese, sia nelle pagine del servizio di consulenza linguistica) e non intendiamo riaffrontarli ora. Ci sembra invece giusto ricordare, per concludere, che ogni interpretazione del passato deve considerarsi aperta a revisioni sulla base di nuove possibili (ma imprevedibili) scoperte e che ancor meno prevedibile è il futuro, i cui scenari, costantemente in evoluzione, sono soggetti anche a cause del tutto esterne alla volontà di uomini e donne. Sul piano della lingua italiana, poi, potremmo portare una serie di esempi di letture e interpretazioni di testi antichi che sono tuttora dibattuti, nonché di ipotesi sul futuro della lingua che sono state poi smentite dai fatti: non sempre le “linee di tendenza” che vengono correttamente individuate sulla base dei dati del presente (e del passato) danno gli esiti attesi.
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