L'accademico Nicola De Blasi propone una riflessione sui dialetti italiani e sul loro rapporto con il concetto geografico e politico di regionalità.
Ottobre 2023
Sono stati appena pubblicati dall’editore Carocci alcuni libri della collana “Dialetti d’Italia” dedicata alle regioni: Lombardia di Federica Guerini, Piemonte e Valle d’Aosta di Riccardo Regis e Matteo Rivoira, Toscana di Leonardo Maria Savoia. Altri titoli affini sono usciti di recente presso il Mulino: La Puglia e il Salento di Michele Loporcaro, Napoli e la Campania di Pietro Maturi. Sono libri aggiornati e ricchi di notizie utilissime per gli studiosi e per gli appassionati, che in questo campo sono molto numerosi. Queste opere meritorie e qualificate si inseriscono in una ricca e fruttuosa tradizione di studi, non nuova tra l’altro a iniziative di divulgazione.
Sembra, insomma, che non vi sia nulla di insolito, ma, a ben guardare, spicca una novità di fondo, a suo modo implicitamente clamorosa: si tratta dei primi libri sui dialetti destinati anche a un pubblico potenzialmente ampio, che può essere convinto erroneamente di sapere già tutto sull’argomento, in forza di una prima informazione messa insieme prelevando dalla rete, in modo occasionale e sparso, notizie di ogni genere, non di rado infondate. Anche per l’ambito dialettologico, infatti, la rete diffonde prospettive e convinzioni spesso incompatibili con quelle scientifiche del settore, ma sostenute e amplificate localmente nelle tante “bolle” mediatiche che caratterizzano questo tipo di comunicazione. Si registra insomma in internet la fortuna di una sorta di dialettologia parallela in apparenza destinata a non incontrarsi mai con le nozioni della Dialettologia italiana, poiché molte persone si informano esclusivamente attraverso la rete: lettori senza libri, insomma, che adesso però possono incontrare, volendo, trattazioni adeguate ai loro interessi.
C’è quindi da sperare che questi nuovi titoli costituiscano un’opportunità decisiva proprio per gli appassionati che siano eventualmente disposti a mettere in dubbio idee poco fondate proposte in rete come certezze generali e assolute. Figura, tra queste, una convinzione abbastanza diffusa, ma accettabile solo in parte, secondo cui in ogni singola regione italiana, nessuna esclusa, accanto ai vari dialetti locali, esisterebbe un dialetto regionale o una lingua regionale, cioè una varietà linguistica parlata nell’intera regione e comprendente al suo interno, come una specie di “dialetto cassetto”, tanti dialetti geograficamente meno estesi. Secondo questa prospettiva, ogni parlante dialettofono sarebbe in grado di usare due dialetti, da un lato quello di un luogo specifico (in genere natìo), dall’altro un dialetto comune all’intera regione. Gli studi dialettologici, però, non autorizzano questa convinzione nella sua formulazione più generale e categorica. Precisiamo subito, per inciso, che qui non è in discussione il nome (dialetto o lingua sono denominazioni del tutto equivalenti rispetto al problema considerato), ma solo l’aggettivo regionale, usato per alludere a una varietà dialettale, tendenzialmente uniforme, parlata in un’intera regione: un’etichetta del genere, accettabile in una conversazione generica, è inadeguata per quasi tutte le regioni italiane e non trova riscontro nella realtà.
La descrizione dei dialetti, com’è noto, tiene conto delle differenti caratteristiche fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali rilevate nel tempo attraverso indagini sul campo. Una monumentale opera analitica d’insieme che offre questo quadro è l’Atlante Linguistico ed Etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS), realizzato circa un secolo fa e oggi visibile anche in rete (www.navigais.it). Una rappresentazione cartografica è stata curata nel 1977 da Giovan Battista Pellegrini (1921-2007) in una Carta dei dialetti d’Italia che mostra le diverse aree dialettali, con le loro differenze e somiglianze (dove le somiglianze non segnano mai una totale uguaglianza). In tale carta i confini sono segnati da linee (o, piuttosto, aggregazioni di linee) denominate isoglosse, che indicano i limiti della diffusione di certe caratteristiche (così, per esempio, le zone in cui le consonanti intense latine, tra due vocali, si conservano sono distinte da quelle in cui invece le consonanti intense si indeboliscono; le zone in cui le vocali toniche sono sette sono distinte da quelle in cui le vocali toniche sono cinque ecc.).
In sintesi, un gruppo di isoglosse relative a fenomeni di un certo rilievo distinguono i dialetti settentrionali da quelli centrali (è la cosiddetta Linea La Spezia – Rimini), mentre altre isoglosse (che più o meno vanno da Roma ad Ancona) distinguono l’area centrale da quella centro-meridionale e altre ancora differenziano i dialetti mediani da quelli meridionali e questi da quelli meridionali estremi (che si trovano in Sicilia e nelle parti meridionali di Puglia e Calabria). All’interno di tutte queste aree corrono altre isoglosse, relative a caratteristiche di minore rilevanza, ma sempre ben percepite dai parlanti come qualità specifiche che distinguono una zona dialettale dall’altra. Proprio le isoglosse permettono di osservare che diverse regioni italiane sono attraversate da linee che le tagliano in zone dialettali nettamente distinte. Questo dato, nella Carta, risalta a colpo d’occhio, nella zona peninsulare, per Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo, oltre alle citate Puglia e Calabria. Per queste regioni sarebbe davvero impossibile sostenere l’esistenza di un unico dialetto regionale, ma isoglosse e ripartizioni areali interne mostrano in realtà una sensibile diversificazione linguistica in varie altre regioni, dalla Basilicata alla Lombardia. La complessa realtà dialettale è poi ribadita sin dal nome nel caso dell’Emilia-Romagna, la cui articolazione interna appariva palese anche a Dante, il quale alludeva all’area bolognese come alla zona in cui per dire “sì” si usava sipa (Inferno XVIII, 59-61), mentre nell’area romagnola il “sì” era reso con deuscì (come scrive nel De vulgari eloquentia).
Fin qui, anche senza scendere nei dettagli, si vede che il quadro geografico e dialettologico non autorizza l’affermazione secondo cui in ciascuna regione italiana esisterebbe un dialetto (o una lingua) regionale in uso nell’intera regione al fianco di singoli dialetti locali. Un’idea di questo tipo non reggerebbe la verifica della realtà, né quella della teoria, poiché un modello descrittivo persuasivo dovrebbe essere valido per tutti i casi analizzati e non soltanto, poniamo, per un caso su dieci. Vero è che in qualche regione alcuni dialetti (di grandi città) più di altri hanno conosciuto una notevole fortuna, letteraria e lessicografica, ma è da dimostrare che di fatto siano usati o siano stati usati da parlanti di ogni località dell’intera regione. Vale a dire che le numerose opere letterarie della Lombardia, tra l’altro illustrate da una mirabile Antologia della letteratura milanese a cura di Silvia Morgana (Roma, Salerno editrice, 2022), non fanno del milanese, fino a prova contraria, “la” lingua o “il” dialetto dell’intero territorio regionale. La stessa cosa vale per il napoletano, dialetto di notevole fortuna letteraria, ma non identificabile direttamente con “il” campano, come è precisato dal citato libro di Pietro Maturi su Napoli e la Campania, che illustra le specificità delle diverse aree dialettali della regione. Di sicuro, insomma, nessuno in Campania ritiene di parlare o scrivere “il” campano, così come in Basilicata nessuno ritiene di parlare “il” lucano, o in Emilia-Romagna verosimilmente nessuno pensa di usare “il” dialetto regionale denominabile emiliano-romagnolo. Prova ne sia che proprio la Regione Emilia-Romagna, dopo aver emanato, la scorsa estate, un bando volto a sostenere iniziative di valorizzazione dei dialetti, ha individuato e premiato tredici progetti connessi a varietà di singole località.
Per lo più l’idea di un dialetto regionale unitario, come scrive Giovanni Ruffino (Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 3) a proposito della Sicilia, «non è che un’astrazione: la realtà è costituita dalle singole varietà locali, che sono diverse, e spesso assai diverse l’una dall’altra». Perciò, sulla base dei dati dialettologici, più che di un singolo dialetto regionale sarebbe più opportuno parlare di diversi dialetti usati in un’area regionale: non il dialetto campano o il dialetto lucano, quindi, ma, al plurale, i dialetti campani, i dialetti lucani ecc. In qualche caso tuttavia una singola varietà cittadina è stata considerata e trattata come “una varietà guida”: è ciò che è accaduto in Piemonte, dove un ruolo egemone è stato assunto dal dialetto di Torino, identificato con una koinè regionale piemontese, a partire dalla prima grammatica e dal primo vocabolario del piemontese (entrambi opera, nel 1783, di Maurizio Pipino), che non descrivono “l’insieme delle varietà regionali, bensì il solo torinese, e più precisamente la varietà in uso presso la corte sabauda” (come scrivono Regis-Rivoira nel volume citato all’inizio), anche se in seguito usata in testi letterari da autori non torinesi. Tale dato è rilevante sul piano storico-linguistico, ma altrettanto rilevante è il fatto che “entro i confini del Piemonte” siano parlati altri dialetti (tra cui quelli di tipo lombardo, ligure, emiliano), insieme con occitano, francoprovenzale e walser; negli ultimi decenni, del resto, anche i poeti dialettali di area piemontese hanno spesso optato non per il piemontese comune ma per il proprio specifico e locale dialetto natìo. Un altro caso particolare riguarda l’area veneta, dove “esiste ormai da tempo una koinè veneta che si è costituita sul modello del veneziano, la varietà di prestigio” (Carla Marcato, Il Veneto, in I dialetti italiani, a cura di Manlio Cortelazzo et alii, Torino, Utet, 2002, p. 296). Quindi per il Veneto e per il Piemonte (pur con le precisazioni relative alla presenza di altri dialetti), si può parlare, secondo la bibliografia scientifica, di una koinè regionale, che però non corrisponderebbe a un modello teorico e descrittivo generalmente valido per tutte le altre regioni.
Per la descrizione dei dialetti occorrerebbe invece fondarsi sull’osservazione della realtà, che deve tener conto degli usi e delle percezioni dei parlanti, anche di quella particolare categoria di parlanti rappresentata dai poeti in dialetto, i quali rendono visibile sia la ridotta inclinazione degli abitanti a riconoscersi in una eventuale varietà regionale (considerata la resistenza di un radicato e multiforme campanilismo), sia la diversificazione interna delle diverse aree regionali, rispecchiata dalla poesia espressa nei dialetti locali.
A proposito di fraintendimenti legati alle regionalità, infine, va segnalato un problema particolare, connesso a un equivoco amplificato dalla rete. Fermandosi a uno sguardo affrettato della Carta dei dialetti di Pellegrini, di cui tra l’altro circolano, e non solo in rete, versioni semplificate o alterate (per esempio con la cancellazione di quasi tutte le isoglosse), qualcuno potrebbe credere che in tutta l’Italia meridionale non estrema si parli un dialetto unico. Forse è ciò che è capitato ai consulenti dell’Unesco, visto che in una vasta area, che va dalle Marche (San Benedetto del Tronto) fino alla Calabria settentrionale e alla Puglia, l’Unesco colloca una varietà unica denominata “italiano del Sud” o Continental Southern Italian oppure, secondo la dizione di Ethnologue, “Napoletano-Calabrese”, lasciando intendere che i tanti dialetti di questa enorme area siano tra loro molto simili e sostanzialmente interpretabili come dialetti locali “di” una sola e unica lingua sovraregionale (https://www.ethnologue.com/language/nap/, Continental Southern Italian | UNESCO WAL). Deriva da ciò, tra l’altro, l’errata convinzione da molti ripetuta secondo cui l’Unesco avrebbe ufficialmente riconosciuto il napoletano come lingua o, perfino, come la seconda lingua d’Italia. Ma chi avesse la pazienza di condurre verifiche nella realtà si accorgerebbe facilmente che nessun dialettofono barese, materano, teramano o cassinese (o di altre località comprese in questa area) sarebbe sbrigativamente etichettabile come parlante locale di una “supervarietà” napoletano-calabrese, che non esiste, quale che sia l’etichetta che si voglia adottare per nominarla. Anche in questo caso le dimostrazioni più persuasive provengono dalla realtà e dagli usi dei parlanti, l’una e gli altri in genere ben noti ai dialettologi. D’altronde, chi vuol farsi rapidamente un’idea di tale molteplicità può trarre sicuro vantaggio dalle testimonianze dei poeti, oltre che, naturalmente, dalle descrizioni proposte dai libri ricordati all’inizio.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).
Il Tema ha suscitato interventi che sembrano concordare con l’impostazione e con i contenuti proposti. A questo primo dato si somma un’altra osservazione altrettanto positiva. Come accade molto spesso quando si portano al centro dell’attenzione i dialetti, anche in questa circostanza le persone intervenute rivelano non solo un vivo interesse, ma anche un notevole coinvolgimento personale rispetto all’argomento. Gli interventi dei lettori hanno anche il merito di permettere la sottolineatura di tre punti particolari. Filippo D’Andrea, autore di un libro sui poeti del Lametino, conferma come la poesia dialettale, con la stretta adesione degli autori ai propri luoghi, non punti a essere espressione di un unico dialetto regionale, ma resti saldamente ancorata alle forme linguistiche di un’area specifica ben circoscritta. Beatrice Maria Chiara Filetti, da parte sua, spera che il dialetto (ma – aggiungiamo – sempre auspicabilmente accompagnato da una buona padronanza dell’italiano) non sia più visto come indizio culturale in sé negativo. Il tema è stato trattato nel libro L’indialetto ha la faccia scura. Giudizi e pregiudizi linguistici dei bambini italiani (Palermo, Sellerio, 2006) di Giovanni Ruffino, che di recente è tornato sull’argomento nella "Rivista del Dizionario Etimologico e Storico del Napoletano (unina.it)". Nel primo numero di questa rivista sono anche svolte da diversi autori alcune riflessioni sul tema della salvaguardia dei dialetti, che tra l’altro può fondarsi su una buona e corretta divulgazione delle nozioni di base della Dialettologia italiana. Da questo punto di vista svolgono appunto una funzione informativa anche gli autori di blog che, come Fulvio Cesario, prendono in considerazione le parole e i modi di dire dei dialetti.
Rispondi
Rispondi
Rispondi
Rispondi