Qual è il genere grammaticale di Dio?

di Rosario Coluccia

L'accademico Rosario Coluccia invita alla riflessione e alla discussione sull'uso non sessista della lingua.


Le polemiche contro l’uso sessista della lingua hanno una storia più che trentennale. All’origine (1987) c’è un aureo libretto di Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, risultato di un’indagine sulla terminologia specifica ricorrente nei libri di testo e nei media. La ricerca metteva in risalto la prevalenza “storica” nella lingua italiana del genere maschile, che si manifesta in nomi usati con doppia valenza, ritenuti validi per il maschile e per il femminile; tale prevalenza di fatto annulla in moltissimi casi la presenza del soggetto femminile. Con forza veniva sottolineato il mancato uso di termini istituzionali e di potere declinati al femminile (ministra, sindaca, assessora, ecc.) e per conseguenza il prestigio intrinsecamente accordato al termine maschile a scapito del corrispettivo femminile (non usato o usato pochissimo e in maniera saltuaria). Il libro conteneva delle Linee guida (con precisi suggerimenti operativi) rivolte alle scuole e all’editoria, volte a favorire l’eliminazione delle discriminazioni di genere dal linguaggio.

Ecco alcune raccomandazioni a proposito di titoli, cariche, professioni e mestieri. 1.Evitare di usare il maschile di nomi di mestieri, professioni, cariche, per segnalare posizioni di prestigio quando esiste il femminile. Ad esempio: no "Maria Rossi, amministratore unico (di grandi aziende, società, ecc.)", sì  "Maria Rossi, amministratrice unica (di grandi aziende, società, ecc.)"; no "Maria Rossi, procuratore legale", si "Maria Rossi, procuratrice legale"; no "Maria Rossi, ambasciatore", sì "Maria Rossi, ambasciatrice". 2. Evitare di usare al maschile nomi di cariche che hanno la regolare forma femminile. Ad esempio: no "il senatore Maria Rossi", sì "la senatrice Maria Rossi"; no: "il notaio Maria Rossi", sì "la notaio Maria Rossi"; no "Maria Rossi, ricercatore universitario", sì "Maria Rossi, ricercatrice universitaria"; no "il commendatore Maria Rossi", sì "la commendatrice Maria Rossi". 3. Evitare di usare al maschile, con articoli e concordanze maschili, nomi che presentano la medesima forma, con doppia valenza maschile e femminile. Ad esempio: no "il giudice Maria Rossi", sì "la giudice Maria Rossi"; no "il parlamentare Maria Rossi", si "la parlamentare Maria Rossi"; no "il preside di Facoltà Maria Rossi", sì "la preside di Facoltà Maria Rossi". 4. Evitare di usare al maschile o di femminilizzare con il suffisso –essa nomi di professione che hanno un regolare femminile in –a. Ad esempio: no "il deputato Maria Rossi", sì "la deputata Maria Rossi"; no "il magistrato Maria Rossi", sì "la magistrata Maria Rossi", no "il ministro Maria Rossi", si "la ministra Maria Rossi", no "il sindaco Maria Rossi", sì "la sindaca Maria Rossi". Ulteriori indicazioni, costruite sulla base dei medesimi criteri, offrivano un vero e proprio amplissimo campionario a disposizione di parlanti e scriventi intenzionati a sottrarsi al prevalente uso sessista della lingua, a volte praticato anche preterintenzionalmente.

Come capita alle novità importanti, il libro fu oggetto di apprezzamenti e di critiche e aprì un dibattito reale sui temi trattati: dietro le parole che utilizziamo c’è il mondo, evocatore di questioni che non sono solo linguistiche. Il libro fu ripubblicato a Roma nel 1993, sotto l’egida della Presidenza del Consiglio dei Ministri, all’interno della Commissione Nazionale per le pari opportunità tra uomo e donna, corredato tra l’altro da un saggio di Francesco Sabatini, significativamente intitolato Più che una prefazione (i due Sabatini non sono imparentati, a dispetto della omonimia nel cognome). Fu un segnale importante, la discussione era ormai entrata nella società e a livello istituzionale.

Ancora oggi, permangono al riguardo opinioni molto diverse, anzi contrapposte. Molti esprimono perplessità di fronte a forme femminili sentite come inusitate, giudicate manifestazioni di una sorta di ipersindacalismo linguistico ("le differenze non si eliminano con trucchetti terminologici"). Inoltre frequentemente affiorano valutazioni che potremmo definire di tipo estetico: i nuovi sostantivi femminili appaiono “brutti”, “non piacciono”, di conseguenza risultano inaccettabili. Nel dicembre 2016 Giorgio Napolitano, ex Presidente della Repubblica, durante il discorso di ringraziamento per un premio che gli era stato attribuito, rivolgendosi con tono fermo a Valeria Fedeli, ex ministra all’Istruzione, disse: "Valeria non si dorrà se insisto in una licenza che mi sono preso da molto tempo, quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o in quello abominevole di sindaca". Un applauso accolse le sue parole, evidentemente condivise da uomini e donne di varia cultura e ideologia. Infine c’è chi ritiene che declinando una carica al femminile si perda una parte del prestigio intrinseco alla carica o si rischi di essere meno rispettate. Come se la declinazione al femminile fosse in qualche modo sminuente per quella persona. Giorgia Meloni vuole essere qualificata come “il presidente”, rivendicando la parità ideologica di genere proprio con l’adozione del maschile. Sinistra e destra non differiscono granché, nei due episodi che abbiamo ricordato.

Sul versante opposto si collocano molti che rivendicano orgogliosamente l’uso dei nomi femminili come simbolo di un’insopprimibile esigenza paritaria, originata da profondi rivolgimenti sociali. Per la prima volta nella storia, le donne raggiungono posizioni di responsabilità un tempo esclusivamente maschili. Non suscitano perplessità parole come cuoca, infermiera, maestra, sarta, ecc.; le donne praticano da sempre quelle attività, troviamo ovvio e naturale parlare cosi. In ambito sportivo, non generano obiezioni sciatrice o nuotatrice (qualcuno definirebbe Sofia Goggia sciatore o Federica Pellegrini nuotatore?). Analogamente, argomentano molti, poco alla volta, ci abitueremo a magistrata, rettrice, architetta, ecc. La fine della discriminazione, il trionfo dell’inclusività, l’annullamento del differente trattamento linguistico riservato ai generi possono essere obiettivi della società intera. Ci collochiamo su questa strada quando diciamo "Care colleghe, cari colleghi", "Care studentesse, cari studenti" (non è un obbligo, semmai un invito che ricalca il tradizionale "Signore e signori").

Alcuni si spingono oltre. Nella volontà di “opacizzare” il genere grammaticale, si ricorre ad artifici diversi, sostituendo in vari modi la terminazione tradizionale di nomi e aggettivi. Alcuni usano l’asterisco in fine di parola, in forme come "Car* collegh*" e "Car* tutt*"; oppure ricorrono allo schwa, come in "Carə studentə"; oppure ancora adottano come finale anche il numero 3, come in "Quello che è successo di riguarda tutt3, a prescindere dal colore politico di ognun3 di noi". Non sappiamo se questi stratagemmi prevarranno (la lingua appartiene a tutti e non ammette forzature), ma le finalità paiono condivisibili. Bisogna tuttavia chiedersi fin dove è possibile inoltrarsi. Resto perplesso quando leggo che proprio in questi giorni nel mondo anglosassone, ci si pone il problema di definire il genere (grammaticale) di Dio e ci si chiede se sia ancora il caso di intercedere presso il "Padre nostro" (al maschile, finora). In Germania, un gruppo di giovani progressisti propose un paio d’anni fa di cambiare il pronome relativo maschile "Der" con il neutro "Das" quando si nomina la Divinità. La faccenda è complicata, non solo linguisticamente. Come si potrebbe cambiare il "Padre nostro", preghiera ed espressione indicata direttamente da Gesù? ("Voi dunque pregate così"). Discutere del sesso di Dio richiama alla mente le medievali discussioni sul sesso degli angeli, inconcludenti e interminabili (lo dico con il massimo rispetto e senza nessuna competenza teologica). A volte anche opinioni all’origine condivisibili possono generare effetti esagerati, o forse ridicoli.

Per concludere. È giusto e opportuno, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte relative al genere, evitando ogni forma di sessismo. Ma, per raggiungere l’obiettivo, non si può forzare la grammatica mettendola a servizio di un’ideologia. Trasferire brutalmente nella lingua posizioni ideologiche non è possibile, le estremizzazioni non sono opportune né offrono soluzioni effettive al problema della mancata inclusività, che è un fenomeno sociale da affrontare con strumenti idonei.

Redazione
12 aprile 2023 - 00:00
Commento di chiusura di Rosario Coluccia
Prima d’ogni cosa ringrazio gli intervenuti, numerosissimi. È davvero difficile dare una risposta collettiva, analitica e adeguata alla varietà degli argomenti proposti; mi scuso se sarò a volte generico e, giocoforza, parziale.  Non conosco la qualifica o il titolo professionale di tutti coloro che hanno scritto; mi limiterò pertanto a indicarne il nome e cognome, senza altro titolo o appellativo.
Luigino Goffi  ha firmato quattro interventi, ripresentando in parte opinioni già da lui espresse nei commenti ad altri Temi del mese e offrendo proposte innovative radicali (peraltro interessanti e degne di attenzione). Vero è che l’italiano odierno (a base fiorentina) si è formato nel corso della sua storia più che millenaria e che le sue strutture (grafiche, fono-morfologiche, sintattiche e lessicali) sono il risultato di processi molteplici di concorrenza e selezione all’interno di possibilità diverse. La lingua cambia di continuo (ci mancherebbe) ma i parlanti e gli scriventi decidono liberamente (avrei scritto democraticamente, se non avessi il dubbio che l’avverbio possa apparire eccessivo). Decidono senza votare, ma (consapevolmente e inconsapevolmente) sulla base di modelli  e suggestioni di varia provenienza; mai o quasi mai sulla base di modifiche calate dall’alto, anche improntate a criteri razionali o logicistici.
Rosalia Negretto e Riccardo Guerini segnalano un paio di refusi. Torno a ringraziarli, ripetendo il mio apprezzamento per la cura e per l’attenzione che i lettori riservano agli articoli che appaiono nel sito dell'Accademia. La ricerca del rigore è salutare, in un mondo spesso dominato dall’approssimazione.
È un gioco, senza alcun dubbio, l’intervento di Mauro Seppia, confezionato in una lingua scritta forse mimetica del parlato (non so se dello scrivente  o da lui inventata a bella posta). Se Seppia ha voglia, mi scriva e sciolga la mia incertezza. 
Si soffermano sulla discussione (che è anche nel titolo del Tema) riguardante il genere grammaticale di Dio i commenti (con varia angolazione) di Nicola Annunziata, Edoardo Cavallini, Giampaolo Giollo, Marco l’espatriato, Luca Monari, Mattia Pagano,  Swami Turiyananda e altri che sono stati già citati o saranno citati dopo, perché trattano anche ulteriori  argomenti. A tutti ripeto che, con il massimo rispetto e senza nessuna competenza teologica, mi sono permesso di sfiorare l’argomento solo a titolo esemplificativo. Intendevo sottolineare l’inopportunità di certe forzature, la lingua non può vicariare questioni religiose o ideologiche, che vanno discusse nelle sedi loro proprie.
Con impostazione analoga ho proposto i temi del sessismo linguistico e del linguaggio inclusivo (e delle proposte grafiche che affrontano tali temi). Ne hanno parlato Giuseppe Di Maio, Ida Anna Distinto, Luca Fiocchi Nicolai, Marina Pilati e altri. Le posizioni sono differenti, oscillano tra il rifiuto netto e l’accettazione ampia delle proposte da più parti avanzate. Sono molto utili, in proposito, le considerazioni offerte da Salvatore De Masi riguardo all’interpretazione dell’art. 3 della Costituzione proposta dall’avv. Massimo Sgrelli, fino al 2008 Capo del dipartimento del Cerimoniale di Stato. Il dibattito, in corso da decenni, resta di grande attualità. Alcune settimane fa il Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione ha posto all’Accademia della Crusca una domanda riguardante il rispetto della parità di genere nella stesura degli atti giudiziari. Saggiamente la Corte di Cassazione sollecita una riflessione sul tema che tocca la quotidianità di chi lavora nei settori del diritto, dell’amministrazione della giustizia, della burocrazia delle istituzioni pubbliche. Riguarda anche,  in particolare,  chi con l’italiano lavora quotidianamente: magistrati, e anche avvocati, professori, giornalisti. E coinvolge, in generale, tutti noi che parliamo e scriviamo in italiano. Al quesito della Corte, l’Accademia ha risposto dettagliatamente richiamando i principi che permettono di stabilire regole o raccomandazioni per un uso della lingua rispettoso della parità di genere (chi è interessato trova il testo intero qui: https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/l-accademia-risponde-a-un-quesito-sulla-parit-di-genere-negli-atti-giudiziari-posto-dal-comitato-par/31174). 
Lavorano nella scuola Carla Citro, Lorenzo Collina, Stefania Ignazzi, Marialuisa Passarelli, Rosa Scarano, Porzia Volpe. I loro commenti sono preziosi, perché mostrano con tutta evidenza quanto difficile sia insegnare l’italiano nelle classi; e con quanta accortezza e capacità di riflessione i docenti affrontano le questioni che riguardano la didattica della nostra lingua. Dobbiamo essere grati agli insegnanti. Operano in condizioni difficili: proprio in questi giorni si pubblicano dati assai preoccupanti, che segnalano tassi di abbandono dell’obbligo scolastico intollerabili per un paese democratico (questa volta sì, uso l’aggettivo). Nella scuola e nell’università si gioca la sfida decisiva, quella che segna presente e futuro della lingua e dell’intera società italiana.

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Luca Monari
31 marzo 2023 - 00:00
Autorevoli esponenti della moderna corrente spiritualista, di entrambi i sessi, osserverebbero che il genere di Dio è femminile. Per definizione, "colei che dona la vita" è femmina. Alcuni si spingono a proporre un termine alternativo, che efficacemente coinugherebbe al femminile il concetto di Dio: la Fonte Divina. Personalmente, ritengo irrilevante la questione. Non è con le acrobazie grammaticali e lessicali che risolveremo la questione sessista.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
28 marzo 2023 - 00:00
Non vado a caccia di insignificanti refusi, tanto per apparire colto. Non l'Accademia decide su tali questioni, bensì, purtroppo, in modi dittatoriali, il TG1. I suoi conduttori, dietro indicazioni che possono essere stringenti, addomesticano il linguaggio della massa, sempre ansiosa di adeguarsi ai modelli istituzionali. I riottosi seguono. Prima delle parole vi sono le cose. Maschile e femminile condensano la storia delle strutture gerarchiche. Gli estremisti ci sono sempre stati, essi a guisa di arieti assestano colpi per essere poi messi da parte dai normalizzatori. Il futuro non sarà degli asterischi, algebrici e inespressivi, ma certo delle sindache. Perché a me queste forme non piacciono? semplice, per via del rimpianto che ho delle società di antico regime.

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Rosario Coluccia
24 marzo 2023 - 00:00
Ringrazio Rosalia Negretto per aver segnalato il refuso "....possono generale effetti esagerati, ..." . È giusto, vanno curati anche i dettagli minimi. Aggiungo che sono compiaciuto per la cura (quasi l'acribia) con cui i lettori leggono gli articoli dell'Accademia. Mai approssimazione, in nessun caso. Rosario Coluccia

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Rosalia Negretto
21 marzo 2023 - 00:00
Alla Scuola della Crusca segnalo "umilmente" il refuso in articolo del Prof. Rosario Coluccia: "....possono generale effetti esagerati, ..."

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Luca Gucci
15 marzo 2023 - 00:00
Da dove salta fuori un'affermazione cosí: Ad esempio: no "Maria Rossi, [...], sì "Maria Rossi, [...] ? È lecito per un Accademico usare una lingua cosí storpiata (alla Lino Banfi)? “Sí badrone, no badrone”? Mala tempora currunt...

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Nicola Annunziata
10 marzo 2023 - 00:00
Imagine there's no heaven No hell below us Above us, only sky Il tema è interessante. Per i credenti.

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riccardo guerrini
10 marzo 2023 - 00:00
Mi scuso per l'ingenuità, ma in quello che il professor Coluccia ha scritto a proposito della professione di notaio, indicando come corretta locuzione "la notaio Maria Rossi", il maschile è un refuso, o in questo caso il femminile non c'é? Sul vocabolario Treccani vedo "notàio (o notaro; ant. e region. nodaro) s. m. (f. -a, non com.)": sembra quindi che esista anche notaia, seppure non comunemente usato.

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Luigino Goffi
19 marzo 2023 - 00:00
A volte i refusi aiutano a pensare in modo innovativo. Se diciamo che "la notaia" è femminile, e il maschile è "il notaio", come formeremo, poi, il neutro? Nelle realtà sessuate, il neutro è molto più importante del maschile e del femminile. A nessuno, infatti, interessa il sesso di un notaio, quanto piuttosto che sappia fare bene il suo lavoro, redigendo atti che prevengano future controversie. Se a me serve un notaio, non devo essere costretto da una lingua che non ha il neutro, come l'italiano, a pronunciare - se voglio essere preciso - una frase lunghissima come "Mi serve un notaio o una notaia". Una lingua deve avere una singola parola - il neutro, appunto - che li ricomprenda entrambi, come quando diciamo "persona" per riferirsi sia a un maschio che a una femmina. La soluzione che mette d'accordo precisione e velocità, senza sconvolgere l'italiano, è quella di considerare il termine più diffuso, e cioè "il notaio", come solamente neutro, e formare il maschile e il femminile - quelle pochissime volte che servirà - cogli articoli sessuati, senza variare il nome: "lo notaio" e "la notaio" (colla "-o" finale, come indicato dal refuso). Se, infatti, dicessi "la notaia" (colla "-a" finale) saremmo di nuovo daccapo, e il problema non sarebbe risolto, perché - chiediamoci -: una volta scritto "la notaia", "il notaio" sarebbe maschile o neutro? Se fosse maschile - come nell'italiano attuale - come formeremmo il neutro in modo veloce? Colla schwa, colla "-u" finale, con altre cacofonie inudibili? Se, invece, il maschile "il notaio" fosse usato anche come esteso al femminile - cosiddetto maschile allargato, che altro non è che il neutro, ma mal gestito - che razza di precisione avremmo? Lasceremmo tutto all'interpretazione, dimenticando che l'interpretazione deve essere un'operazione immediata, che non ci faccia perdere tempo, e che la lingua è stata inventata dall'uomo per farci capire i contesti, e non sono questi ultimi a doverci far capire la lingua: lo strumento è la lingua, la comprensione dei contesti è lo scopo. Le lingue devono essere precise, se vogliono resistere al tempo. Se chiediamo a un latinista che cosa significhi "rosae", se "della rosa", "alla rosa", "le rose" o "o rose", ci risponderà che lo si capirà dal contesto mediante l'interpretazione. E, a questo punto, capiamo immediatamente perché il latino si è estinto, e l'italiano ha preso il suo posto, e, inoltre, perché la voglia di studiare latino è, oggi, così poco radicata. Il problema vero è che, mentre l'italiano non fa molte distinzioni - ad esempio non distingue: 1: tra articoli e pronomi ("la sveglia" che cosa significa? "l'orologio con suoneria" o "la sta svegliando"?), 2: né tra una "di" specificativa, possessiva o autoriale (che cosa significa "il ritratto di Gauguin"?: che rappresenta Gauguin, che è di proprietà di Gauguin, o che è stato dipinto da Gauguin?), 3: non distingue tra soggetto e complemento oggetto (nella frase "Golia, vince, Davide", le virgole ci fanno intuire che c'è stata un'inversione soggetto/complemento oggetto, ma, rallentando, esse, la dizione, chi le mette più?), e, 4: non distingue tra un "si" riflessivo e un "si" indefinito (che cosa significa "si pensa"? "pensa sé stesso" o "tutti pensano"?) - _ al contrario, l'inglese, queste distinzioni, le fa, e questa è la ragione del suo successo. Noi italiani non facciamo caso a questi difetti, ma gli stranieri sì; ed ecco spiegata la loro continua litania: "L'italiano è bello [cioè eufonico] ma è difficile [cioè difettoso]". E non si replichi che l'inglese ha altri difetti (ad es. la totale scissione tra lettura e scrittura) perché loro hanno vinto la 2^ guerra mondiale, e possono fare quello che vogliono, noi no. Come si vede, c'è molto da lavorare, per far attraversare indenne un altro millennio alla nostra lingua.
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Rosario Coluccia
16 marzo 2023 - 00:00
Riservandomi di dare un riscontro collettivo alla chiusura della discussione, rispondo immediatamente alla giusta osservazione di Riccardo Guerrini. Sì, "la notaio Maria Rossi", contiene un refuso, è giusto "la notaia Maria Rossi". Così del resto suggerisce Alma Sabatini, nel libro da cui siamo partiti (Il sessismo nella lingua italiana), a p. 110. Grazie per aver fatto notare il refuso, Rosario Coluccia
Luigino Goffi
09 marzo 2023 - 00:00
L'8 marzo 2023, il Parlamento italiano ha commemorato Elettra Deiana, recentemente scomparsa. Elettra Deiana firmò, assieme a quattro altri studiosi, un Dizionario sessuato della lingua italiana, un utilissimo libretto di una sessantina di pagine, dedicato ad Alma Sabatini, e pubblicato come supplemento al n° 15 della rivista "Avvenimenti" del 20 aprile 1994. Come è scritto nell'Introduzione, lo scopo di questo dizionarietto è quello di "riportare alla luce il femminile". Il loro lavoro è stato quello di trovare, per ogni termine maschile, il corrispettivo femminile, che, però, giusta le loro idee, non fosse sminuente. Secondo loro, ad es., "dottoressa" sarebbe un femminile svalorizzante di "dottore", e gli sarebbe, invece, da preferire "dottora" (forse anche perché della stessa lunghezza sillabica del maschile). Nessuno in generale, però, è sfiorato dall'idea che entrambi i termini ("dottoressa" e "dottora") possano essere problematici. L'inconveniente del metodo da loro usato è quello di aver accettato acriticamente l'impostazione tradizionale, per la quale il termine "il dottore" è solo maschile. E' chiaro che, una volta formato il femminile ("dottora" secondo loro, "dottoressa" secondo l'italiano attuale), non è più possibile formare l'indispensabile neutro, per l'esiguo numero di vocali altamente distinguibili; ed ecco allora farsi avanti soluzioni inaccettabili, come le vocali pochissimo distinguibili: lo "schwa", la "-u" finale, e altre ancora peggiori. La verità è che non è affatto importante riportare alla luce il femminile, quanto, piuttosto, creare il neutro, perché nelle professioni, e, in generale, in tutte le realtà sessuate, distinguere tra maschile e femminile è poco utile, mentre è utilissimo - per questioni di velocità e precisione - disporre del neutro, al fine di potersi riferire a entrambi con una sola parola (es. "persona" invece dell'ambiguo "uomo", per riferirsi sia ai maschi che alle femmine). La soluzione è, allora, quella, innanzitutto, di considerare comune, e non più solo maschile, l'articolo "il" (come fa giustamente il maltese), e, poi, di usare il termine più diffuso (es. "dottore") non pel solo maschile, ma pel neutro. Per quelle poche volte in cui servirà distinguere, gli articoli sessuati saranno più che sufficienti; ad es.: "il leone è un felino ", "lo leone ha la criniera", "la leone no". Se, poi, volessimo usare "il" anche pel maschile e il femminile, allora le desinenze migliori sarebbero "-uo" e "-ua" atone, perfettamente italiane - viste le parole italianissime di "vacuo", "equo", "irriguo", "esiguo", ecc. -. Avremo così "il leònuo" e "il leònua". Questa non è ideologia, non è moda, come, invece, qualche sbrigativo [neutro] vorrebbe rinfacciarmi, ma perfezionamento, velocizzante e precisante, di una lingua che non interessa più agli spietati e anglofoni tempi nuovi, per farla ridiventare appetibile a quegli scienziati e a quelle istituzioni che l'hanno ripudiata. Quello che certi umanisti non vogliono capire è che gli scienziati sono molto sensibili alla precisione e alla velocità, e se una lingua non ha queste caratteristiche la rifiutano, senza tanti complimenti. E' vero che ci son di mezzo interessi economici, ma bisogna pur ammettere che la strada giusta - riguardo al tema che ci interessa - l'ha imboccata l'inglese, quando ha deciso di formare in prima battuta solo parole neutre (es. "the bird"), e su queste costruire il maschile ("the he-bird") e il femminile ("the she-bird") (Walt Whitman, Foglie d'erba, 11° Starting, rispettivamente 3° e 2° verso). L'italiano, purtroppo, dopo aver fatto - per merito dei suoi Immortali - tante scelte vincenti (terminazione vocalica delle parole semanticamente piene, ripudio delle inutili declinazioni, ecc.) ha imboccato, qui, la strada perdente: quella di formare in primo acchito solo parole maschili (es.: "dottore"), e su queste costruire il femminile ("dottoressa"), impedendosi, così, di formare il neutro, a causa dell'esiguo numero di vocali chiare e distinte. Ma se noi cambiassimo impostazione, e considerassimo "il dottore" come solamente neutro (e, quindi, riferentesi al maschile e/o al femminile), e formassimo il maschile e il femminile - quelle poche volte che serve distinguere - nel modo indicato, il discorso correrebbe veloce, lasciandosi alle spalle discussioni interminabili e inutili, e facendo dell'italiano una lingua veramente internazionale: bella, precisa, veloce, e facile da imparare..

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Giampaolo Giollo
03 marzo 2023 - 00:00
Un murales che credo si trovi ancora dipinto sul Muro di Berlino nel tratto divenuto museo all'aperto recita; HOW'S GOOD? SHE'S BLACK. Dalla Genesi : Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza. Maschio e Femmina li creò Francamente trovo la discussione assurda.

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Giampaolo Giollo
03 marzo 2023 - 00:00
Sul tratto del muro di Berlino trasformato in museo all'aperto è stato dipinto un murales; HOW'S GOD? SHE'S BLACK. Dalla Genesi: Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza. Maschio e Femmina li creò. Trovo assurdo l'argomento sul sessismo della lingua

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Swami Turiyananda
28 febbraio 2023 - 00:00
C'è poco da fare, per il discorso su Dio toccherà rifare ordine, rispolverare un buon neutro tipo "Lu Diu" oppure anche, visto che già ci saremo avvicinati a un bel barese banfese, "Lu Diə", così facciamo contenta anche la professora Murgia.

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Giuseppe Di Maio
27 febbraio 2023 - 00:00
Egr. Prof. Coluccia considero importante quanto da lei sostenuto, profondo e da condividere; ogni cambiamento, per quanto necessario, deve essere affrontato con moderazione. Il percorso per portarci fuori da un uso sessista della lingua, lo immagino ancora lungo e tortuoso e spetta alla scuola il compito di guidare la società lungo questo cammino, ben supportata da studiosi ed istituzioni specializzate. Distinti saluti.

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Luigino Goffi
25 febbraio 2023 - 00:00
1: L'unica possibile definizione di Dio, come essere perfettissimo, dimostra, oltreché la sua esistenza, anche la sua asessualità, perché se Dio fosse un maschio, ci sarebbe, inevitabilmente, anche un Dio-femmina, e, allora, Dio non sarebbe più l'essere perfettissimo, l'Unico, non abbisognante di altri. Dio, dunque, in quanto unico, è neutro: né maschio, né femmina. 2: Ma, allora, che articolo anteponiamo alla parola "Dio" se in italiano esistono solo articoli maschili e femminili? La soluzione è di aggiornare la nostra lingua considerando l'articolo "il" non più come solo maschile singolare, ma come un articolo comune - come lo "il" maltese e il "the" inglese - anteponibile, così, a qualunque nome, di qualunque genere e numero. Questa soluzione non è pensata solo pel caso in questione, ma è generale, ed è suffragata dal fatto che l'introduzione dell'articolo comune "il" e delle desinenze del neutro risolve contemporaneamente ben sette problemi presenti nella nostra lingua e mai risolti (alcuni li ho trattati nel Tema precedente, altri sono in nete (rete internet)). Questo dà diritto a ricevere delle critiche tecniche, con ragionamenti stringenti e controesempi probanti. 3: Ma come facciamo col "Padre Nostro", tramandatoci da Gesù stesso? Abbiamo a che fare con testi tradotti da uomini: sono affidabili senza il controllo della logica? La logica dimostra - lo abbiamo visto - che Dio è neutro, e che non si può fare altro che prenderne atto. L'unica soluzione possibile è quella di sostituire la "P" di "Padre" con una lettera molto simile, sia pur diversa, in modo da neanche accorgersi del cambiamento. Penso che la "F" sia la più adatta al còmpito", anche perché il neologismo ottenuto, "Fadre", riecheggia l'inglese "Father". Il termine "Fadre", però, è neutro e risolve il problema senza alcun inconveniente, perché tra "Fadre" e "Padre" c'è ben poca differenza di suono. 4: A supportare ulteriormente tale soluzione di introdurre il neutro con la congiunta tecnica dell'articolo "il" come articolo comune, e della formazione di parole neutre _ c'è la constatazione che la locuzione "il Dio dei cristiani" inserita nella regola grammaticale attuale che considera "il" come articolo solo maschile _ è non solo sbagliata ma addirittura eretica perché ha come conseguenza logica inevitabile l'accettazione di due Dii: uno maschile e un altro femminile: il che è contraddittorio rispetto all'unica definizione possibile di Dio, come abbiamo visto all'inizio. Naturalmente tale constatazione non ha niente a che spartire con le condanne di Torquemada, ma fornisce un argomento in più per rendere più precisa la nostra lingua: quella precisione che oggi il mondo pretende se non si vuol essere spazzati via dalla storia, come è capitato al latino e al greco antico: due lingue che avevano imboccato la sbagliata strada delle declinazioni, che sono un imbelle tentativo di fare a meno delle preposizioni, salvo poi accorgersi che di quest'ultime non potevano fare a meno per l'altissimo numero dei complementi. Ne son venute fuori due lingue complicate, che la razionalissima e spietatissima storia ha messo in soffitta. Certo, è dura ammetterlo per chi, come me, ama il mondo classico, ma il non voler capire che questa estinzione è avvenuta per mancanze interne a quelle lingue, più che pel ferro delle spade _ ha come conseguenza la non percezione generale del grave pericolo di estinzione che la lingua italiana sta correndo. I problemi di sopravvivenza della lingua italiana sono nati quando l'invenzione tutta italiana del personal computer (l'Olivetti Programma 101) è volata verso lidi anglofoni, diventando, colle opportune implementazioni, un successo mondiale di lingua esclusivamente inglese. Persa questa battaglia che sta sancendo la fine dell'italiano (oggi anche certe istituzioni italiane sono contro l'italiano), non resta che salvare il salvabile presentando al mondo una lingua italiana riformata che sia LA PIU' BELLA (lo è già, ma bisogna respingere i vari schwa, asterischi, 3, e altre carnevalate con cui non ho niente a che spartire, come dimostrano le mie soluzioni, rispettosissime della grande metrica dei Classici, presentate e dimostrate nel Tema precedente), LA PIU' PRECISA (e il Tema corrente dimostra che non lo è affatto), LA PIU' VELOCE (e qui caliamo un velo pietoso, che spero, però, dopo un lavoro enorme, di sollevare e gettare alle ortiche prima di ritornare alla casa del Fadre), e LA PIU' FACILE da imparare pei bambini e stranieri (e anche qui c'è molto da lavorare). Di fronte all'immane còmpito che ci attende, bisogna prendere lezioni dalla storia, perché chi si rifiuta di migliorare la propria lingua sarà costretto, un giorno, a parlare quella degli altri.

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Risposta
Edoardo Cavallini
21 marzo 2023 - 00:00
Essendo Dio l'origine di tutto ciò che esiste, ponendo l'umanità nella posizione più alta, possiamo concludere che non è un essere neutrale, cioè non è il Padre o la Madre, ma i Genitori, entrambi allo stesso tempo in perfetta armonia. L'effetto riflette qual è la causa. Non c'è nulla nell'effetto che non sia nella causa... "Legge di causa ed effetto". Per capirlo, basta vedere la Sua creazione (Romani 1:20), che esiste tra gli esseri in una posizione maschile (yin, positiva, iniziatrice) e femminile (yang, negativa, rispondente), che assicura la perpetuità di ogni cosa, la sua stessa esistenza, azione e moltiplicazione di tutto. Pertanto, essere sindaco/sindaca, ministro/ministra o presidente/presidenta non è il titolo più grande che possiamo possedere, in quanto esseri umani diventare genitori non è solo la posizione più alta nella società, ma è ciò che ci rende uguali Dio. Essendo Dio o un essere etereo, il suo più grande desiderio è che l'umanità si sostanzi in ciascuno. Questa è la nostra più grande responsabilità come Suoi figli.
Risposta
Luigino Goffi
09 marzo 2023 - 00:00
Risposta al commento critico di Marco l'espatriato. 1: A livello di concetti, il nulla esiste, altrimenti non potremmo neanche parlarne; ma a livello di realtà il nulla non esiste, e non può esistere, perché dire che il nulla esiste anche nel mondo reale significa contraddirsi. Quando Parmenide, nel frammento 6, afferma - anzi: constata - che "L'essere è, mentre il nulla non è", lo dice a livello di esistenza nel mondo reale, non a livello di concetti, perché sa benissimo che se non esistesse il concetto di "niente", neanche potrebbe parlarne. 2: Che cos'è il tutto? Il tutto è la dimensione al di fuori del quale non c'è niente. Di conseguenza, il tutto non può comprendere in sé il niente perché il niente è la dimensione che sta al di là del tutto, e questo per la semplice ragione che il niente non c'è, non esiste, non è reale, e, dunque, come farebbe, il tutto, a comprendere, o ad entrare, in una dimensione che non esiste? La Sua affermazione che "se Dio è tutto, allora deve essere anche niente" - che equivale a dire che per essere tutto bisogna anche essere niente - non è condivisibile perché, appunto, il niente sta al di là del tutto - nel senso che al di là del tutto non c'è niente -, e, quindi, il tutto non può andare in una dimensione che non esiste. La verità è che, per essere tutto, Dio deve respingere il niente, non: essere anche il niente. 3: Il Suo ragionamento La porta a concludere che "Dio è niente". Ma così, poi, dovrà dimostrare l'erroneità dell'argomento ontologico di S. Anselmo d'Aosta: un'impresa titanica, in cui è crollato pure Kant, che sperava di cavarsela col fallace argomento dei cento talleri. Che cosa diceva Anselmo? Il solo pensiero dell'essere perfettissimo, cioè di Dio, ne comporta necessariamente l'esistenza, perché che essere perfettissimo sarebbe se mancasse della caratteristica di esistere? La risposta di Kant può essere sintetizzata così: il pensiero di avere in tasca cento talleri non equivale ad averli per davvero. La fallacia sta nell'equiparare cento talleri all'essere perfettissimo; cento talleri non sono l'essere perfettissimo e, pertanto, potrebbero ben mancare della caratteristica di trovarsi dentro le mie tasche.
Risposta
Marco l'espatriato
06 marzo 2023 - 00:00
Ecco il solito argomento fallace sul concetto di Dio: Dio è asessuato, non è maschio e manco femmina; allora stiamo ponendo delle limitatizioni a questo Dio. Se Dio è omnipotente puo` essere quello che gli pare. Se Dio è tutto, allora deve essere anche niente altrimenti non potrebbe essere tutto. Il tutto deve comprendere il niente altrimenti gli manca qualche cosa per essere tutto. Insomma, alla fine Dio è niente. Come al solito non riusciamo ad esprimere o capire il concetto di Dio; io non lo capisco; ma chi lo capisce? A me sembra che ogni volta si tenti di definire Dio si è già commesso un errore, è semplicemente un problema malposto, ovvero non ha soluzione logica. Epimenide ce l'ha insegnato un sacco di tempo fa. PS: conoscete qualcuno che ha una buona definizione del niente e del tutto?
Mauro Seppia
24 febbraio 2023 - 00:00
Io nnel sò, nunnò studio, deste cose nummene ntendo, so gito ntlAvviamento io, nunsò struito. Quilli chènno studi, steveno tle Medie, ppu tal llassico, laversità, i sèrno artorni saputi; no’ de lAvviamento no, finimme i gimme subeto a lavorà, eccusicché nunsapen gnente. Ma, ppeccaso, mè nuto da lègge quil chete scritto vo’ sor profesore, i mè piaciuto, se vede che vo’ sete unde quille che le cose le sonno i le sonno ardì; i quirartre nco chonno arrisposto, tutta gente struita, saputa, ppenno’ che nunnemo studio, poté legge quilche vo’ dicete fa bene tla capoccia: cumplimente. Ipperò mo’, vorria dedì quilche penso io desta facenda de dio, comèche lon de chiamà, nunchiamà, fa nunfà, eccusì; ppemme, chennnò studio ma vò sempre tla missa la domenica asintì quanne lèggheno ntol libre, la facenda starìa ccusì. E’ Mmosè cha creo sta cunfusione, quannè nuto giù colistruzione tle piètre, à visto sto vitelo (ilche podìa adiesse na vitella e tuttgiva bene, quistè lponto) gliènno gire, glià tiro adosse ste piètre iafatto nmacello; glionno chièsto scusa i lu’ aarrisposto, vabè, artorno su da lu’; istà tuquì, glia ditto da lu’, nunnà ditto da lè, inché vitelo i vitella (vitela i vitello nco) giveno bene tuttidui, lu e lè no, à ditto lu’ i alore gli brèi onno penso ènmaschio, chiamammlo padre, quilcha mando giù doppe figlio, quilartre che steva collu spirto, i le femene ncèrno più. E’cchlo nduèchiè! Li ntichi no, li ntichi più ntichi furbe nguastiti, peggio dli cuntadine sta storia leveno arrisòlta, lore lassù, ce nonno missi nmucchio, maschefemene, ccusìcché nunceveno sto problema, lu’ dio, lè dea: i punte. Quisto levon fatto tutte, li grèchi, romani, gligizi, tittiti, llaltre nco i nunnènno tuttuguale no, chièchèchefusse ceva li sui, tulì sèra artorno pieno dadannasse; ppu però ènno rivi gli brèi, artorni de babbillonea ndu evon miro sta stòria, onditto ma ntuqui ènno troppe nuncentreno, facen cumeva ditto Mmosè, levammli tutte e lasciammne uno; lòn fatto, i cumèche Mmosè eva parlo lu’, alore è resto dio, nnmaschio nsomme. Io nunsò struito, so gito ntlAvviamento, deste cose nummene ntèndo maPemmé, a pensacce, mesache quilchesta lassù nunnè maschio, nunnè femena, quisto sen no’ de quaggiù, ardivisi, ndu sta lu’ nò, è tuttargiunte, tuttune, accusicché nuncenno maschi, nuncenno femene. E’cchlo. Alore, cumèche sarresolve? sil chiaman dio comen fatto finmmo’, tuttè maschio, le femene reston fòra inunnè giusto, purine. Ciò penso, ippù mè nuta nidea; evo miro na volta nnafare den Gerolemo, nsaputo grosso, stevaparlà conartre saputo come lu’, nGustino, inché emo dartornà ndiètre ppé mirà quelchè chevon fatto li primi, eccusì ce sò artorno. Li più antiche, ligizi, li ghèchi presempio, mma quirartre nco, ceveno dio i dea, steva bene, tuttedritte, nuncèrno probleme. I si no’ pigliamme nnpò tuqui impò tulà ntol lore, levammglie lmaschio i la femena, o a, ccusì ciarmane di-de, podia adiesse de-di ma di-de marsòna mejio, ppu largiontamo, dide, cla maiuscla chè armasto lu’ sole, cumanda tatutte i lemo darrisppetà: Dide. Nun podrìa adiesse? Ppeqquilchè lpadre u madre, mesò ditto, dividemmle npetsettine, cemo pa-dre ma-dre; ardividemmle meglio, p-adre m-adre, emiratu, quanne levan lappe, ippù lamme armane adre, igual iguali ppettuttidui, nunsardistingueno, i podemme de fa ccusì; tame me piace: Dide, Adre nostro che stai nei… icuntinuà. Lfiglie i quilcollu’, spirte, nucedon probleme, no’ de ntuqui li chiamano cla e ntla fine, ccusì posseno armané. Alore serìa: Adre, Figlie, Spirte, tuttensieme DIDE. Chevepare? Podìa de gi? Faceteme sapé, che vo’ chèrte studi nta ste cose ve ciarcapezzate mèjo. Io spètto ntuquì. Arvedecce i steteme bbene. Pèppe

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Mattia Pagano
24 febbraio 2023 - 00:00
Sono d'accordo con quanto detto dal professore Coluccia. Il dibattito sul genere di un Dio, seppure affascinanti, sono per forza di cose sconclusionati, poiché non potrà mai essere avanzata una risposta finale da alcuno. Per quanto riguarda la discussione sul sessismo nella lingua italiana, non si può forzare né suggerire nessuno di usare un vocabolo a sfavore di un altro: le consuetudini sono invincibili.

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Ida Anna Distinto
24 febbraio 2023 - 00:00
Il linguaggio veicola pensieri, emozioni,abilità empatiche di comunicazione. Se ci viene richiesto di usarlo in termini diversi possia.o farlo evolvendoci nell' uso che ne facciamo diretto adun ricevente il messaggio da noi espresso. Non mi disturba essere chiamata dottore o dottoressa, mi dispiacequando il titolo a cui ho diritto e merito non viene usato e mi si chiama " signora" tra colleghi maschi che sono "dottori"! Bestialità residue. Invece ciò a cui tengo è il rispetto ad esempio per le persone non binarie con l'uso della schwa e con le forme verbali adeguate,per evitare mortificazioni a chiunque. La lingua evolve, Dante ce lo insegna e quindi è bene essere pronti e disponibili.

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Pilati Marina
24 febbraio 2023 - 00:00
Una volta ci insegnavano che la lingua è come un organismo vivente e si modifica da sola adeguandosi alla realtà. Se la si vuole forzare per seguire la moda o il galateo politico la lingua diventa brutta. Quando saranno tante le donne a ricoprire la carica di presidente, ministro ecc. la denominazione al femminile si imporrà naturalmente .Perchè penso che separare la farina dalla crusca significhi anche salvare la bellezza.

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Lorenzo Collina
24 febbraio 2023 - 00:00
La Dirigente Scolastica della scuola in cui lavoro, al momento in cui si deve stendere il verbale dei consigli di classe, non vuole che si cambi l'articolo "il" perché afferma che la funzione del dirigente scolastico sia al maschile nei documenti ufficiali e farlo comporterebbe problemi di natura burocratica. Mi sembra strano ma non impossibile, date le tante assurdità osservate anche in ambiti istituzionali. Ovviamente non ho modo di trovare riscontri personalmente.

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Porzia Volpe
23 febbraio 2023 - 00:00
Chiarissima relazione e utile contributo anche per uso didattico. Concordo con il prof. Coluccia che non ci si possa adeguare ai cambiamenti ideologici e mode e che necessitano punti fermi e regole.

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SALVATORE DE MASI
22 febbraio 2023 - 00:00
Come sempre più spesso accade, condivido pienamente l’impostazione da te data nell’affrontare il «tema del mese». La moderazione deve essere il nostro faro soprattutto nell’affrontare temi che coinvolgono sensibilità e sentimenti che attraversano la nostra società. Val la pena richiamare, al riguardo, un’altra studiosa, Cecilia Robustelli, la quale, in un intervento in rete, affermava: «Alma Sabatini, autrice nel 1987 del primo studio sul sessismo nella lingua italiana, propose di sostituire quasi tutte le forme in –essa. Ma chiaramente non ha senso farlo per parole entrate nell’uso e prive di connotazioni ironiche o dispregiative come dottoressa, professoressa, poetessa; è sempre meglio preservare forme radicate nell’uso, perché ogni forzatura in un organismo vivo e vitale come la lingua è fuori luogo». Purtroppo, oggi, ci troviamo ancora tra due estremismi. Da una parte, chi ancora, a distanza di quasi un quarantennio, rimane fermo nell’idea che questo aspetto della lingua debba rimanere immutato e immutabile; dall’altra chi pretende di «forzare la grammatica mettendola a servizio di un’ideologia». Tali sembrano anche a me i tentativi di introdurre simboli estranei all’alfabeto della lingua italiana, ai quali non corrisponde alcun suono. Va ricordato che la realizzazione orale è un prius per le lingue naturali, sia per la specie umana sia per gli individui. Come leggeremo tutt*, tutt3 o anche lo stesso tuttǝ? Penso che un cambiamento di questo tipo non sia possibile e allora è necessario trovare altre soluzioni; anzi, la lingua ha un’altra soluzione: la neutralizzazione, in determinati contesti, delle opposizioni. Vale ai diversi livelli linguistici, perché non dovrebbe valere anche in questo caso? Sull’altro versante, vorrei richiamare soltanto l’interpretazione dell’art. 3 della Costituzione proposta dall’avv. Massimo Sgrelli, fino al 2008 Capo del dipartimento del Cerimoniale di Stato. L’articolo 3, egli sostiene, «dichiara la parità di genere. Ciascuno ha libero accesso a cariche e impieghi pubblici senza distinzione fra uomini e donne. Per cui non si può avvalorare alcuna distinzione di genere nella qualificazione delle cariche, fondata sulla personalità di chi la ricopre… Insomma, non è possibile introdurre specifiche per sottolineare il genere di chi ricopre una carica pubblica, perché la Costituzione ha annullato, a monte, questa possibilità, affermando, appunto, l’eguaglianza generale». Allo stesso modo, Sgrelli dovrebbe prestar fede all’ipotesi assurda di non poter introdurre specifiche per sottolineare, all’occorrenza, la fede religiosa di qualcuno, poiché la Costituzione ha affermato l’eguaglianza generale. La Costituzione, con ogni evidenza, ha rimosso qualsivoglia ostacolo all’accesso alle cariche pubbliche, ma ognuno lo fa con le proprie peculiarità, genere compreso. Penso, infine, che le speculazioni anglosassoni sul sesso della divinità siano null’altro che una bizzarria. La divinità non dovrebbe avere determinazioni di sesso e il nome umano “padre” indica solo una relazione tra la stessa e i credenti. La cultura delle popolazioni che hanno scelto il nome di questa relazione non poteva che condurre alla qualificazione di “Padre”. Piuttosto, se volessimo seguire queste elucubrazioni, dovremmo chiederci perché Dio Padre ha inviato sulla terra, per la redenzione del genere umano, proprio il figlio e non la figlia, sarebbe, questa, una prova del sessismo di Dio? Come si vede, a ragionar sul sesso della divinità, si rischia di dire sciocchezze.

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Rosa Scarano
21 febbraio 2023 - 00:00
Caro Professore, concordo pienamente col fatto che non è la grammatica che va posta a servizio dell'ideologia, piuttosto essa dovrebbe essere lo strumento per veicolarla. Se si mira dunque ad affermare le pari opportunità, se davvero si punta ad un processo di inclusione che riconosca anche identità sessuali diverse, bisognerebbe privilegiare l'importanza del ruolo che si occupa, indipendentemente dal genere di chi lo svolge. Se un domani si scoprisse che le amebe pensano, quale altro genere ci inventeremmo? Non si può dunque tener testa alle mode né ai rapidi cambiamenti: con l'evoluzione accelerata del linguaggio di questi ultimi tempi, con l'ingresso di neologismi, anglicismi, termini specialistici vari che per facilitare spesso finiscono col complicare la decodifica del messaggio, rischiamo continuamente di travisare il pensiero altrui, di evitare le forme di comunicazione, di tendere maggiormente al disimpegno. La questione mi sembra generata dall'ennesima ricerca di velleità propagandistiche; non avendo valide proposte innovative sul piano culturale ci si abbandona a polemiche non solo sterili, ma a mio avviso addirittura dannose. Infatti quanta confusione in più si genererebbe tra i nostri allievi, già inclini a futili distrazioni e non poco disorientati, sia ora tra i banchi di scuola, sia, e ancor più, un domani quando si prepareranno per un colloquio di lavoro, o si troveranno a scrivere una lettera al dirigente, una relazione al capo, un referto per un paziente. E per allora cosa sarà previsto dalla linguistica corrente? Se un elemento oggi ci salva dall'individualismo e dal relativismo imperanti, principali causa dell'indifferenza nella quale scivoliamo, è la consapevolezza che una tradizione linguistica e culturale ci accomuna, ci rende fieri, ci stimola. Essa non va pertanto scalfita da vuoti sofismi, bensì rinsaldata da contributi che abbiano un fondamento epistemologico, che nascano da un'esigenza reale e premente, che puntino a migliorare e non a complicare ulteriormente la qualità dell'intesa. Spendersi per una questione del e sul genere ci riporta alla foga dei futuristi che, nella loro sete di protagonismo più che di effettiva misoginia, toglievano l'apostrofo a un'auto. La loro esaltazione sarebbe stata una concausa del primo grande conflitto. Cambiare fa bene, ma ne deve valere davvero la pena e non vanno persi di vista buon senso, moderazione, prudenza, ovvero misure di etica e di assunzione di responsabilità. Riterrà banali queste mie considerazioni, ma le consideri un pretesto per ringraziarla delle lezioni di vita ancor più che di dibattito che ci offre. Rosa Scarano

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Carla Citro
21 febbraio 2023 - 00:00
Egregio professore, condivido in toto il suo ragionamento e le sue osservazioni. A tal proposito aggiungo che la nostra lingua, con la sua varietà e molteplicità di forme e varianti, consente comunque e sempre di offrire opzioni che non mortificano nessun genere. Basta saper usare il nostro ricco, splendido e fornito vocabolario italiano. Per quanto riguarda il tema religioso è per me meraviglioso immaginarmi un Dio donna, creatrice e creatore di noi creature. Lo trovo rivoluzionario, come il nostro Papa Francesco, che più volte ha fatto cenno all'argomento, suscitando sgomento e sconforto tra le file ecclesiastiche e non. Nella speranza di nuovi stimoli futuri cordialmente la saluto, ringraziandola per la qualità del suo corso e dei suoi interventi.

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Marialuisa Passarelli
20 febbraio 2023 - 00:00
Sono pienamente d’accordo con il prof. Coluccia. Credo e affermo che la grammatica non possa essere soggetta a cambiamenti ideologici di nessun genere. Gli studenti sono facilmente influenzabili dalle mode, infatti per loro, è del tutto normale adesso non distinguere più il “genere” di un nome, perché è indifferente, ma noi insegnanti abbiamo il dovere di guidarli e munirli degli strumenti necessari, affinché possano utilizzarli nel miglior modo possibile. Dobbiamo fargli comprendere che le regole della grammatica ci sono e devono essere rispettate.

Rispondi

Stefania Ignazzi
20 febbraio 2023 - 00:00
Ricco, efficace e pregevole il contributo del professor Rosario Coluccia. La lingua è prezioso strumento di espressione di idee e pensieri, ma è anche campo aperto di sperimentazioni. È la Storia che ce lo ricorda: la lingua muta e dinamicamente si adatta al trascorrere dei tempi e la vitalità del parlato si traduce nella varietà della lingua.

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